di Carlo Musilli 

Fin qui abbiamo scherzato. Dopo la manovra varata a luglio e il decretone di Ferragosto da 45,5 miliardi, ecco arrivare una bella pioggia di emendamenti. Al termine di un conclave durato più di sette ore, dal comignolo della reggia di Arcore è arrivata la fumata bianca. Berlusconi e Bossi - ma soprattutto Tremonti - hanno raggiunto un accordo sulle modifiche da apportare alla manovra bis, quella che ci dovrebbe consentire di arrivare al pareggio di bilancio nel 2013, rispettando così gli ordini impartiti dalla Bce.

Tecnicamente, si tratta delle correzioni a un provvedimento a sua volta correttivo. Nei fatti, si tratta di una nuova proposta che non ha nulla a che fare né col testo di partenza, né con la babele di ipotesi alternative buttate lì a casaccio nelle ultime due settimane. Terza manovra, terzo pasticcio.

I punti più importanti hanno a che vedere con il contributo di solidarietà e con le pensioni. La supertassa scompare magicamente, portandosi dietro i 3,8 miliardi che avrebbe garantito alle casse dello Stato. Al suo posto è in arrivo una nuova stretta sull'evasione e un secco taglio alle agevolazioni per le cooperative. Basterà? Staremo a vedere.

Su questo fronte, in ogni caso, è il Cavaliere a cantare vittoria. L'addizionale Irpef era indubbiamente una misura iniqua (perché colpiva praticamente solo i lavoratori dipendenti), ma soprattutto infliggeva una ferita mortale all'immagine che Berlusconi ha voluto costruire di sé negli ultimi 17 anni. Il paladino del liberismo proprio non poteva permettersela.

Per togliere di mezzo questo abominio, negli ultimi giorni era stata gettata in campo una girandola di idee piuttosto fantasiose. Alla fine sembrava certo che la supertassa sarebbe stata sostituita dall'aggiunta di un punto sull'aliquota Iva più alta (20%). Ma così non è stato, per la gioia dei commercianti e dell'oceano di partite Iva italiche. A spuntarla è stato Tremonti, che si è tenuto l'asso dell'Iva nella manica, pronto ad usarlo quando arriverà il momento della delega fiscale. Per questo bisogna far attenzione a parlare di una Via XX Settembre commissariata dal premier e dal senatùr. Il superministro opera nell'ombra, ma opera.

Quanto alle pensioni, la soluzione raggiunta è un capolavoro del compromesso. La Lega - granitica oppositrice di qualsiasi nuovo intervento in fatto di previdenza - ha salvato la faccia. Ma da chi non lavora più i quattrini arriveranno, e nemmeno pochi. Il trucco sta nell'aver colpito le pensioni di anzianità per via indiretta. In sostanza, i requisiti necessari ad ottenere l'assegno saranno calcolati senza più tener conto degli anni spesi all'università o per il servizio militare. Anni che comunque torneranno buoni per stabilire l'ammontare della pensione.

Altro capitolo spinoso è quello degli Enti locali. Oggi i Comuni hanno dato vita a una manifestazione da Star Trek, riuscendo a portare in piazza sindaci di qualsiasi partito. Ma sono stati accontentati solo in parte. Se infatti si salveranno i micro-municipi (era previsto l'accorpamento di quelli sotto i 3 mila abitanti), nel complesso i tagli agli Enti locali (9,5 miliardi in due anni) sono stati ridotti di soli due miliardi. Una decisione che sa tanto di contentino e che probabilmente non eviterà alle amministrazioni territoriali l'incubo di non poter più garantire ai cittadini neanche i servizi minimi, dagli asili nido ai trasporti pubblici.

Una strada ancora più tortuosa è quella imboccata dalle Province, che saranno abolite tramite una legge costituzionale che conterrà anche il dimezzamento dei parlamentari. Ora, per varare una modifica alla Carta - a voler immaginare che si vada avanti a spada tratta - ci vogliono come minimo nove mesi. In questo caso il Parlamento dovrebbe per giunta esprimersi con una maggioranza di due terzi a favore di una misura che ha già bocciato (non più di un mese fa) e di un'altra che rischia di bruciargli la poltrona sotto le natiche. Sembra fantascienza, ma al momento è forse più corretto definirla demagogia.

