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- Scritto da Michele Paris
Se l’accordo per un cessate il fuoco più o meno stabile tra Israele e Hezbollah in Libano è stato accolto quasi universalmente con favore, vista la violenza scatenata dal regime di Netanyahu negli ultimi due mesi, le garanzie che la pace sia duratura lungo il confine nord dello stato ebraico restano al momento piuttosto esili. Il premier israeliano e l’amministrazione Biden hanno fatto di tutto per vendere la tregua come un successo indiscutibile di Tel Aviv. La realtà dei fatti presenta tuttavia uno scenario molto diverso. Il genocidio palestinese a Gaza, quanto meno nell’immediato, non sarà influenzato dagli eventi libanesi, ma la fine concordata delle ostilità nel “paese dei cedri” avviene indiscutibilmente senza che nessuno dei principali obiettivi prefissati da Netanyahu all’inizio dell’invasione sia stato raggiunto.
Dalle ricostruzioni proposte dai media locali e internazionali, il contenuto dell’accordo sarebbe stato modificato in vari punti su richiesta di Hezbollah, i cui vertici hanno respinto le condizioni che assegnavano virtualmente mano libera a Israele in Libano e avrebbero portato a poco meno dello smantellamento dell’ala militare del “Partito di Dio”. Nella caratterizzazione della tregua di Tel Aviv e Washington restano tuttavia elementi che, se effettivamente sottoscritti dalle due parti, darebbero vantaggi importanti a Israele.
Uno dei punti centrali è il meccanismo creato per gestire violazioni del cessate il fuoco. Da quanto si legge in queste ore, se Israele dovesse registrare infrazioni da parte di Hezbollah, dovrebbe darne segnalazione a una speciale “commissione internazionale”, guidata dagli Stati Uniti in collaborazione con la Francia. In caso la violazione fosse confermata, spetterebbe all’esercito regolare libanese intervenire, ma se ciò non dovesse accadere allora Israele avrebbe facoltà di intraprendere iniziative militari. Non ci sono stati invece riferimenti a un procedimento di questo genere a parti invertite, ovvero se Hezbollah dovesse essere esposto a trasgressioni della tregua da parte israeliana. Inizialmente, addirittura, Biden aveva parlato di diritto all’auto-difesa solo per Israele, prima che un esponente dell’amministrazione americana rettificasse confermando che questo diritto spetta a entrambe le parti.
L’accordo prevede nel concreto il ritiro, entro i prossimi 60 giorni, delle forze israeliane dal Libano meridionale e di quelle di Hezbollah a nord del fiume Litani, così da lasciare un’area oltre il confine dello stato ebraico presidiata solo dalle forze armate regolari libanesi e dal contingente ONU (UNIFIL). Si tratta in sostanza del dettato della risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1701 che mise fine alla guerra del 2006, in quel caso come in quello attuale conclusa a sfavore di Israele. Quelle condizioni non sono mai state del tutto implementate a causa delle continue violazioni della sovranità del Libano da parte israeliana.
Tutte le indicazioni suggeriscono anche oggi che Netanyahu intende continuare a muoversi liberamente in Libano, rendendo fragile da subito la tregua appena entrata in vigore. Dopo l’approvazione dell’accordo da parte del suo gabinetto martedì sera, il premier israeliano ha rilasciato una dichiarazione ufficiale ultra-aggressiva attribuendosi prerogative in larga misura non previste dal cessate il fuoco. Netanyahu ha ad esempio sostenuto che, in accordo con Washington, Israele conserva “piena libertà di azione militare” in Libano e, se Hezbollah dovesse “ricostruire le proprie infrastrutture terroristiche”, le forze sioniste torneranno ad attaccare.
L’ostentazione di forza di Netanyahu serve a confondere le acque e attenuare la portata della sconfitta strategica incassata sul fronte libanese. Ciò che il premier minaccia se Hezbollah dovesse riprendere l’iniziativa militare è d’altra parte quanto Israele ha fatto negli ultimi due mesi senza riuscire a eliminare il partito-milizia sciita dall’equazione libanese. Proprio a causa del fallimento delle operazioni, con l’aumento vertiginoso delle perdite in termini di uomini e mezzi, Netanyahu ha dovuto alla fine cedere alla tregua, malgrado i rischi politici che essa comporta.
