di Carlo Musilli

Lontano nella memoria c'è un Cavaliere che annuncia la sua discesa in campo, l'avvento della rivoluzione liberale. Otto anni dopo quello stesso Cavaliere torna alla ribalta, aizzando le folle al grido di "meno tasse per tutti". Passano ancora sette anni e per la terza volta lo scettro del potere finisce nelle mani dello stesso uomo. Il ritornello è sempre uguale: "Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani". Ora che il sogno è finito, il cuore di Silvio Berlusconi "gronda sangue". Di fronte a lui, la prova inequivocabile del fallimento. Dopo 17 anni passati a promettere senza mantenere, è stato costretto addirittura all'empietà più inimmaginabile. Il Cavaliere ha alzato le tasse.

Si dirà che non è dipeso da lui, perché la crisi è mondiale. Certo è che se nell'ultimo decennio fossimo stati amministrati, il peso della cura a cui oggi siamo obbligati sarebbe inferiore. La tempesta non si poteva evitare, ma ci si poteva arrivare con una nave in condizioni migliori.  

Purtroppo così non è stato. Fino all'ultimo hanno continuato a ripeterci che andava tutto bene. Banche solide, famiglie solide, economia solida. Abbiamo avuto bisogno del commissariamento europeo per accorgerci che il nostro teatrino era fuori tempo massimo. Il direttorio franco-tedesco e la Bce ci hanno obbligato a gettare la maschera. Per guadagnarci l'aiuto di Francoforte (che continua ad acquistare i nostri titoli di Stato) siamo stati costretti a rabberciare in pieno agosto una manovra finanziaria bis da 45 miliardi. L'obiettivo è raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013 anziché nel 2014.

Il decreto approvato venerdì sera dal Consiglio dei ministri si regge su quattro pilastri: aumento biennale dell'Ipef sui redditi medio-alti, tagli ai ministeri e agli Enti locali, anticipo della delega fiscale e assistenziale e tassazione al 20% delle rendite finanziarie (misura, quest'ultima, che l'attuale Governo ha sempre bollato come bolscevica).

Gli interventi più dannosi sono i prime due, che potrebbero addirittura avere effetti recessivi. I tagli che colpiranno gli Enti locali indeboliranno ancora di più i servizi e le prestazioni sociali. Quanto all'addizionale Irpef, il prelievo è differenziato fra lavoratori dipendenti e autonomi, con i secondi colpiti a partire da cifre dichiarate molto più basse. Ed è come ammettere che gli autonomi evadono le tasse. Ecco il punto centrale: noi italiani siamo un popolo di evasori incalliti, quindi la stangata sull'Irpef non ricadrà affatto sui ricchissimi professionisti, ma sul ceto medio di lavoratori dipendenti costretti all'onestà. La colpa principale di queste persone è di non rappresentare il prototipo dell'elettore medio Pdl.

In sintesi, non solo (ancora una volta) la manovra è priva di qualsiasi misura che possa favorire la crescita, ma provocherà un'ulteriore contrazione dei consumi. Cosa ancora più grave se si considera la stagnazione cronica della nostra economia, il livello di disoccupazione e la quota galattica raggiunta dal debito pubblico.

Nessun dubbio: arrivati a questo punto un piano "lacrime e sangue" era inevitabile. Ma di alternative migliori ce n'erano eccome. Ad esempio, invece di tassare ancora una volta i redditi, si potevano tassare gli immobili (con il ritorno dell'Ici sulla prima casa) e i patrimoni in generale. Questa categoria di prelievi ha un impatto molto minore sulla crescita economica. Ma per Berlusconi sarebbe stato davvero troppo. L'abolizione dell'Ici rimane ancora oggi uno dei suoi principali motivi di vanto e la patrimoniale è vista ad Arcore come roba da Unione sovietica.

"Piuttosto mi dimetto", ha risposto a chi si è azzardato a sottoporgli l'ipotesi. Anche se il bersaglio era quello sbagliato, il premier ha alzato le tasse. Ad un imprenditore con la passione per i sondaggi, forse, non si poteva chiedere di più.

