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- Scritto da Fabrizio Casari
I dati del PIL della Germania confermano che la più grande economia dell'Unione Europea è entrata in recessione tecnica. La seconda stima del PIL tedesco per il primo trimestre è stata rivista in ribasso e riflette una contrazione dell’economia dello 0,3%. Questo dato, unito al calo dello 0,5% del quarto trimestre 2022, indica che la Germania è entrata in recessione tecnica durante l'inverno. La locomotiva tedesca, quindi, ha smesso di trainare in coincidenza con la chiusura delle importazioni di idrocarburi dalla Russia in obbedienza ai voleri degli Stati Uniti, abbandonando così l’elemento di maggiore incidenza del suo sviluppo industriale e commerciale, sia in chiave di importazione che attraverso la rivendita a terzi. Sholtz, uno dei politici meno carismatici e capaci della storia tedesca, è riuscito a portare la Germania in recessione consegnando la sua politica economica alla disponibilità degli USA.
La recessione tecnica tedesca è la spia di una condizione più generale e ben più grave nella quale versa l’economia del Vecchio Continente, già messa in crisi dalle diseguaglianze e sociali e dalla povertà diffusa. L’Europa è tutto meno che un giardino circondato da una giungla, come ha affermato Joseph Borrell, il ministro meno autorevole della compagine di Bruxelles. Abbandonata ogni velleità di indipendenza e di progetto politico-sociale autonomo, flagellato da deflazione, disoccupazione, crisi industriale, insicurezza sociale, povertà diffusa, difficoltà di accoglienza e integrazione dell’immigrazione, il Vecchio Continente è sottoposto alla più grave crisi socioeconomica della sua storia.
La UE, nel suo complesso, non investe per la riduzione della povertà. L’Eurostat certifica che l’obiettivo di ridurre gli indigenti di 20 milioni entro l’anno prossimo è fallito. I cittadini poveri sono ancora 109,2 milioni.
La crescita della povertà non trova risposte adeguate nel vocabolario liberista e benché la spesa per la protezione sociale risulti apparentemente alta, così non è. A maggior ragione dopo l’epidemia di Covid-19, la spesa sanitaria europea si dimostra inefficace a fronteggiare le emergenze e la crescente riduzione degli investimenti nella sanità pubblica ha prodotto uno sfascio gestionale che si ripercuote duramente sui livelli di assistenza.
Lo stesso per la protezione sociale in ambito lavorativo. Qui addirittura i dati ufficiali vengono sottoposti ad un vero e proprio raggiro statistico per portare la spesa pro-capite a livelli accettabili. Si censisce il livello di disoccupazione prendendo in esame una fascia d’età che va dai 15 ai 74 anni, e così risulta che i disoccupati sono il 6% della forza lavoro disponibile. Ma se si volesse esaminare davvero il livello di disoccupazione reale, si dovrebbe esaminare un’età che va dai 25 ai 67 anni, perché mediamente fino ai 25 di studia e dopo i 67 si è in pensione. Ecco allora che la percentuale di disoccupazione cambia immediatamente, dal momento che lavora il 68,4 della forza lavoro disponibile, mentre è disoccupata il 31,6.
Sono numeri che imporrebbero misure di reddito pubblico urgenti e parametrate al costo della vita nei rispettivi paesi ed un rilancio delle politiche industriali che dovrebbero essere tirate fuori dal Patto di Stabilità. All’aumento drammatico di povertà e diseguaglianze, non può essere posto un argine con i decimali di rapporto tra PIL e Deficit. L’aspetto politico più importante e dannoso al tempo stesso, è infatti il dover sottoporre le spese per la protezione sociale ai vincoli di Bilancio dettati dal Fiscal Compact, ovvero lo strumento di stabilità finanziaria dell’Unione che è la pietra tombale per la lotta alla povertà e al disagio sociale.