Su un piano più generale e proprio per il fiasco sul fronte militare, Israele cerca in tutti i modi di ottenere i risultati auspicati all’inizio dell’invasione per mezzo della diplomazia. Uno di essi è la creazione di una vera e propria area cuscinetto oltre il confine settentrionale, cancellando la presenza anche dei civili libanesi costretti a evacuare la zona nei mesi scorsi. I vertici militari sionisti e il ministro della Difesa, Israel Katz, tra martedì e mercoledì hanno intimato ai residenti del Libano meridionale di non tornare nelle proprie abitazioni perché il divieto sarebbe ancora in vigore. Di ciò non vi è però traccia nell’accordo e non è chiaro se un intervento di Israele contro i civili che già stanno raggiungendo le loro case sarà da considerare una violazione della tregua.
Quello che in molti sospettano è comunque che Israele potrà in qualche modo rompere l’accordo e attribuirne la responsabilità a Hezbollah, per poi riprendere le operazioni militari. Molto dipende anche dagli effetti che produrrà il cessate il fuoco sul fronte interno. La decisione di dare il via libera alla tregua è stata infatti sfruttata politicamente dall’opposizione israeliana. Soprattutto l’ex ministro del defunto gabinetto di guerra, Benny Gantz, ha denunciato l’accordo perché non elimina la minaccia di Hezbollah, come era stato promesso da Netanyahu, né lascia totale libertà di azione alle forze sioniste in Libano.
Entrambi gli obiettivi sono impossibili da raggiungere, come hanno dimostrato le dinamiche sul campo, ma i rivali politici di Netanyahu cercano di fare leva sul malcontento di una buona parte della popolazione israeliana per indebolire il primo ministro. I coloni nel nord dello stato ebraico, che hanno da oltre un anno lasciato le loro abitazioni in seguito ai bombardamenti di Hezbollah, si sono espressi infatti a sfavore della tregua, visto che nel prossimo futuro potrebbe facilmente riesplodere il conflitto che li metterebbe nuovamente a rischio.
Non è da escludere che i vertici di Hezbollah abbiano accettato qualche passo indietro rispetto alle condizioni poste inizialmente per la tregua, a cominciare dallo stop all’aggressione nella striscia di Gaza, confidando in un contraccolpo letale per Netanyahu sul fronte domestico. Stando ai giudizi positivi espressi per l’accordo dagli alleati dell’Asse della Resistenza, inclusi i leader di Hamas, è inoltre probabile che l’obiettivo sia quello di creare, sulla scia del cessate il fuoco in Libano, un clima che favorisca la fine dell’aggressione anche a Gaza.
Nella galassia dell’informazione indipendente e sui social media si sta discutendo non poco del fatto che i palestinesi nella striscia siano stati abbandonati a loro stessi dalla tregua sottoscritta da Hezbollah. Sotto la guida di Hassan Nasrallah, assassinato a Beirut da un bombardamento israeliano lo scorso settembre, l’imperativo espresso dal “partito di Dio” era infatti sempre stato quello di accettare una tregua solo se essa fosse stata estesa a Gaza.
In questo senso, i nuovi comandanti sembrano avere ceduto a Tel Aviv e Washington, ma parlare di abbandono o, ancora peggio, di tradimento della causa palestinese è a dir poco ingeneroso. Non c’è dubbio che Hezbollah abbia dovuto incassare una serie di colpi molto pesanti dall’aggressione israeliana che ne ha decapitato in rapida successione la leadership. Tuttavia, nonostante la situazione complicatissima, il movimento sciita è rimasto compatto, formulando una strategia militare efficace che ha alla fine costretto lo stato ebraico a fermare l’offensiva.
Come hanno riconosciuto anche gli esponenti di Hamas, Hezbollah ha fatto moltissimo per la causa palestinese nell’ultimo anno e pagato per questo un prezzo altissimo. Tra i risultati ottenuti non c’è per il momento la fine delle atrocità a Gaza, ma il bilancio per Israele resta nettamente in negativo. Il ritorno dei coloni israeliani nel nord del paese minaccia ad esempio di protrarsi indefinitamente, mentre le perdite di soldati e mezzi israeliani risultano altissime, con conseguenze enormi in termini di morale e logistica bellica. Le azioni di Hezbollah hanno inoltre messo in luce la debolezza dei sistemi difensivi israeliani, dal momento che missili e droni lanciati dal Libano sono spesso penetrati senza problemi nel territorio dello stato ebraico, arrivando a colpire città in genere considerate intoccabili, come Tel Aviv e Haifa.