Ormai al Cavaliere dal cuore sanguinante non rimane che tamponarsi il petto e cercare di andare avanti. La partita è tutt'altro che è chiusa. Anzi, il bello deve ancora venire e si giocherà sul campo della politica. Sembrano passati secoli dalle ultime elezioni, ma incredibilmente mancano ancora due anni alla fine della legislatura. Bisognerà tirare fuori dal cilindro qualche dozzina di conigli per tenere unita la maggioranza così a lungo. Mentre crescono le tensioni interne al Pdl, l'appoggio della Lega si fa sempre più intermittente e il legame con Tremonti è ormai irrimediabilmente sfaldato. Mai così importante, mai così isolato, è proprio il superministro la mina vagante da tenere d'occhio.

di Carlo Musilli

Pensavano di aver chiuso i conti a luglio e di poter andare in vacanza tranquilli. Ma si sbagliavano. In questo strano agosto, ministri e onorevoli devono rimettersi al lavoro per battere cassa. La macelleria che avevano previsto nella manovra finanziaria approvata il mese scorso non basta più: devono trovare il modo di racimolare altri 20 miliardi nei prossimi due anni. E' questo il prezzo aggiuntivo che dobbiamo pagare per essere salvati dalla tagliola della speculazione.

Da venerdì l'Italia è ufficialmente commissariata. Per evitare che i mercati, continuando a scommettere contro di noi, ci mettano nelle condizioni di non poter più finanziare il nostro pantagruelico debito pubblico (cosa che scatenerebbe un effetto domino distruttivo in Europa), la Bce ha preso in mano le redini. Lo ha fatto con una misteriosa lettera firmata da Jean Claude Trichet, attuale presidente all'Eurotower, e Mario Draghi, suo prossimo successore. Il pressing più insistente in questa direzione è arrivato da Nicolas Sarkozy, terrorizzato all'idea di un nostro default, dal momento che che la Francia ha in tasca una fetta enorme del nostro debito. La Casa Bianca ha dato subito il suo appoggio. Più difficile è stato convincere Angela Merkel, perché la Germania, in quanto prima economia europea, sarà il Paese che dovrà pagare di più per correggere gli errori italiani. Per fortuna, alla fine anche la cancelliera ha dato il suo fondamentale placet.

Gli effetti di queste manovre si sono visti nella conferenza stampa straordinaria (e per la verità un po' goffa) tenuta venerdì sera da Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi. Su ordine di Francoforte sono state annunciate nuove misure che il Governo italiano metterà in campo per combattere la crisi finanziaria. In cambio dell'obbedienza, la Bce ha iniziato a comprare sul mercato secondario i nostri titoli di Stato. Una mossa inaudita, che non rientrerebbe nemmeno nelle responsabilità dell'Eurotower (sarebbe infatti compito del Fesf, il fondo europeo di stabilizzazione finanziaria, che tuttavia non ha ancora i capitali sufficienti). Una mossa che però ha spento l'incendio a Piazza Affari e soprattutto ha consentito al nostro spread di scendere nuovamente sotto la soglia psicologica dei 300 punti base (solo venerdì scorso era schizzato ad oltre 400).

Ma torniamo agli impegni che abbiamo dovuto prendere per meritarci un trattamento del genere. Li hanno chiamati "i quattro pilastri", ma in realtà il pilastro è uno solo. Sorvolando sulla riforma del lavoro (di cui ancora non si sa nulla) e sulle modifiche alla Costituzione (che ad essere ottimisti richiederanno almeno nove mesi di lavoro), il punto più importante è l'anticipo del pareggio di bilancio dal 2014 al 2013. Non si tratterà banalmente di far retrocedere di un anno i provvedimenti stabiliti della manovra. Bisognerà farli combaciare con i tagli già previsti dal decreto 78 del 2010, che ricadono sul biennio 2011-2012. E, soprattutto, sarà necessario trovare quei famosi soldi in più. Come fare? Un vero rompicapo, che pone almeno due problemi fondamentali.

Il primo, quello più scontato, è di natura tecnica. Considerando che gli Enti locali sono già allo stremo delle forze, sembra proprio che le mosse decisive della partita si giocheranno principalmente sul terreno della previdenza. Ad appena un mese dalla chiusura delle ultime diatribe si torna così a parlare di interventi assai impopolari: dal blocco delle pensioni d'anzianità all'innalzamento dell'età pensionabile per le donne nel settore privato, fino al taglio degli assegni di reversibilità in favore di coniugi e figli. Per quanto riguarda l'adeguamento alle aspettative di vita dell'età necessaria per raggiungere la pensione, potrebbe essere anticipato dal 2013 al 2012.