Firmato da 25 Paesi nel 2012, prevede vincoli economici con l'obiettivo di contenere il debito pubblico di ciascun paese garantendo il principio dell'equilibrio di bilancio. In sostanza, impone il pareggio di bilancio nelle legislazioni nazionali, a parte le emergenze (idrogeologiche, sanitarie, climatiche). Entro il 2035 ogni paese dell'Eurozona dovrà raggiungere un debito pubblico inferiore al 60% del Pil (tale vincolo era già previsto nel Trattato di Maastricht). Ove non riuscisse subirebbe le procedure d’infrazione europee.
La spesa sociale è quindi la prima vittima di un rigore di Bilancio fondato su parametri che nulla hanno a che vedere con le dottrine economiche ma che corrispondono solo alla volontà di ridurre l’intervento pubblico a sostegno delle fasce disagiate e a togliere spazio per l’iniziativa pubblica - sia in ambito regolatorio che di investimenti - a tutto vantaggio di quella privata.
L’affronto politico è che nei fatti il Fiscal Compact è uno strumento di governo dell’economia da parte della Commissione Europea su tutti gli stati UE. Espropria la decisionalità politica e l’autonomia delle Assemblee legislative ed assegna alla Commissione Europea il ruolo di ultimo decisore. La legge di Bilancio di ogni Paese dovrà infatti essere sottoposta al vaglio ed all’approvazione di Bruxelles, privando così i parlamentari di tutti i paesi europei dell’esercizio legislativo loro assegnatogli dalle rispettive Costituzioni.
C’è dunque una pesantissima sottrazione della facoltà di legiferare in campo economico e sociale da parte del potere legislativo e, di fatto, un commissariamento di tutti i governi da parte della Commissione Europea, che è in una posizione dominante nei confronti di ogni singolo stato. Che poi Parigi e Berlino aggirino gli ostacoli è un classico: come nella fattoria degli animali, tutti sono uguali ma qualcuno è più uguale degli altri.
Gli affari delle armi o le armi degli affari?
C’è solo un campo dove il Fiscal Compact non può intervenire, dove le sue regole non valgono: il campo della Difesa. Gli apparati militari, i loro costi e gli investimenti non sono sottoponibili a vincoli di Bilancio. Le spese militari sono le uniche considerate non computabili nel Bilancio da sottoporre a Bruxelles e soggetto a Fiscal Compact. Sganciate dalla compatibilità sociale e finanziaria di ogni paese, le spese militari viaggiano su un binario autonomo e la rotta è tracciata da Washington, non da Bruxelles. In sostanza la Commissione Europea comanda sui paesi, ma la NATO comanda sulla Commissione Europea.
Solo tra il 2021 e il 2022 la spesa è aumentata del 2,2%. L’obiettivo della NATO è di far aumentare la spesa militare al 2% del PIL (al momento raggiunto solo da 7 paesi su 29) con una proiezione entro cinque anni per arrivare al 4%. Al prossimo vertice di Luglio, a Vilnius, si dirà che la soglia del 2% è da considerarsi “soglia minima”, dato che la tendenza è arrivare al 3 o al 4%. La corsa è all’indirizzo dei flussi di spesa sul terreno militare, al trasferimento di risorse pubbliche dallo stato sociale al comparto militare. Aumentare la spesa bellica è il nuovo imperativo dei paesi europei, che si sono impegnati al vertice di Versailles ad incrementare gli sforzi finanziari nella difesa Ue.
E non c’è nessuna relazione tra l’aumento delle spese militari e il conflitto tra NATO e Russia in Ucraina, semmai proprio i bilanci sembrano indicare come la guerra fosse stata programmata dall’Alleanza. Infatti i dati dicono che dal 2014 al 2020 la spesa militare europea era già aumentata da circa 159 a 198 miliardi di euro (25% in più) e che il 2022 era stato l’ottavo anno consecutivo a registrare un aumento delle spese militari di tutti i paesi dell’Alleanza Atlantica.