Da questo terzo pasticcio sorgono almeno due problemi macroscopici. Il primo ha prosaicamente a che fare con la moneta sonante. Com'è facile notare, gli emendamenti trattano per lo più di provvedimenti da cancellare. Come si può parlare allora di saldi invariati? Dove li troviamo 45,5 miliardi in due anni? Dalla maggioranza garantiscono che i conti tornano, ma non essendoci delle stime certe sui gettiti che i singoli interventi produrranno, non possono esserne poi così sicuri. Il guaio è che probabilmente anche a Bruxelles verranno dubbi di questo tipo. E non è scontato che il placet dato alla manovra del 12 agosto sia esteso anche alla sua nuova versione stravolta.

Il secondo problema riguarda il futuro del nostro Paese. Ieri il Fondo monetario internazionale ha tagliato le previsioni di crescita per l'economia italiana su 2011 e 2012. E noi abbiamo sprecato la terza occasione in due mesi per varare una qualsiasi misura a favore dell'occupazione e dello sviluppo delle imprese. Le liberalizzazioni, ad esempio, potevano essere approvate a costo zero. Bastava volerlo, invece niente. E, purtroppo per noi, l'occhio dei mercati riesce a vedere più lontano della politica.  

di Carlo Musilli

Mentre infuria la bagarre politica sulle modifiche da apportare alla manovra bis, il Senato è al lavoro. O meglio, ad essere impegnata è la prima commissione di Palazzo Madama. Quella che si occupa di "Affari costituzionali". La Casta sembra non farci caso - impegnata com'è a inventare nuove tasse per sostituire quelle stabilite appena due settimane fa - ma il provvedimento che ci dovrebbe portare al pareggio di bilancio nel 2013 contrasta in più punti con la nostra Costituzione. Un problema ben più serio rispetto ai capricci dei partiti o alle proteste degli Enti locali.   

La critica più pesante mossa dalla commissione alla manovra riguarda il tanto odiato contributo di solidarietà. In particolare, l'addizionale Irpef sui redditi medio-alti "non appare sufficientemente rispettosa" dell'articolo 53 della Carta, quello che sancisce il principio di progressività del sistema tributario ("Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva"). Non basta. La misura violerebbe anche l'articolo 3 ("Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge").

Questo perché la supertassa colpirebbe prevalentemente i lavoratori dipendenti - obbligati per loro natura all'onestà fiscale - mentre non toccherebbe i redditi degli evasori, che in Italia sono un popolo sterminato. E non stiamo parlando di pochi milionari, ma di chiunque abbia un reddito (lordo!) che superi 90 mila euro l'anno.

Nel parere della commissione si legge poi che "esenti dal contributo sarebbero le ricchezze patrimoniali, anche molto ingenti". E' intuitivo che tassare i patrimoni sarebbe una misura molto più equa ed efficace. Questo genere di prelievi incide molto meno sulla crescita economica di quanto non facciano quelli sul reddito, senza contare che è ben più difficile nascondere al Fisco i beni immobili rispetto allo stipendio. Purtroppo il vangelo berlusconiano, ammantato di liberismo, vieta di imboccare una strada del genere.

Ciò non toglie che il Cavaliere sia il primo a detestare il contributo di solidarietà, un orrore che lo costringe a "mettere le mani nelle tasche degli italiani". Vorrebbe proprio levarlo di mezzo. E allora via con la girandola di misure alternative per sostituire la supertassa: dall'aumento dell'Iva (che però "deprimerebbe i consumi") a nuovi interventi sulle pensioni (negati dalla Lega), fino all'ultima creatura partorita dalla mente di Roberto Calderoli, una specie di tassa-Frankenstein misteriosamente definita "patrimoniale sugli evasori".

Sorvolando sul fatto che ancora non si conosce né la soglia né l'aliquota di questa nuova trovata ("oggi pomeriggio continueremo a scriverla", ha detto giovedì mattina il ministro delle Semplificazioni), rimangono perlomeno dei dubbi semantici. Se un patrimonio è "evaso", vuol dire che lo Stato non sa della sua esistenza. Come fa a tassarlo?  