Di fronte a prospettive di questo tipo i tre sindacati confederali hanno già alzato un muro. Eppure sembra che il governo rimanga fiducioso. Le parti sociali potrebbero infatti digerire i nuovi interventi sulle pensioni se sull'altro piatto della bilancia vedranno materializzarsi i tanto sospirati provvedimenti contro i privilegi della casta. Non si parla solo dei tagli alla politica e alla burocrazia, che hanno un significato indiscutibile ma non sono in grado di smuovere grandi numeri. Tornano sul tavolo dei negoziati anche altre misure, tenute nel cassetto ormai da troppo tempo: su tutte la tassazione dei grandi patrimoni e delle rendite. Ma non è finita. Oltre a cospicui programmi di privatizzazioni e liberalizzazioni, sembra ci sia in ballo anche la resurrezione dell'Ici.

Il secondo problema è forse ancora più intuitivo del primo e certamente richiede meno spiegazioni. Il dubbio è politico. Molti investitori (soprattutto all'estero) faticano ad immaginare in che modo un governo screditato e debole come il nostro possa trovare la forza di imporre al Paese un periodo inevitabile di lacrime e sangue.

di Carlo Musilli

E' stato come ascoltare "'O Sole mio" mentre fuori cadeva una pioggia battente. L'altroieri alla Camera il premier Silvio Berlusconi ha parlato della crisi che da settimane sta soffocando la finanza italiana, ma le sue parole non hanno centrato il bersaglio. C'era grande attesa per un intervento che, nelle speranze di tutti, avrebbe dovuto imprimere una sterzata decisa alla direzione imboccata dal Paese. Per giorni si è parlato di nuove misure possibili da mettere sul tavolo così da riacquistare credibilità a livello internazionale e convincere gli investitori a non scommettere più contro di noi. Purtroppo nulla di tutto questo è arrivato. Anzi, il Cavaliere ha rispolverato qualche vecchia frase buona più o meno per ogni momento di buio. Lontano dalla realtà dei fatti, non ha proposto nulla di concreto. E chi si aspettava un cambiamento ha dovuto ripassare il copione degli ultimi dieci anni.


Partiamo dal quadro generale tracciato dal Presidente del Consiglio. E' vero che la crisi che stiamo vivendo ha dimensioni internazionali, che nasce dalle difficoltà di altri Paesi a ripagare il proprio debito ed è alimentata dall'attuale debolezza degli Stati Uniti. E' vero anche che la tempesta in corso è motivata dalla fragilità dell'euro e che proprio la moneta unica è l'obiettivo primo degli speculatori. Tuttavia nessuno può negare che ultimamente sia proprio l'Italia (ancor più della Spagna) nell'occhio del ciclone. La Borsa di Milano è crollata più delle altre in queste settimane e veste con una certa regolarità la maglia nera d'Europa. I nostri titoli di Stato sono senza dubbio alcuno i più bersagliati dalle vendite, tanto che lo spread Btp/Bund si sta a poco a poco avvicinando a quello dei più malandati cugini di Madrid. Di tutto questo si rende perfettamente conto anche il premier, tanto che ha avuto la saggezza di posticipare il suo discorso in Parlamento. Aprire bocca prima della chiusura dei mercati sarebbe stata una roulette russa con poche possibilità di sopravvivenza. Bisognava evitare una reazione a caldo delle Borse.


Ma veniamo alla situazione italiana. Su questo fronte Berlusconi ha ribadito ancora una volta quegli stessi concetti che sentiamo ripetere da quando negli Usa è scoppiata la bolla dei mutui subprime. Le nostre banche sono ben capitalizzate, solide, poco esposte sul fronte finanziario. Mentre le famiglie italiane si distinguono dalla media internazionale per l'alto livello di patrimonializzazione e per lo scarso indebitamento. Tutto vero. Tutto, drammaticamente, già sentito.


Cantare per l'ennesima volta gli stessi ritornelli in un momento del genere, purtroppo, non aiuta l'Italia sui mercati. Non suona come un'affermazione di forza, ma come un tentativo di giustificazione piuttosto goffo, evidentemente insufficiente. La tavola di legno a cui il naufrago si aggrappa quando sente che la corrente sta per tirarlo a fondo.
Ma andiamo avanti. Ammettiamo che la furia degli speculatori non si possa spiegare razionalmente con quello che accade nell'economia reale. Ci deve allora essere un altro motivo per cui i mercati ce l'hanno tanto con noi. Infatti c'è: la politica. Agli occhi degli stranieri non siamo credibili. E' bene chiarire che stiamo parlando sempre di investitori, non dei vertici comunitari, interessati quasi quanto noi a spegnere il fuoco che ci sta bruciando e quindi sempre inclini a regalarci una buona parola.