Secondo il Sipri (l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma), la spesa militare totale in Europa, includendo sia l’Ue che i Paesi extra-Ue come Regno Unito e Norvegia, già nel 2020 era stata di 378 miliardi di dollari. Extra Europa o no, sono tutti paesi NATO. Oltre un miliardo di Euro giornalieri per gli eserciti europei.
A dimostrare come sia stretta la relazione tra investimenti in armi e welfare c’è l’Italia, che prevede di portare il suo bilancio militare da 25 a 38 miliardi di Euro. Stiamo parlando di 108 milioni di Euro al giorno di spesa militare che la vede in 10 missioni internazionali con 2500 uomini e un costo diretto di 345 milioni di Euro l’anno, mentre è l’ultima dei 27 paesi UE per la spesa in istruzione e quarta per incidenza della povertà tra i lavoratori.
L’aumento del budget militare conviene all’industria bellica, che in questa fase, aggiunge finanziamenti attraverso il Fondo europeo per la Difesa. Non a caso i profitti del settore sono in forte crescita. Il maggior vantaggio va alle industrie belliche statunitensi, che coprono circa il 70% delle forniture dell’Alleanza. Il complesso militar-industriale statunitense è del resto il volano centrale dell’economia statunitense ed è chiaro come l’aumento della spesa militare di tutto l’Occidente porti con sé un aumento in percentuale dei profitti delle aziende USA per la difesa, con una ricaduta positiva diretta sul PIL statunitense.
La NATO non si nasconde più dietro le finte asserzioni sulla necessità di “ripianare i sistemi d’arma ceduti all’Ucraina”, ma rivendica l’opzione del confronto diretto con i suoi nemici e parla apertamente di una nuova dottrina militare che preveda di “colmare i gap capacitivi”.
C’è un riallineamento nel finanziare un modello di guerra convenzionale a prescindere dalla possibilità che si dia uno scenario di questo tipo. Lo si evince dalla quota di produzione bellica per gli eserciti convenzionali che continua ad essere preminente rispetto a quella di sistemi d’arma rapidi e facilmente trasportabili, notoriamente impiegati nelle operazioni di polizia internazionale o peace-keeping che dir si voglia.
Questo mutamento di rotta nella dottrina militare europea viene giustificato con la maggiore facilità nel passare dalla strutturazione adatta alle operazioni di guerra convenzionale (molto più onerose) a quelle di polizia internazionale o di forze di interposizione che non il contrario.
Scenari da guerra totale che comportano per conseguenza un atteggiamento sempre più belligerante da parte della UE, che si appresta ad assegnare le sue risorse per la Difesa alle campagne militari statunitensi ormai chiaramente indirizzate verso lo scontro globale in funzione di sopravvivenza del dominio statunitense.
L’Europa, che cede definitivamente non solo la sua indipendenza e la sua volontà politica, ma anche la sua stessa sicurezza collettiva alle operazioni di salvataggio del dominio unipolare, è pronta a mettere in campo le proprie forze armate in funzione anti-russa e anti-cinese, nonostante né Mosca né Pechino pensino di attaccare l’Europa se non verranno attaccate a loro volta.
La Terza guerra mondiale è già in atto e, indipendentemente dalle forme e dai luoghi dove si manifesterà, vede l’Europa nel suo ruolo di sempre, quello belligerante. Non le sono bastate le guerre coloniali e due conflitti mondiali: l’odore dell’oro e del sangue continua ad essere una attrazione fatale per un continente diventato vecchio senza essere mai stato adulto.
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- Scritto da Sara Michelucci
Firmato da Giuseppe Piccioni, L'ombra del giorno racconta una storia d'amore in un periodo storico difficile. Siamo nel 1938. È un giorno qualunque, in una città di provincia come tante altre in Italia (Ascoli Piceno). I tavoli sono apparecchiati e Luciano ha appena aperto il suo ristorante. Dalla vetrina vede un corteo ordinato di bimbi di una scuola elementare, accompagnati da una maestra. Camminano disciplinati sul marciapiede al sole, in fila per due, con i loro grembiuli infiocchettati e i capelli pettinati con cura. Luciano è tentato di credere a quell’immagine di serenità, di fiducia nel futuro. Ha un’andatura claudicante a causa di una ferita della prima guerra mondiale, un ricordo permanente della ferocia di quel conflitto.
