Buenos Aires. «Qualsiasi regime che perseguita o elimina i giornalisti si comporta come una dittatura», afferma da Gaza Rizek Abdeljawad, reporter palestinese dell’agenzia di stampa cinese Xinhua. In Argentina, il giornalista e fotoreporter Emmanuel Coria, di FM La Tribu, documenta la stessa “logica del nemico” nelle strade: il potere autoritario che mira a eliminare chi informa. E’ il manuale globale contro la stampa.

Bogotà. «(Petro) è un leader del narcotraffico che promuove fortemente la produzione massiva di droghe, nei grandi e piccoli campi di tutta la Colombia», ha affermato il presidente Donald Trump, annunciando la sospensione degli aiuti al nostro Paese. La notifica è arrivata accompagnata da una minaccia: il leader statunitense assicura che, se Petro non metterà fine ai “campi di sterminio” legati alla produzione di droga, sarà lui stesso a chiuderli, «e non in modo gentile».

Ci sono due elementi preoccupanti in queste righe, pubblicate sulla rete Truth Social. Il primo: accusare il presidente Petro di essere un narcotrafficante senza fornire alcuna prova. Il secondo: minacciare apertamente di intervenire illegalmente in Colombia, un Paese sovrano. Ormai poche cose sorprendono di Trump, un uomo che si distingue per non avere misura né equilibrio nelle parole. Ma dovrebbe sorprenderci - e inquietarci - l’eco che le sue parole trovano in certi settori locali.

Diversi precandidati alla presidenza si sono affrettati ad amplificare l’accusa. Abelardo de la Espriella si riferisce a Petro come complice del cosiddetto “cartello dei Soles”; Miguel Uribe Londoño insiste nel presentarlo come socio di Maduro; María Fernanda Cabal ripete che la Colombia è uno Stato narco. L’ostilità verso il governo è tale che non si rendono conto che, con questo coro, legittimano un intervento esterno. Quale sarà il prezzo di tanto disprezzo?

Trump ha minacciato di invadere la Colombia «non in modo gentile», il che è ovvio, poiché nessuna invasione lo è. Sappiamo che quando gli Stati Uniti intervengono militarmente in un Paese, raramente lasciano qualcosa di meglio di ciò che trovano. A quale Paese così “liberato” è andata bene? Quale è rimasto in condizioni migliori quando se ne sono andati? Dove non ci sono state devastazioni, altissime perdite umane o collassi istituzionali difficili da invertire? Iraq, Afghanistan, Vietnam, Libia e Siria sono solo alcuni nomi che dovrebbero bastare a disattivare qualsiasi entusiasmo per la “mano dura” straniera.

Quando Abelardo de la Espriella afferma che «Petro ha facilitato, incoraggiato, permesso e collaborato all’espansione del narcotraffico dalla Colombia», egli stesso sta facilitando, incoraggiando, permettendo e collaborando a un’invasione. Potrebbe perfino rientrare nel reato di istigazione alla guerra (art. 458 del Codice Penale), che punisce gli atti volti a provocare ostilità contro il Paese. E quando il discorso, inoltre, mira a “sottomettere il Paese al dominio straniero” o a minacciarne la sovranità, la conversazione sfiora la figura del tradimento della patria (art. 455). La democrazia si difende anche dal linguaggio che tenta di aprire la porta a un intervento.

Le parole sono importanti. Contano perché hanno il potere di modellare la percezione collettiva. La storia ci ha dimostrato che quando qualcosa viene nominato e ripetuto più e più volte, ciò che è detto può trasformarsi in un’etichetta difficile da cancellare. Le parole iniziano i conflitti. Le parole possono essere proiettili.

Il linguaggio di Trump è in costante escalation; ha trasformato l’insulto in una strategia. È il suo stile. Attacca le persone perché incapace di discutere le idee. Ma non è l’unico. In Colombia, il linguaggio politico si è degradato a tal punto che l’insulto è diventato anch’esso uno strumento di campagna.

Purtroppo, le parole che Trump vomita vengono raccolte dall’estrema destra colombiana, e i suoi candidati le mettono al servizio di una retorica populista. Le narrazioni di “narcostato” o di “stato fallito” servono tanto agli interessi degli Stati Uniti quanto a quelli di certi settori colombiani. Sui social, molte persone iniziano a etichettare il presidente della Colombia come narcotrafficante, qualcosa che non è mai stato dimostrato, amplificando così il messaggio, dandogli valore e giustificazione, e trasformando tutto questo in combustibile elettorale. Un combustibile che può benissimo determinare ciò che accadrà nelle prossime elezioni.