"Il nostro Paese ha un sistema politico solido", ripete instancabile Berlusconi. Forse qualcuno è ancora disposto a credergli nella Matrix italiana, ma fuori dai confini, nel mondo reale, avranno di certo sorriso. Laggiù vedono solo un Paese che ristagna e che non fa nulla per riattivare la crescita. Vedono un premier coinvolto in quattro processi, un ministro indagato per mafia e un deputato della maggioranza che svolge le sue funzioni pubbliche dal carcere. Il colpo di grazia lo ha dato l'inchiesta su Milanese, che ha gettato una cortina di fumo anche sull'immagine internazionale di Giulio Tremonti, fino a qualche tempo fa considerato totem del rigore e garante della tenuta dei conti. Il tutto condito da una Lega sempre più mina vagante. Nel complesso, il quadro è quello di un carrozzone che stenta a sopravvivere. Mentre ci spertichiamo in odiose litanie sul processo lungo e sui ministeri al nord, in pochi credono davvero che questo Governo possa portare a termine le riforme di cui il Paese avrebbe bisogno.


Uno scenario desolante, un arresto cardiocircolatorio che non attende altro se non il defibrillatore. Per questo il Quirinale aveva fatto pressioni in vista di una svolta e la Banca d'Italia si era perfino spinta a dare dei suggerimenti. Entrambe le istituzioni sono state però deluse dal Cavaliere, che ha parlato per quasi mezz'ora del debito e della crescita senza indicare alcuna strada concreta per cavarci fuori dal pantano. Riorganizzare le province, tagliare le auto blu, varare finalmente il paino per il mezzogiorno. Tutte misure positive, ma molto lontane da quello che servirebbe davvero. Se i mercati non credono che in futuro saremo in grado di ripagare il nostro debito mostruoso, l'unico modo per fargli cambiare idea è iniziare subito a ridurre il rosso delle nostre casse. E per farlo ci sarebbero delle strade: anticipare quelle misure che la manovra scarica sul biennio 2013-2014 (e quindi sul prossimo Governo), mettere in campo una sacrosanta patrimoniale.


Invece niente. Sono mosse inimmaginabili per chi è troppo attaccato alla poltrona e già la sente scottare. Fra calcoli e tatticismi, Berlusconi come sempre si è tenuto alla larga da ogni e qualsiasi autocritica, perdendosi addirittura nell'eco delle vecchie autocelebrazioni. Tutto questo mentre il mondo gli ripete che così non può andare avanti.

di Emanuela Pessina

BERLINO. “Ciao bella! Il tramonto del Paese più incantevole del mondo”. Così l’autorevole settimanale tedesco Der Spiegel ha titolato la copertina di una sua recentissima edizione, dedicandola interamente alla crisi della nostra Italia. Una crisi che è soprattutto economica, ma non solo: perché il caso italiano ha attirato l’attenzione della stampa internazionale alla luce del recente attacco della speculazione, ma la sua malattia è molto più profonda.

Ed è così che Der Spiegel traccia il ritratto di un Paese paralizzato a livello politico, economico e culturale, che fa fatica ad affermarsi nell’economia globale nonostante la sua presenza nell’olimpo dei Paesi più industrializzati. Un’immagine già di per sé triste, costantentemente schiacciata a livello internazionale dagli ingombranti problemi personali della sua classe dirigente.

Tanto per cominciare, Der Spiegel cita il Forum Economico Mondiale di Ginevra, che ha definito l’Italia “un grosso intralcio” allo sviluppo; un’inefficiente burocrazia statale, un sistema tributario corruttibile, infrastrutture insufficienti e un fiacco sistema di prestiti sono alla base della sua debolezza. Il bilancio 2010 della Banca d’Italia ha rivelato un livello di economia pari a 25 anni fa. Nel 2009 il volume del sistema produttivo si è contratto del 5%, mentre nel 2010 ha superato di poco la parità.

Tra il 2008 e il 2009 sono stati cancellati 560mila posti di lavoro; il debito pubblico ha raggiunto i 1.843 miliardi di euro, più del doppio di quelli di Grecia, Irlanda e Portogallo e nel 2011 raggiungerà con ogni probabilità il 120% del Prodotto interno lordo (Pil). E, dulcis in fundo, solo il 27,5% dei cittadini italiani sostiene l’attuale Governo, ma la forza di cambiare davvero sembra scemare.