In tutti i casi, gli eventi di questi giorni non devono essere considerati definitivi. Molti aspetti della crisi multiforme in corso in Medio Oriente restano irrisolti e Netanyahu vuole utilizzare la pacificazione del fronte libanese per concentrarsi sul genocidio palestinese a Gaza e proseguire l’escalation con l’Iran. Con l’avvicinarsi dell’appuntamento con la giustizia israeliana per i procedimenti legali finora rinviati e il ritorno alla Casa Bianca di Trump, il premier israeliano potrebbe cercare di alimentare ulteriormente le tensioni nella regione. La risposta della Resistenza in quel caso sarebbe ancora più decisa e lo stesso Hezbollah rientrerebbe in campo, attingendo a un arsenale bellico solo in minima parte utilizzato per rispondere all’aggressione israeliana e che le condizioni della tregua molto difficilmente riusciranno a intaccare.
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- Scritto da Mario Lombardo
La vicenda della legge sulle “interferenze straniere” appena approvata in via definitiva dal parlamento della Georgia è un esempio perfetto della doppiezza e della monumentale ipocrisia che caratterizza la politica estera di Europa e Stati Uniti. Il provvedimento è oggetto di feroci critiche e condanne, nonché di una campagna di disinformazione che punta a descrivere come ultra-repressiva e anti-democratica una legge legittima, per molti versi necessaria e, soprattutto, già parte della legislazione di alcuni paesi occidentali e in fase di seria discussione in altri.
La legge è passata in terza e ultima lettura martedì con il voto favorevole di 84 deputati e 30 contrari. Un testo pressoché identico era stato proposto un anno fa, ma la maggioranza del partito “Sogno Georgiano” l’aveva poi ritirato in seguito alle pressioni internazionali e all’esplodere di proteste popolari sempre più aggressive. Le stesse manifestazioni contro la legge erano subito scattate anche alla metà di aprile, quando il governo aveva reintrodotto il provvedimento con alcuni cambiamenti cosmetici. In sostanza, l’unica differenza di rilievo era il cambiamento della definizione dei soggetti contro cui la legge è indirizzata: da “agenti di influenza straniera” a “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”.
Secondo il testo, ONG, media e sindacati che ricevono più del 20% dei loro introiti dall’estero sono tenuti appunto a registrarsi come “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”, così da potere essere monitorati dal ministero della Giustizia georgiano. Questo paese caucasico ospita un numero insolitamente alto di ONG e altre organizzazioni che operano in vari ambiti della “società civile”. La gran parte di esse viene finanziata dall’estero, spesso tramite soggetti collegati direttamente o indirettamente al governo americano o all’Unione Europea.
La legge è stata fin dall’inizio bollata da Washington e Bruxelles come una sorta di regalo alla Russia di Putin e, anzi, a una normativa simile già implementata da Mosca viene continuamente accostata. Più correttamente, la legge si ispira al “Foreign Agents Registration Act” (“FARA”) americano degli anni Trenta del secolo scorso. Rispetto a quest’ultima, quella georgiana risulta oltretutto più morbida. Ad esempio, negli Stati Uniti è prevista l’incriminazione per i soggetti che non provvedono a registrarsi come agenti stranieri, mentre in Georgia si rischierà solo una sanzione fino ad un massimo di 9.500 dollari.
Tutto questo viene naturalmente ignorato da governi, media e ONG occidentali quando discutono della legge georgiana, che resta invariabilmente “la legge di Putin”. Incredibilmente, in questi giorni l’assistente al segretario di Stato USA, Jim O’Brien, visitando la Georgia, ha spiegato che questo paese rischia di vedere compromessi gli sforzi per accedere all’UE e alla NATO, poiché la legge appena approvata determina un allontanamento dagli “standard [democratici]” richiesti da questi organismi. In altre parole, la Georgia rischia di trovarsi la strada sbarrata in Occidente perché ha appena introdotto nel proprio ordinamento una legge per limitare le attività di destabilizzazione favorite dall’estero di fatto identica, anche se meno restrittiva, di quella in vigore da quasi un secolo negli Stati Uniti.