Dietro le ampie vetrine che danno sull’antica piazza scorre la vita di quella piccola città in quegli anni. Sono gli anni del consenso, delle operepubbliche, e delle nuove città. Luciano è un fascista, come la maggior parte degli italiani in quel periodo, ma lo è a modo suo; ha preferito rimanere in disparte e si è tenuto lontano dall’idea di trarre vantaggio dalle sue decorazioni di guerra e dalla militanza ottusa e obbediente nelle gerarchie del partito.
Però si sente partecipe di quel generale entusiasmo, nonostante per indole tenda a occuparsi solo dei fatti propri, perché “il lavoro è lavoro”: quello che gli sta a cuore è il suo ristorante e i compiti quotidiani a cui lui si dedica con scrupolo taciturno. Finché fuori dalla vetrina, appare una ragazza. Mi chiamo Anna Costanzi, gli dice, e timidamente chiede se cercano personale. Di lì a poco l’avvento di quella ragazza e le prime evidenti crepe che si evidenziano in quel mondo che guarda dalla vetrina cambieranno la vita di Luciano.
Com’è strana la vita, pensa Luciano. Un tempo, del suo lavoro, gli piaceva proprio essereaffacciato sulla strada, guardare la gente che passeggiava, che correva in fretta al lavoro, gli dava l’illusione di essere insieme a quelle persone, al loro stesso livello. Adesso invece tutto si confonde e ogni giorno si rinnova la sorpresa. E ha il volto di Anna. Ora, in entrambi, si è fatto strada un sentimento, qualcosa a cui Luciano aveva rinunciato da tempo. Ma quella giovane donna ha un segreto. Ad interpretare i protagonisti ci sono due bravi attori come Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli, che vestono alla perfezione i panni di questi due innamorati.
L'ombra del giorno (Italia 2022)
Regia: Giuseppe Piccioni
Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella, Annick Emdin
Cast: Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli, Waël Sersoub
Distributore: 01 Distribution
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- Scritto da Michele Paris
La riconferma della saldissima alleanza con gli Stati Uniti e i benefici teorici derivanti dall’organizzazione delle prossime Olimpiadi estive a Tokyo non sono bastati al primo ministro giapponese, Yoshihide Suga, a evitare nel fine settimana una vera e propria umiliazione elettorale. Nelle tre elezioni speciali tenute per altrettanti seggi vacanti in parlamento (“Dieta”), il Partito Liberal Democratico (LDP) di governo non ha infatti raccolto nulla, pagando caramente gli scandali giudiziari che hanno coinvolto svariati suoi membri e la gestione insoddisfacente della pandemia in atto. Per il premier conservatore si prospettano ora mesi complicati, con la sua leadership in serio dubbio alla vigilia sia delle elezioni generali sia della scadenza del mandato alla guida del più importante partito nipponico.
Il recente appuntamento con le urne era particolarmente atteso perché era il primo dall’insediamento di Suga, succeduto lo scorso settembre al più longevo primo ministro della storia del Giappone, Shinzo Abe, ufficialmente costretto a lasciare per ragioni di salute. Sull’adeguatezza di Suga a ricoprire l’incarico di capo del governo c’erano state subito accese discussioni. L’ex consigliere di Abe è la quintessenza dell’insider, privo di talento per la comunicazione e per la gestione della propria immagine. Le sue origini relativamente umili, in un paese dove i membri che contano della classe politica appartengono a dinastie politiche illustri, non hanno inoltre aiutato il consolidamento della sua posizione. La competizione interna al LDP per rimpiazzare Suga, già esplosa mesi fa all’indomani della notizia del ritiro di Abe, tornerà così a infuriare dopo la pessima prestazione elettorale del partito al potere.