È da vent’anni a questa parte che l’Italia perde progressivamente di credibilità sotto ogni punto di vista, e questo non è un mistero. Per il settimanale tedesco il verdetto decisivo in questo senso è arrivato settimana scorsa dai mercati: citando il Financial Times, Der Spiegel scrive che la finanza non dà più credito al Governo italiano perché la sua politica crea insicurezza negli investitori. E anche ora che la manovra per la riduzione del deficit è passata e il vertice europeo di giovedì a Bruxelles sembra aver rassicurato i mercati (tra cui anche Piazza Affari che ha ripreso istericamente colore), il pericolo finanziario non sembra del tutto scongiurato.

Perché in realtà le basi su cui poggia il piano di risparmio da oltre 70 miliardi del Governo italiano lasciano aperti spiragli di insicurezza, suggerisce Der Spiegel. “Tra questo e il prossimo anno si prevede di risparmiare 9 miliardi di euro, solo l’11% del traguardo finale”, si legge nel lungo servizio, 10 pagine che sembrano non finire mai, “nel 2013 ci saranno poi le elezioni e la sopravvivenza della manovra alla campagna elettorale è tutt’altro che sicura”. In pratica, i veri sacrifici sono rimandati a una prossima legislatura: poco probabile che l’Italia stia recuperando la sua attendibilità di fronte ai mercati per la serietà del suo programma di risparmio.

“Di quell’Italia degli anni ’70 e ’80 che l’Europa tutta guardava con speranza, simpatia e forse una punta di invidia rimane sempre meno”, prende atto Der Spiegel, e introduce la sua analisi della nostra società dal punto di vista dei costumi e della cultura. E si parte dal ruolo fisso delle donne nella televisione, che si riduce al mero, inconsapevole “sculettare”, passando per gli “orgogliosi comuni del Nord Italia”, trasformatisi nella “roccaforte xenofoba della Lega Nord”, e per Cinecittà, ormai leggenda nella memoria tedesca, che affonda facendo spazio “all’impero del cattivo gusto”.

Inutile aggiungere che, ancora una volta, al centro del servizio di Der Spiegel c’è il premier Silvio Berlusconi: dai processi in corso al Rubygate, dalla nascita del suo impero mediatico agli interventi sulle leggi italiane che gli garantiscono la sopravvivenza politica ed economica, senza tralasciare i recenti diverbi con il ministro delle Finanze Giulio Tremonti e i provvedimenti per circoscrivere la libertà dei giudici. Nessun particolare è risparmiato all’Italia e alla sua politica, definita da Der Spiegel la “democrazia dell’intrattenimento”, perché l’Europa è preoccupata e osserva.

Ed è proprio un filosofo friulano, Flores D’Arcais, a dare voce alle inquietudini europee: “Il berlusconismo è la moderna alternativa al fascismo e si fonda sulla legalizzazione dei privilegi, così come sul potere assoluto delle immagini”. Der Spiegel non manca di citare le parole dell'intellettuale, facendo presente che il rischio di contagio per il resto del continente è reale. Berlusconi è deciso a portare a termine la sua legislatura nonostante i vari coinvolgimenti privati, e tutte le capitali europee ne sono sbalordite. Nel resto del mondo i politici si dimettono per una tesi copiata o per una relazione clandestina con stagiste: ai più viene difficile capire la mentalità italiana fino in fondo. Perché nulla cambia.

L’Europa non crede più all’Italia e i segnali sono chiari. È difficile accettare il quadro che la stampa internazionale traccia della nostra società, eppure è giusto prenderne atto. Forse preferiremmo non doverci confrontare continuamente con il romanzo dei problemi privati della nostra classe politica, ma come possiamo aspettarci che il mondo faccia finta di niente quando il nostro rapporto con la politica si riduce a questo, a una lotta quotidiana con le loro complicazioni private? La difficoltà maggiore è quella di dimostrare agli stranieri che noi siamo diversi, che la nostra classe politica non ci rappresenta. Anche se è arduo sconfiggere i pregiudizi, almeno quanto il malgoverno.
 

 

 

 

di Carlo Musilli

Mentre l'economia continua a camminare sul filo di lana, in Parlamento fervono i lavori.  Gli onorevoli stakanovisti lavoreranno perfino la prima settimana di agosto. Purtroppo però non lo faranno per modificare la manovra finanziaria, ma per approvare una classica legge da ombrellone, di quelle da far passare mentre l'opinione pubblica prende il sole. Stavolta non si parla più di processo breve, ma di processo lungo. Verrebbe da pensare che si tratti di provvedimenti speculari, in realtà sono due facce della stessa medaglia. Lo scopo del gioco è sempre lo stesso: disinnescare la giustizia. In particolare quella che ce l'ha col premier.