Anche in sede europea si discute delle conseguenze sui rapporti con Tbilisi che la legge potrebbe avere. I ministri degli Esteri di una dozzina di paesi già nei giorni scorsi avevano emesso un comunicato ufficiale per chiedere alle autorità UE di valutare “l’impatto del provvedimento sul processo di adesione”. Una risposta congiunta dei 27 membri non sembra essere invece in agenda, visto che alcuni governi, come quelli di Ungheria e Slovacchia, ritengono di non dover interferire nelle vicende interne di un paese terzo.
Le espressioni di condanna dei burocrati europei sono accompagnate rigorosamente dalle solite prediche sul rispetto dei principi democratici e del diritto, tutti messi in serissimo pericolo, a loro dire, dalla legge georgiana. La stessa Commissione Europea sta però discutendo essa stessa l’opportunità di introdurre nel prossimo futuro un provvedimento sulla linea di quello oggetto di contestazioni in Georgia, oltre che già in vigore negli Stati Uniti. La proposta, scaturita dallo scandalo “Qatargate”, punta a creare un database dei lobbisti stranieri per limitare o neutralizzare le “influenze maligne” estere.
Il dibattito pubblico sulla proposta aveva sollevato qualche voce critica, non solo tra le stesse ONG che rischiano di essere costrette a rendere pubbliche le loro fonti di introito, ma anche da quanti avvertivano che una legge simile farebbe cadere la maschera della finta democrazia europea. In primo luogo, l’UE non avrebbe più, nemmeno formalmente, l’autorità morale per denunciare iniziative come quella georgiana visto che ritiene necessaria anche per sé stessa una legge simile. Inoltre, il provvedimento allo studio finirebbe per penalizzare una pratica comune alle istituzioni europee, ovvero l’elargizione di finanziamenti a organizzazioni della “società civile” operanti in paesi stranieri.
Dopo l’approvazione definitiva di martedì, la legge georgiana dovrà essere ratificata dalla presidente filo-occidentale Salomé Zourabichvili, la quale ha già dichiarato che intende utilizzare il potere di veto. La maggioranza che sostiene il governo del primo ministro, Irakli Kobakhidze, potrà però annullarlo e consentire alla legge di entrare in vigore definitivamente. L’incognita che rimane è rappresentata dalla possibile prosecuzione delle proteste dell’opposizione, cioè se i sostenitori occidentali dei manifestanti sceglieranno di continuare a destabilizzare la Georgia cercando di forzare un cambio di regime, a rischio di gettare il paese nel caos.
La determinazione con cui il governo sta portando a termine l’iter legislativo del provvedimento sulle interferenze straniere, così come l’insistenza della propaganda europea e americana per affondare una legge interamente legittima, rivela l’importanza della posta in gioco a Tbilisi. Lo scontro in atto si collega infatti al conflitto tra Russia e Ucraina o, più, precisamente, tra Russia e USA/UE/NATO. In questo scenario, la Georgia si è ritrovata in una posizione sempre più precaria. Da un lato è sottoposta alle pressioni occidentali per partecipare in pieno alla campagna anti-russa, mentre dall’altro deve procedere con estrema cautela per evitare il coinvolgimento diretto in una guerra che avrebbe effetti devastanti.
Il governo del partito “Sogno Georgiano”, al netto delle falsificazioni occidentali, non è in nessun modo filo-russo, tanto che aveva subito condannato l’invasione dell’Ucraina e fornito aiuti umanitari a Kiev. Da tempo cerca poi di costruire un percorso per entrare nell’UE e, sia pure in modo più prudente, nella NATO. Lo scorso dicembre, da Bruxelles era arrivato anche il via libera al riconoscimento dello status di candidato ufficiale all’ingresso nell’Unione Europea.