La sconfitta più pesante è stata senza dubbio quella per un seggio della camera alta del parlamento in rappresentanza della città di Hiroshima. Quest’ultima è considerata una roccaforte dei conservatori e nelle elezioni del 2017 il LDP si era aggiudicato sei seggi su sette. Qui, il voto si era reso necessario in seguito alla condanna per compravendita di voti della senatrice Anri Kawai, moglie dell’ex ministro della Giustizia del LDP, Katsuyuki Kawai. Il candidato governativo, un ex funzionario del ministero del Commercio, ha lasciato strada all’ex presentatore Haruko Miyaguchi, appoggiato dal principale partito di opposizione, il Partito Costituzionale Democratico di centro-sinistra, e da altre formazioni minori.
Gli altri due seggi in palio erano rispettivamente a Nagano e a Hokkaido, il primo sempre per la camera alta (“Camera dei Consiglieri”) e il secondo per la camera bassa (“Camera dei Rappresentanti”). In entrambi a prevalere sono stati i candidati del Partito Costituzionale Democratico. Mentre a Nagano il seggio vacante era appartenuto a un “consigliere” morto per COVID lo scorso dicembre, a Hokkaido si doveva scegliere il successore di un altro parlamentare del LDP finito nei guai con la legge, l’ex ministro dell’Agricoltura Takamori Yoshikawa, dimessosi dopo essere stato accusato di avere ricevuto tangenti da un imprenditore agricolo. A Hokkaido, il LDP non aveva nemmeno presentato un proprio candidato per l’elezione speciale.
Per il premier Suga forse l’unica notizia positiva arrivata dal voto nel fine settimana è che la sconfitta di Hiroshima rappresenta uno schiaffo anche per uno dei suoi più agguerriti rivali interni al partito, l’ex ministro degli Esteri Fumio Kishida. Uno dei più influenti leader del LDP, Kishida è il numero uno dei liberaldemocratici a Hiroshima e la batosta incassata domenica nel suo feudo potrebbe quanto meno rallentare la sua corsa alla successione all’attuale primo ministro.
I problemi del LDP e la tripla affermazione dei democratici indicano evidentemente una tendenza sfavorevole al partito che ha quasi monopolizzato la politica giapponese dal dopoguerra a oggi. Sono in pochi tuttavia a credere in una sconfitta dei conservatori nelle elezioni generali, che dovrebbero tenersi non oltre il 21 ottobre prossimo. L’opposizione di centro-sinistra in Giappone continua a essere divisa e screditata, non essendosi più ripresa dalla catastrofica esperienza al governo tra il 2009 e il 2012.
Lo stato di salute dei liberaldemocratici sarà messo alla prova nuovamente il prossimo 4 luglio dall’importante voto per il rinnovo dell’assemblea metropolitana della capitale. In ogni caso, come già spiegato, in dubbio non c’è la continuità al governo del LDP, quanto la leadership di Yoshihide Suga e le possibile scosse che una guerra interna al partito potrebbe produrre per la terza economia del pianeta. Soprattutto in un contesto fatto di gravi tensioni sul fronte domestico, per via degli effetti della pandemia, e con l’intensificarsi del conflitto tra Stati Uniti e Cina, che si svolge in larga misura in Estremo Oriente.
Un articolo del sito web della Nikkei Asian Review ha spiegato lunedì come la sconfitta del LDP nelle tre elezioni suppletive del fine settimana non prometta nulla di buono per l’amministrazione Biden, “fattasi in quattro per sostenere politicamente il premier giapponese sul fronte interno”. Suga era stato un paio di settimane fa il primo leader straniero a essere ricevuto alla Casa Bianca da Joe Biden, in un segnale del carattere cruciale dell’alleanza con Tokyo per gli Stati Uniti. Un portavoce del presidente aveva in quell’occasione insistito sull’importanza del fattore “continuità” nelle relazioni bilaterali, in modo da garantire, dopo quasi un decennio di governi guidati da Shinzo Abe, un ambiente politico stabile e senza conflitti.