Ma torniamo ai problemi di costituzionalità. I dubbi della commissione riguardano infatti anche altri provvedimenti contenuti nella manovra d'agosto. Ad esempio quello che colpisce le tredicesime dei dipendenti pubblici e il famoso Tfr. Ad oggi, il decreto stabilisce che il pagamento di questi assegni sia rinviato di due anni per chi sceglie la strada del pensionamento anticipato. Una decisione che "oltre a comprimere il diritto costituzionale alla retribuzione - si legge ancora nel parere dei senatori - appare particolarmente vessatoria nei confronti dei lavoratori".

La commissione chiede di rivedere anche la misura per l'accorpamento alle domeniche delle festività laiche (25 aprile, primo maggio, 2 giugno). Potrebbe rivelarsi un sacrificio inutile, considerando che "la relazione tecnica allegata al decreto tace circa la quantificazione dei risparmi che deriverebbero dall'applicazione di tale misura". Sarebbe quindi opportuno "verificare se l'accorpamento produca effetti economici rilevanti e tali da giustificare la soppressione delle festività".

Infine, bisognerebbe fare chiarezza sulle previste liberalizzazioni dei servizi pubblici gestiti dagli Enti locali. C'è infatti il rischio che interventi di questo tipo siano incompatibili "con gli effetti abrogativi prodotti da due dei quattro referendum del 12 e 13 giugno 2011".

Ora, il parere della commissione si definisce "non ostativo", nel senso che non ostacola l'approvazione della legge, a patto che siano quantomeno "riformulate" le misure contestate. Il vero problema è che non sappiamo nemmeno se domattina queste misure saranno ancora sull'agenda del governo. Dipende da quello che succederà oggi, termine di scadenza per la presentazione degli emendamenti. Arrivati a questo punto, la girandola della politica si deve fermare.

di Ilvio Pannullo

Non sarà il politico italiano più simpatico all’opinione pubblica e a suo carico sono molte le critiche che possono essere mosse, ma quello che non può essere negato è che Giulio Tremonti sia un politico di razza. Intervenendo al Meeting di Rimini il ministro dell'Economia ha speso parole importanti nel commentare l’attuale situazione in cui versa l’economia del nostro continente, criticando, anche aspramente, le scelte fatte fino ad oggi da questo governo.

Nel descrivere e nell’analizzare l’attuale crisi ha individuato i problemi e prospettato soluzioni, economicamente sagge e auspicabili, anche se politicamente difficili da ottenere. “Sulla crisi, non siamo ancora al game over. In giro ci sono ancora mostri”. Questa, in sintesi, la metafora cara al nostro ministro, sempre alla ricerca d’immagini facilmente comprensibili dal vasto pubblico, per descrivere l'attuale fase di turbolenza finanziaria che attraversa il mondo e l'Italia.

Per Tremonti il Meeting di Rimini, di cui il titolare del Tesoro è oramai divenuto ospite fisso, è stato un bagno di folla. È stato accolto dagli applausi del popolo ciellino sia il suo arrivo alla Fiera di Rimini che il suo discorso, attesissimo, che ha di fatto chiuso il Meeting. Tremonti - non lasciando nulla al caso - si è fatto prima fotografare sotto un'immagine di De Gasperi, quindi, dopo aver visitato la mostra sulla sussidiarietà, ha pranzato alla mensa di Cl, dove è stato subito attorniato da tanti giovani che gli si sono avvicinati per chiedere un autografo e farsi ritrarre assieme al ministro.

Poco prima, Tremonti aveva osservato all'ingresso della mostra la frase di don Giussani, per la quale “Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell'uomo” che ha riproposto come conclusione del suo intervento. Berlusconi e Formigoni sono avvisati: la loro leadership ora è meno solida, incalzata dal divino e odiosissimo professor Tremonti, un giorno ministro della Repubblica, un giorno commentatore critico - quasi estraneo - della globalizzazione, un giorno filosofo posticcio del pensiero cattolico.

Va detto che il discorso del ministro, più che sulla paura delle possibili conseguenze di una cattiva gestione della crisi, è stato proiettato sulla speranza che da questa situazione di aspra difficoltà si possa uscire gettando il cuore al di là del muro. Lancia in resta difende gli Eurobond - titoli del debito pubblico emessi dall’Unione Europea per sostenere i debiti nazionali i tutti gli Stati membri - e critica la posizione della Germania. “Il tempo degli Eurobond sta arrivando” afferma, respingendo “l'idea che servano solo all'Italia e alla Spagna ma che non convengano alla Germania”. Per il titolare del Tesoro, infatti, “queste obiezioni sono commenti sbagliati e non appropriati, perché - spiega - gli Eurobond sono uno strumento di consolidamento fiscale per la moneta comune e rappresentano l'unico modo per avviare una prospettiva di crescita e finanziare il nostro futuro coniugando il rigore con lo sviluppo”.