Allo stesso tempo, il governo georgiano è perfettamente consapevole dell’importanza di evitare che le relazioni con la Russia precipitino, visto anche il ricordo molto vivido della disastrosa guerra in Abkhazia e Ossezia del sud nel 2008. La Russia è chiaramente una presenza fondamentale e inevitabile, dal punto di vista geografico, economico e militare, così che Tbilisi non ha alcun interesse a percorrere la strada suicida dell’Ucraina o, in prospettiva, della Moldavia per assecondare le mire strategiche occidentali. Realismo e pragmatismo sono quindi i principi a cui si ispira il partito di governo fin dall’approdo al potere per la prima volta dodici anni fa sotto la guida dell’imprenditore miliardario con interessi in Russia, Bidzina Ivanishvili.
Alla luce di questi orientamenti, non sorprende che governi e servizi di intelligence occidentali abbiano intensificato le manovre per fare pressioni sul governo di Tbilisi, principalmente fomentando proteste di piazza talvolta violente per far naufragare una legge che andrebbe a colpire o, quanto meno, a smascherare le loro stesse manovre destabilizzanti. Se anche le tensioni dovessero abbassarsi dopo l’approvazione della legge sulle ingerenze straniere, è probabile che la campagna contro il governo riprenderà nei prossimi mesi in vista delle elezioni legislative in programma a ottobre.
Tornando alla posizione della Georgia, va ricordato che questo paese impoverito negli ultimi due anni ha beneficiato notevolmente dell’aumento dei traffici commerciali con la Russia, dovuto alla chiusura, per via delle sanzioni americane ed europee, delle rotte che passavano dall’Occidente. Non si stratta solo di un’attitudine opportunistica, quella georgiana, ma di un calibramento strategico volto a massimizzare i vantaggi di una politica estera aperta. Tanto che la Georgia ha accompagnato la candidatura all’ingresso nell’UE alla formalizzazione di una partnership strategica con la Cina.
A fronte di ciò, i crociati della democrazia in Occidente chiedono invece alla Georgia di salire sul carro delle sanzioni contro la Russia, favorendo un autentico suicidio economico esattamente come sta facendo l’Europa, e di andare allo scontro totale con Mosca, sposando la fallimentare causa ucraina e mettendo a serio rischio la propria sicurezza interna. Con queste premesse, non è difficile comprendere le ragioni per cui il governo di Tbilisi diffidi dell’Occidente e intenda andare fino in fondo per tenere sotto controllo le manovre di destabilizzazione organizzate dall’estero.
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- Scritto da Sara Michelucci
Esordio alla regia per Micaela Ramazzotti, con il film Felicità, di cui è anche la protagonista, che sarà presentato in concorso nella sezione Orizzonti Extra alla 80ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.
La storia è quella di una famiglia storta, di genitori egoisti e manipolatori, un mostro a due teste che divora ogni speranza di libertà dei propri figli. Desirè è la sola che può salvare suo fratello Claudio e continuerà a lottare contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, per inseguire un po’ di felicità.
Una sorella che tenta in tutti i modi di far uscire dalla depressione il fratello, vittima dei suoi stessi genitori, troppo debole per riuscire a salvarsi da solo. Un film sulla famiglia e sulla costante lotta per riuscire a distruggere legami sbagliati e che fanno stare male.
Con Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Micaela Ramazzotti e con la partecipazione di Sergio Rubini, il film è prodotto da Lotus Production con Rai Cinema e sarà distribuito da 01 Distribution.
"Sono onorata e orgogliosa che proprio la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia sia la prima a voler bene a Felicità - dichiara la regista - . Cosa di cui tutti noi abbiamo bisogno".
Il film arriverà nella sale italiane il 21 settembre.
Felicità (Italia, 2023)
Regia: Micaela Ramazzotti
Attori: Micaela Ramazzotti, Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Sergio Rubini
Distribuzione: 01 Distribution
Sceneggiatura: Micaela Ramazzotti, Isabella Cecchi, Alessandra Guidi
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Jacopo Quadri
Produzione: Lotus Production con Rai Cinema
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- Scritto da Sara Michelucci
Presentato in anteprima mondiale al Sundance Festival 2023 e vincitore del Gran Premio della Giuria per miglior film drammatico, A Thousand and one, primo film dietro la macchina da presa, della sceneggiatrice A.V. Rockwell, narra la storia di Inez (Teyana Taylor), una donna determinata e impetuosa, la quale rapisce il figlio Terry, di sei anni, dal sistema di affidamento nazionale. Aggrappandosi uno all’altro, madre e figlio cercano di ritrovare il senso di casa, di identità e di stabilità in una New York in rapido cambiamento.