È evidente che una classe politica intenta a competere per la leadership del partito di governo non può che compromettere quell’allineamento ai propri interessi strategici che Washington chiede agli alleati per contrastare l’avanzata della Cina. Mentre gli Stati Uniti stanno intensificando le pressioni su Pechino, insomma, l’ultima cosa che l’amministrazione Biden auspica per il Giappone è una competizione interna al LDP che si protragga virtualmente fino al prossimo autunno.
A parte il caso di Shinzo Abe e pochi altri, la storia del Giappone è ricca di esempi di capi di governo durati pochi mesi. Suga è ai minimi in termini di gradimento da quando ha assunto la carica di primo ministro e sta pagando in particolare la nuova impennata di contagi nel paese, nonché e forse ancora di più il faticosissimo lancio della campagna vaccinale. Proprio nei giorni scorsi, il governo ha dovuto imporre nuove misure restrittive in alcune prefetture che, complessivamente, ospitano circa un quarto della popolazione giapponese. Per quanto riguarda i vaccini, invece, il Giappone ha finora somministrato dosi ad appena l’1% della popolazione.
La decisione di adottare lo stato di emergenza in alcune parti del paese a causa del Coronavirus rappresenta un motivo di imbarazzo per Suga, il quale aveva promesso ai giapponesi che non avrebbero più dovuto sopportare altre restrizioni. Ancora peggio per le sue prospettive politiche, il premier è oggetto di critiche da parte del mondo del business, nuovamente penalizzato dalle chiusure entrate in vigore nel fine settimana. Anche l’organizzazione delle Olimpiadi, rinviate lo scorso anno sempre a causa della pandemia, rischia di trasformarsi in un flop, visto che le speranze di ricavare dai giochi un impulso all’economia sembrano ormai svanite. Infatti, le competizioni si terranno senza pubblico proveniente dall’estero, togliendo così una fonte cruciale di entrate al settore turistico e non solo.
La palla resta ad ogni modo in mano a Suga che avrà facoltà di sciogliere anticipatamente il parlamento se lo riterrà necessario per rinsaldare la sua posizione. Nelle sue intenzioni vi era probabilmente un voto in tempi brevi, ma le tre sconfitte del fine settimana suggeriranno quasi di certo un rinvio nel tentativo di stabilizzare la situazione interna e veder risalire i propri consensi nel paese.
A complicare le cose c’è anche la scadenza a settembre del mandato di Suga alla guida del LDP. La pessima figura rimediata domenica potrebbe fare aumentare i malumori di molti nel partito, preoccupati alla prospettiva di andare a elezioni con un leader che potrebbe portare a una riduzione della maggioranza parlamentare dei liberaldemocratici. Le azioni dei rivali di Suga sembrano perciò in rapida ascesa, soprattutto di quelli che vantano un’immagine più dinamica e un maggiore appeal tra gli elettori, come i due recenti ex ministri degli Esteri, il già ricordato Kishida e Taro Kono, o Shinjiro Koizumi, ministro dell’Ambiente in carica e figlio dello storico leader liberaldemocratico ed ex primo ministro Junichiro Koizumi.
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- Scritto da Mario Lombardo
Le prime due elezioni a livello statale di un anno ricco di appuntamenti con le urne, e che prevede anche il rinnovo del Parlamento federale di Berlino, hanno inviato segnali di allarme ai cristiano-democratici (CDU) della cancelliera Merkel a pochi mesi dal suo addio definitivo alla scena politica tedesca. Oltre a sollevare qualche dubbio sul futuro del principale partito della Germania e sulla leadership del fronte conservatore, il voto di domenica nel Baden-Württemberg e nella Renania-Palatinato ha confermato l’ascesa e la trasformazione dei Verdi in un movimento moderato in grado di garantire la stabilità di un sistema tendente sempre più alla frammentazione e al declino dei partiti di riferimento del capitalismo tedesco.