Tutto corretto - oseremmo dire - soprattutto la critica alla locomotiva teutonica. Le obiezioni nascono, infatti, da un deficit fondamentale degli intellettuali tedeschi nel dibattito sull'attuale crisi europea: l'astrarsi dalle sue cause economiche e di conseguenza il non proporre soluzioni efficaci per disinnescare la minaccia di una crisi dell'euro. La crisi economica viene interpretata in alcuni interventi recenti di Jürgen Habermas e di Heribert Prantl, soprattutto come una crisi delle istituzioni. Questo approccio - va detto con forza - è troppo limitato. Le istituzioni europee e la loro legittimità democratica, infatti, sono sempre più subordinate al protettorato della dottrina economica dominante.

Ma l’Europa è molto più del saggio d’interesse a cui la Banca Centrale Europea presta il suo (è suo, non nostro) denaro, è molto più della somma dei singoli Prodotti Interni Lordi degli Stati membri dell’Unione: l’Europa è un’idea. Un’idea millenaria, per cui vale la pena di lottare. Un’idea che peraltro è descritta, anche in modo minuzioso ed enfatico, in tutti i preamboli di ogni suo trattato istitutivo: dai Trattati di Roma al Trattato di Lisbona, passando per l’Atto Unico Europeo e il trattato di Maastricht.

Ed è in quest’ottica che s’inserisce il discorso del ministro Tremonti, secondo il quale per superare la crisi “è fondamentale creare un blocco europeo”. “Non ci sono idee anticipate - tiene a puntualizzare, dopo aver ripercorso la storia della formulazione degli Eurobond, a partire dalla presidenza europea di Jacques Delors - ma esistono solo idee che aspettano il loro tempo e quel tempo ora sta arrivando”.

Poi arriva la bacchettata, a quello che ormai appare sempre più come un avversario politico, che come il presidente del suo partito: “Troppi governi (tra cui il nostro, di cui lo stesso Tremonti è colonna portante) hanno pensato che quella che si avviava non era una crisi ma solo un ciclo” dice il ministro rilevando che “dall'avvio della crisi sono stati commessi molti errori”. Al tempo stesso, però, come per volersi schermare dalle sicure critiche interne al suo (ma lo sente ancora come proprio?) partito, Tremonti osserva che “la crisi ha una dimensione finora non nota nell'esistente”.

L'analisi di Tremonti è nota: “La crisi - ha continuato nel suo discorso - è stata gestita usando, per i salvataggi, i debiti pubblici e così la medicina é diventata il male in sé". “Molti errori - osserva - sono stati finora commessi: non é stato ristrutturato il sistema bancario, anzi il denaro pubblico è stato usato per salvare le banche; non sono state scritte, se non per finta, le regole sulla finanza che, essendo materia complicata, dovevano essere proposte dai banchieri e non dovevano farle i governi”. Come a dire che se il problema nasce dal sistema bancario, è da folli pensare seriamente che la soluzione dello stesso possa venire da chi è il principale colpevole della situazione in cui ci troviamo. Ma allora - ed è questo il punto su cui ci si deve seriamente interrogare - se  le regole del sistema bancario vanno riscritte partendo dalla salvaguardia degli interessi nazionali e popolari, perché nulla è stato fatto? Chi è che scrive le leggi, la politica o i banchieri?

 

di Monica Capo

Sembrava strano, che il risultato del Referendum dello scorso giugno non fosse ancora stato messo in discussione, ma si poteva sicuramente immaginare che la smania di "far cassa", in questo momento economico così difficile per l'Italia e non solo, non avrebbe guardato in faccia  a nessuno, tanto meno ai 28 milioni di cittadini italiani che avevano partecipato, in massa, a quel voto.