Il Ddl è stato approvato venerdì in Senato con 160 voti favorevoli (Pdl, Lega e Coesione Nazionale), e 139 contrari (Pd, Idv, Udc, Mpa, Api e Fli). Il risultato del voto era assolutamente scontato, dal momento che il Governo ha scelto ancora una volta di porre la fiducia (la numero 48 dall'inizio della legislatura). Giovedì prossimo il testo tornerà alla Camera per l'approvazione definitiva.

Non serve un fine giurista per capire quale sia il vero scopo del nuovo provvedimento. Il nome stesso che gli è stato attribuito lascia pochi dubbi. Si tratta di espandere a dismisura la durata dei processi, in modo tale che sentenza definitiva diventi un approdo lontano e sempre più difficile da raggiungere. Il sistema giudiziario viene gonfiato a pieni polmoni fino all'esplosione, come si farebbe con un palloncino.

L'obiettivo viene raggiunto attraverso una serie di modifiche al Codice di Procedura Penale. In particolare, il Governo mette mano ad alcuni articoli che riguardano il giudizio abbreviato e i delitti punibili con l'ergastolo. In primo luogo, cambiano i criteri secondo cui i giudici possono respingere le prove. Fino ad oggi si potevano escludere quelle "superflue e irrilevanti". Con la nuova legge invece possono essere rigettate soltanto quelle "manifestamente non pertinenti". Quanto ai testimoni, i difensori dell'imputato hanno "la facoltà davanti al giudice di interrogare o fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico". Questo significa che gli avvocati possono chiamare alla sbarra anche centinaia di persone. Il processo si trasforma così in una processione, fino a che, con il passare dei mesi, non interviene la tanto sospirata prescrizione.

La seconda modifica prevede che le sentenze passate in giudicato non possano più essere considerate come prove nei nuovi processi. Questa norma però non vale per i processi di mafia e di terrorismo. Infine, chi viene condannato all'ergastolo non può più avvalersi del giudizio abbreviato per sostituire la condanna a vita con 30 anni di carcere e chi ha commesso reati come strage o sequestro deve scontare 26 anni prima di usufruire di qualsiasi beneficio.

Ora, è evidente che, fra tutti i cambiamenti introdotti dalla futura legge, quello ad personam è il primo. Se il contenuto del Ddl non bastasse a far sorgere dei sospetti, aggiungiamo che, esclusi i dibattimenti già chiusi in primo grado, il provvedimento si applica a tutti i processi in corso. Come quelli in cui è coinvolto Silvio Berlusconi.

Il primo effetto della legge che sta per essere approvata sui guai giudiziari del primo ministro è quello di seppellire definitivamente il processo Mills, in cui il premier è accusato di corruzione. Considerando che i termini per la prescrizione scadono a gennaio e che devono ancora essere ascoltati otto testimoni della difesa, le possibilità di arrivare alla sentenza di primo grado erano già da tempo molto flebili. A questo punto scompaiono del tutto e praticamente si andrà avanti soltanto per salvare la forma.

Quanto al caso Mediaset (l'accusa è di frode fiscale) la vicenda è meno scontata. La prescrizione arriverà soltanto nel 2014, ma con la nuova legge gli avvocati del premier, Niccolò Ghedini e Piero Longo, potranno chiamare in tribunale qualche decina di testimoni. Il che forse sarà sufficiente a levare le castagne dal fuoco di Arcore. Per il processo Mediatrade (in cui Berlusconi è imputato per appropriazione indebita), invece, il discorso è diverso. Anche in questo caso la prescrizione interviene nel 2014, ma gli effetti della riforma dipenderanno dal rinvio a giudizio. Se ci sarà, bisognerà vedere quale sarà la lista dei testimoni presentata dai difensori. L'unico processo che non potrà essere toccato dalla nuova legge è il Rubygate (prostituzione minorile e concussione), perché la prescrizione arriverà solo nel 2025.

"Questo provvedimento è dettato dall'esigenza di risolvere situazioni particolari e non porta ad alcun miglioramento dell'efficienza del processo", ha commentato in una nota Luca Palamara, presidente dell'Anm, sottolineando poi che "processo lungo vuol dire non arrivare mai a sentenza". E invece sarebbe proprio questa l'unica cosa da salvaguardare. Non importa che sia breve o lungo, un processo dovrebbe durare quanto basta. Per arrivare a sentenza, appunto.

 


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