In entrambi gli stati, la CDU ha dovuto incassare la peggiore prestazione della propria storia. Nella Renania-Palatinato, il partito della Merkel ha perso più di quattro punti percentuali, scendendo al 27,7%, mentre nel Baden-Württemberg la flessione è stata quasi del 3% (24,1%) rispetto al voto del 2016. Soprattutto in quest’ultimo stato della Germania meridionale, ha spiegato un’analisi del voto pubblicata da sito web della rete pubblica Deutsche Welle, l’arretramento della CDU appare preoccupante. Qui hanno infatti sede alcune delle più prestigiose grandi aziende tedesche e lo stato è considerato un bastione conservatore. Il successo per la terza volta consecutiva dei Verdi e del premier statale, Winfried Kretschmann, testimonia dunque del ruolo di questo partito agli occhi delle élites economiche tedesche, tradizionalmente sostenitrici della CDU, con ovvie implicazioni anche a livello federale.
Proprio nel Baden-Württemberg, la conferma dei Verdi, in avanzamento di oltre due punti e ormai sopra il 32% dei consensi, ha aperto la discussione sulla natura della prossima coalizione di governo. Il partito di Kretschmann ha guidato lo stato assieme alla CDU negli ultimi cinque anni, ma già si parla di una possibile alternativa che vedrebbe i Verdi assieme al partito Social Democratico (SPD) e a quello Liberale Democratico (FDP). Questo modello, definito “semaforo” per via dei colori dei tre partiti coinvolti, ha qualche possibilità di essere ripetuto a livello federale se le tendenze evidenziate dal voto di domenica dovessero proseguire fino alle elezioni federali di settembre.
I segnali del potenziale riallineamento politico in Germania sono arrivati alla chiusura delle urne anche dalle dichiarazioni del candidato alla cancelleria per la SPD, il ministro delle Finanze Olaf Scholz. Quest’ultimo, che fa parte della “Grosse Koalition” al governo a Berlino, ha salutato quello del voto nei due stati come “un buon giorno”, poiché “ha mostrato che è possibile creare un esecutivo in Germania senza la CDU”. Anche la co-leader del Verdi, Annalena Baerbock, ha agitato l’ipotesi di composizioni alternative alla CDU per il prossimo governo federale.
La SPD si è confermata nella Renania-Palatinato con la vittoria della premier uscente Malu Dreyer, ma ha tutt’al più evitato di perdere ulteriore terreno e a livello nazionale continua a far segnare un gradimento attorno a un modesto 15%-16%. Molti commentatori tedeschi hanno giudicato perciò l’uscita di Scholz e l’entusiasmo delle sue apparizioni pubbliche come una strategia elettorale. La SPD sta cercando di puntare soprattutto sulla scelta precoce del candidato alla guida del governo, al contrario della CDU che lo farà invece solo nelle settimane successive alla Pasqua.
A essere maggiormente sotto pressione è comunque il neo-leader cristiano-democratico, Armin Laschet, nominato successore della Merkel lo scorso mese di gennaio. In tempi normali, il numero uno del primo partito tedesco sarebbe automaticamente il logico candidato alla cancelleria, ma le scosse degli ultimi anni, confermate dal voto del fine settimana, sollevano più di un dubbio. La CDU ha pagato l’irritazione diffusa per alcuni casi di corruzione che hanno interessato tre deputati conservatori, costretti alle dimissioni perché coinvolti in un scandalo legato alla fornitura di mascherine. Anche il non esaltante lancio della campagna vaccinale contro il COVID-19 ha indubbiamente favorito l’erosione dalla CDU.
Più in generale, sono gli equilibri del panorama politico della Germania a essere messi in discussione, con i Verdi che appaiono i principali beneficiari della crescente freddezza mostrata dagli elettori prima per la SPD e da qualche tempo anche per la CDU. La questione della scelta del candidato alla carica di cancelliere per il fronte conservatore sarà dunque particolarmente delicata quest’anno. Laschet resta il favorito ma sembra suscitare ben pochi entusiasmi, tanto che continua a circolare il nome di Markus Söder, leader del partito-gemello della CDU, i cristiano-sociali (CSU) bavaresi. Söder è l’attuale premier della Baviera ed è uno dei politici con il maggiore indice di gradimento su scala nazionale.