E così, in questa calda estate, preludio di un autunno caldissimo, "purtroppo il governo, non solo non ha ancora attuato le indicazioni referendarie retrocedendo sulle privatizzazioni già attuate e abolendo i profitti sull'acqua ma, con la manovra economica in fase di discussione parlamentare e già approvata con Decreto Legge n. 138 del 13 agosto scorso, ha riproposto (negli articoli raggruppati sotto il Titolo II) in altra forma la sostanza delle norme abrogate con volontà popolare."

E' quanto denuncia, il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua, che in una lettera aperta dichiara "l'articolo 4 ripresenta il vecchio Decreto Ronchi e persino nuove date di scadenza per le prossime privatizzazioni dei servizi pubblici locali."

Sempre secondo il Forum addirittura "l'articolo 5 arriva a dare un premio in denaro agli enti locali pur di convincerli a lasciare al mercato delle privatizzazioni i propri servizi essenziali per le comunità." Un premio che, continua ancora il Forum, "dovrebbe servire per fantomatici investimenti infrastrutturali quando invece ai Comuni vengono sottratti trasferimenti essenziali per le loro funzioni."

Poi, il Forum si rivolge "a tutte le forze politiche affinché non deformino l'esito referendario e rispettino l'indirizzo chiaro della volontà popolare" e al Presidente della Repubblica "affinché, in aderenza al Suo ruolo di garante della Costituzione, non permetta che siano riproposte leggi che violano l'esito dei referendum popolari."

E' davvero avvilente che, mentre si assiste a un continuo rimpallo di responsabilità sulla situazione reale del paese e all'incapacità di chi ci governa, di produrre una manovra finanziaria equa e responsabile, che ci permetta di uscire dal rischio recessione, l'unica cosa che si riesca a inventare, sia quella  di rovesciare un risultato referendario democraticamente raggiunto.

C'è, da ammettere, che formule come "tagliare i costi della politica" o "ridurre i privilegi del Vaticano" ormai a sentirle recitare così spesso, sembrano aver perso tutto il loro valore e la loro efficacia, riducendosi a uno stanco refrain, ma va ricordato lo stesso che, ad esempio, grazie all'articolo 6 dei Patti Lateranensi, la Chiesa Cattolica non paga l'acqua, perché spetta allo Stato, che negli anni scorsi si è fatto anche carico di ben 25 milioni di Euro, di arretrati.

Ecco, come recita il suddetto articolo: "l'Italia provvederà, a mezzo degli accordi occorrenti con gli enti interessati, che alla Città del Vaticano sia assicurata un'adeguata dotazione di acque in proprietà. Provvederà, inoltre, alla comunicazione con le ferrovie dello Stato mediante la costruzione di una stazione ferroviaria nella Città del Vaticano, nella località indicata nell'allegata pianta (allegato 1) e mediante la circolazione di veicoli propri del Vaticano sulle ferrovie italiane. Provvederà altresì al collegamento, direttamente anche cogli altri Stati, dei servizi telegrafici, telefonici,
radiotelegrafici, radiotelefonici e postali nella Città del Vaticano. Provvederà infine anche al coordinamento degli altri servizi pubblici. A tutto quanto sopra si provvederà a spese dello Stato italiano e nel termine di un anno dall'entrata in vigore del presente Trattato. La Santa Sede provvederà, a sue spese, alla sistemazione degli accessi del Vaticano già esistenti e degli altri che in seguito credesse di aprire. Saranno presi accordi tra la Santa Sede e lo Stato italiano per la circolazione nel territorio di quest'ultimo dei veicoli terrestri e degli aeromobili della Città del Vaticano.

E, se si cominciasse finalmente a passare dai ritornelli ai fatti, invece di considerare lettera morta le scelte elettorali, dei cittadini italiani?

di Carlo Musilli

"Bisogna tutelare le famiglie". Nessun politico con un minimo di cervello si azzarderebbe mai a schierarsi contro questo principio. Il rispetto (formale) che gli è dovuto è la boa a cui aggrapparsi mentre si viene sbattuti dalle onde della bufera economica e politica. Ed ecco che, a cadenza quasi regolare, rispunta l'idea fissa del quoziente familiare. Un assioma dimostrato per l'ennesima volta negli ultimi giorni di questo incredibile agosto.