Viviamo in una guerra di etichette. Ignorante. Narcotrafficante. Castrochavista. Nazista. Tutti ne siamo vittime, senza renderci conto che ciò conduce a una politica con molto rumore e poca conversazione. Tutto ciò che si dice si riduce a uno scambio di frasi virali, più che a idee su cui discutere. La provocazione, la spacconeria e la politica dello spettacolo valgono più della verità, della coerenza o persino della capacità di evitare un’invasione.

Coloro che sostengono le parole di Trump mantengono vivo il discorso del “cortile di casa” e del “sospettato per definizione”. E, appoggiandolo, ci fanno ricadere in quel ruolo simbolico che in America Latina è tanto importante combattere di fronte alla narrativa statunitense.

Perché siamo così privi di dignità? Perché per alcuni colombiani ha valore l’opinione di un uomo che disprezza i latini al punto da credere che “contaminiamo il suo sangue”? Perché ci manca autostima politica e memoria storica. E sono molti quelli che non si rendono conto che insulti e minacce colpiscono tutti, non solo Petro.

Conviene ricordare quanto spiega Martha Nussbaum. La filosofa ha mostrato che quando la politica si alimenta di disgusto e disprezzo, finisce per umiliare pubblicamente interi settori e per erodere la democrazia. Nei tempi in cui domina la paura, queste emozioni facilitano la polarizzazione e l’autoritarismo. L’uscita non sta nel rispondere con la stessa moneta, ma nel coltivare emozioni pubbliche di rispetto, compassione e cura; costruire istituzioni e rituali civici che contengano l’ira retributiva e favoriscano il riconoscimento reciproco. Non è ingenuità: è prudenza democratica.

Se vogliamo sostenere un progetto comune - come Paese, come regione, come pianeta - dobbiamo ricordare l’alto prezzo del disprezzo. Quel prezzo non lo paga solo una fazione, ma l’intera cittadinanza: in autostima, in pluralismo, in sovranità. Difendere la Colombia inizia dal difendere il linguaggio con cui parliamo della Colombia. Perché, prima di qualsiasi proiettile, ciò che ferisce - e a volte uccide - sono le parole.

Se si voleva una prova della fine ingloriosa del Premio Nobel, passato dall’essere un riconoscimento a persone che avevano prodotto una novità e un cambiamento nella comunità scientifica e letteraria, nelle arti e nei saperi per divenire un tributo a politicanti e guerrafondai, l’assegnazione del Nobel a Maria Corinna Machado è un segnale inequivocabile. La "signora golpe" è nota per essere la portavoce della Casa Bianca e di Langley più che una politica venezuelana.

In merito al sorprendente, sebbene prevedibile, trionfo della destra in Bolivia, la scorsa settimana è circolato un articolo di Álvaro García Linera, filosofo ed ex vicepresidente di quella repubblica, nel quale si domanda: “Perché il progressismo e la sinistra perdono le elezioni?” Tra i vari fattori, mette in evidenza come centrale l’economia: i progressismi del primo ciclo ottennero risultati comprovabili; ma in un nuovo ciclo la trascurarono, come accadde in Brasile, Argentina e attualmente in Bolivia, paesi che prende a esempio. Così si accumulò un malessere generale, dovuto al “deterioramento delle condizioni di vita della popolazione lavoratrice, alla frustrazione collettiva lasciata da progressismi timorosi”. In Bolivia fu ugualmente un fattore essenziale la contesa tra Evo Morales e Luis Arce, ma in un contesto di “disastrosa gestione economica”.

Dittatori, tiranni e dinastie oligarchiche fanno parte della storia dei Paesi latinoamericani. Ma tra essi ci sono dittatori e tiranni più rilevanti di altri: nel XIX secolo, per esempio: José Gaspar Rodríguez de Francia (Paraguay, 1814–1840), Juan Manuel de Rosas (Argentina, 1829–1832/1835–1852), Antonio López de Santa Anna (Messico, 1833–1855), Gabriel García Moreno (Ecuador, 1861–1865/1869–1875), Porfirio Díaz (Messico, 1876–1880/1884–1911), Cipriano Castro (Venezuela, 1899–1908); e nel XX secolo: Gerardo Machado (Cuba, 1925–1933), Fulgencio Batista (Cuba, 1940–1944/1952–1959), Marcos Pérez Jiménez (Venezuela, 1952–1958), Gustavo Rojas Pinilla (Colombia, 1953–1957) e tutte le dittature anticomuniste che si insediarono nella regione negli anni Sessanta e Settanta, con Augusto Pinochet (Cile, 1973–1990) e Jorge Rafael Videla e la Giunta Militare (Argentina, 1976–1981) in testa alla lista. Tra le dinastie più importanti vi sono i Somoza, i Trujillo, i Duvalier e Stroessner.


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