Siamo di fronte ad un dramma familiare contemporaneo, che racconta le difficoltà di una donna sola e certamente non benestante, in una città difficile come NY. Terry sogna di poter stare con sua madre e lega subito con Lucky (Aaron Kingsley Adetola), il compagno di Inez. Quando diventa adolescente, Terry (Aven Courtney) si rivela essere un ragazzo intelligente e studioso e così sua madre sogna per lui un futuro migliore del suo, lontano dalla strada, ma ciò che ha segnato all’origine la loro difficile storia familiare sta per tornare a galla.
Un film sicuramente interessante sia dal lato della sceneggiatura, che della regia, che ha nel realismo di cui è intriso quella giusta carica che serve a sondare e comprendere la vita dei suoi protagonisti.
A Thousand and one (Usa 2023)
Regia: A.V. Rockwell
Cast: Teyana Taylor, William Catlett, Josiah Cross, Aven Courtney, Aaron Kingsley Adetola, Terri Abney, Delissa Reynolds, Amelia Workman, Adriane Lenox
Sceneggiatura: A.V. Rockwell
Fotografia: Eric Yue
Montaggio: Sabine Hoffman, Kristan Sprague
Distribuzione: Lucky Red e Universal Pictures International Italy
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- Scritto da Sara Michelucci
Firmato da Giuseppe Piccioni, L'ombra del giorno racconta una storia d'amore in un periodo storico difficile. Siamo nel 1938. È un giorno qualunque, in una città di provincia come tante altre in Italia (Ascoli Piceno). I tavoli sono apparecchiati e Luciano ha appena aperto il suo ristorante. Dalla vetrina vede un corteo ordinato di bimbi di una scuola elementare, accompagnati da una maestra. Camminano disciplinati sul marciapiede al sole, in fila per due, con i loro grembiuli infiocchettati e i capelli pettinati con cura. Luciano è tentato di credere a quell’immagine di serenità, di fiducia nel futuro. Ha un’andatura claudicante a causa di una ferita della prima guerra mondiale, un ricordo permanente della ferocia di quel conflitto.
Dietro le ampie vetrine che danno sull’antica piazza scorre la vita di quella piccola città in quegli anni. Sono gli anni del consenso, delle operepubbliche, e delle nuove città. Luciano è un fascista, come la maggior parte degli italiani in quel periodo, ma lo è a modo suo; ha preferito rimanere in disparte e si è tenuto lontano dall’idea di trarre vantaggio dalle sue decorazioni di guerra e dalla militanza ottusa e obbediente nelle gerarchie del partito.
Però si sente partecipe di quel generale entusiasmo, nonostante per indole tenda a occuparsi solo dei fatti propri, perché “il lavoro è lavoro”: quello che gli sta a cuore è il suo ristorante e i compiti quotidiani a cui lui si dedica con scrupolo taciturno. Finché fuori dalla vetrina, appare una ragazza. Mi chiamo Anna Costanzi, gli dice, e timidamente chiede se cercano personale. Di lì a poco l’avvento di quella ragazza e le prime evidenti crepe che si evidenziano in quel mondo che guarda dalla vetrina cambieranno la vita di Luciano.
Com’è strana la vita, pensa Luciano. Un tempo, del suo lavoro, gli piaceva proprio essereaffacciato sulla strada, guardare la gente che passeggiava, che correva in fretta al lavoro, gli dava l’illusione di essere insieme a quelle persone, al loro stesso livello. Adesso invece tutto si confonde e ogni giorno si rinnova la sorpresa. E ha il volto di Anna. Ora, in entrambi, si è fatto strada un sentimento, qualcosa a cui Luciano aveva rinunciato da tempo. Ma quella giovane donna ha un segreto. Ad interpretare i protagonisti ci sono due bravi attori come Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli, che vestono alla perfezione i panni di questi due innamorati.
L'ombra del giorno (Italia 2022)
Regia: Giuseppe Piccioni
Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella, Annick Emdin
Cast: Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli, Waël Sersoub
Distributore: 01 Distribution