La manovra aggiuntiva da 45 miliardi che ci è stata imposta dalla Bce ha gettato nel caos il governo. L'unica certezza è che il decreto approvato dal Consiglio dei ministri così com'è non va bene. Bisogna cambiarlo, possibilmente stravolgerlo. "Purché i saldi restino invariati", recita il mantra tremontiano.

Purtroppo però le diverse voci della maggioranza non sono d'accordo quasi su nulla. Si assottigliano così le speranze di approvare la legge entro i primi di settembre. O almeno di farlo "senza porre la fiducia", come avevano pronosticato con eccessivo ottimismo sia Berlusconi che Tremonti. I due, ormai separati in casa, devono fronteggiare in questi giorni almeno tre ostacoli enormi: il niet della Lega a nuovi interventi sulle pensioni, la fronda interna al Pdl capitanata dai guru antitasse Crosetto e Martino, la rivolta in armi degli Enti locali.

In questa situazione di stallo, il Cavaliere vorrebbe trovare il modo di abolire il contributo di solidarietà o, quantomeno, di ridimensionarlo. Un colpo di reni che consentirebbe al premier di recuperare parte della popolarità perduta con l'aumento delle tasse. Non solo. Si potrebbe sfruttare la situazione anche per riavvicinare alla casa del padre l'Udc. Da mesi il Pdl blandisce il partito di Casini e ora sta per giocare la carta decisiva. Quale? Il quoziente familiare, naturalmente. 

Si tratterebbe di rimodulare l'addizionale Irpef sui redditi più alti in funzione del numero di figli e di familiari a carico. Questa è finora l'unica misura contro cui nessuno ha protestato. Né dalla maggioranza, né dall'opposizione. Tanto più da quando il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha ammonito sulla necessità di collocare la famiglia al centro della manovra.

Ora, il principio per cui chi ha più persone da mantenere dovrebbe pagare meno tasse è difficile da contraddire. Il problema è che la strada scelta per arrivare alla meta rischia di compromettere un altro principio ancor più fondamentale, quello della progressività delle imposte. Vediamo in che modo.
Per calcolare il quoziente familiare, la somma dei redditi viene divisa per il numero dei componenti della famiglia. Vale a dire: più figli ci sono, maggiore è la riduzione fiscale a cui si ha diritto. Un'operazione aritmetica tutto sommato semplice, ma c'è un problema: lo stesso meccanismo di calcolo si applica a prescindere dalla ricchezza delle famiglie. Questo significa che, a parità del numero di figli a carico, i nuclei familiari con un reddito basso o medio-basso godranno di una riduzione inferiore rispetto a quella che viene concessa ai più ricchi.

Per capire meglio facciamo un esempio pratico, la calcolatrice non mente. Prendiamo a modello i parametri numerici utilizzati in Francia, dove il quoziente familiare è già realtà. Ci sono due coppie di sposini: Antonio e Maria Rossi, Giuseppe e Giulia Bianchi. I primi hanno un reddito complessivo di 60mila euro l'anno, i secondi invece sono più facoltosi, arrivano a 80mila.

Se nessuna delle due coppie ha figli, applicando i valori francesi per il calcolo dell'Irpef si ha questo risultato: i Rossi dovranno pagare 7.200 euro, i Bianchi 11.400 euro. Fin qui nulla di strano, i più ricchi pagano di più. I problemi arrivano insieme alla cicogna, che porta un figlio ad entrambe le coppie. Cambia la vita dei genitori e cambiano le tasse: l'imposta dei Rossi si riduce a 6.625 euro, quella dei Bianchi a 10.000 euro. A prima vista verrebbe da pensare che il criterio di equità sia comunque rispettato: i Bianchi continuano a sborsare più soldi dei Rossi. Ma non è così semplice.

Guardiamo meglio. La riduzione per i Rossi è di 575 euro (7.200 - 6.625), mentre quella per i Bianchi è di 1.400 euro (11.400 - 10.000). Risultato: chi guadagna di più risparmia più del doppio rispetto a chi guadagna di meno. C'è qualcosa che non va. Con questo non si vuol dire che sia sbagliato ridurre le tasse alle famiglie numerose. Semplicemente, bisognerebbe pensarci bene prima di introdurre un sistema di tassazione iniquo e socialmente sbagliato. Non è una misura da approvare con leggerezza, in un caldo weekend d'agosto.


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