Per il momento, è molto probabile che la CDU resterà il fulcro anche del prossimo governo federale. Le manovre e le dichiarazioni sibilline dei leader dei Verdi e della SPD appaiono come il tentativo di posizionarsi nel migliore dei modi in vista del voto di settembre e delle trattative che seguiranno per la formazione del primo gabinetto del dopo-Merkel. Soprattutto i Verdi hanno approfittato della convincente performance elettorale per accreditarsi come forza responsabile di governo che ha abbandonato ormai del tutto l’attitudine “radicale” del passato, peraltro mai riscontrata nella realtà dei fatti. Uno dei due leader del partito, Robert Habeck, domenica sera ha spiegato in un’intervista alla rete ARD che i principi ispiratori sono “lungimiranza e pragmatismo”, validi sia a livello statale sia a quello federale.
La strategia verde è in definitiva quella di intercettare i voti moderati in fuga dalla CDU quasi orfana della Merkel dopo anni al governo in varie coalizioni statali, nonché per due mandati a livello federale, trascorsi nel rassicurare i grandi interessi economico-finanziari-industriali tedeschi dell’intenzione di allinearsi fedelmente alle loro priorità. I Verdi, infatti, condividono in pieno gli obiettivi del capitalismo tedesco nel quadro della realtà internazionale odierna, a cominciare da quello di promuovere un’ambiziosa politica da grande potenza, in primo luogo attraverso l’impulso alla militarizzazione.
Il rimescolamento in atto degli equilibri politici in Germania potrebbe risultare più chiaro nei prossimi mesi che condurranno al voto federale del 26 settembre. L’obiettivo principale della classe dirigente tedesca sarà quello di garantire, pur nella frammentazione del sistema, il predominio di forze moderate e affidabili, in modo da contenere al minimo le forze centrifughe.
Una prima indicazione in questo senso è arrivata sempre dalle recenti elezioni in Baden-Württemberg e Renania-Palatinato. In entrambi gli stati le frange estreme dello schieramento politico hanno ottenuto risultati deludenti. A destra, l’Alternativa per la Germania (AfD) ha perso complessivamente circa un terzo dei consensi rispetto a cinque anni fa, sia pure mantenendosi attorno al 10%. La sinistra di “Die Linke” non ha invece nemmeno superato la soglia di sbarramento per ottenere deputati nei due parlamenti statali.
Per l’AfD può avere pesato la recente decisione dei servizi segreti federali di mettere il partito sotto sorveglianza perché considerato una minaccia al sistema democratico, ma soprattutto vanno considerati i limiti fisiologici di un movimento che si richiama più o meno apertamente ai principi del nazismo. “Die Linke”, invece, continua ad arrancare al di fuori dei “Länder” orientali e, ancora di più, ha dimostrato nuovamente di non essere in grado di offrire un’alternativa di sinistra a un quadro generale caratterizzato, anche in Germania, da un evidente fermento politico e sociale.
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- Scritto da Mario Lombardo
L’accordo sugli investimenti raggiunto il penultimo giorno dell’anno tra Cina e Unione Europea ha rappresentato una sorpresa particolarmente sgradita per il governo americano e, in particolare, per l’amministrazione entrante del presidente-eletto Joe Biden. L’intesa, che sembrava in pieno stallo appena un paio di mesi fa, potrebbe infatti aggravare le tensioni tra le due sponde dell’Atlantico proprio mentre l’uscita di scena di Trump prospettava a Washington la possibilità di costruire un fronte comune con gli alleati per contenere la minaccia cinese.
I negoziati erano in corso da parecchi anni, ma le differenze che apparivano quasi insormontabili sono state superate nell’arco di poche settimane soprattutto, secondo quanto riportato dai media, grazie all’impegno diretto del presidente cinese, Xi Jinping, e della cancelliera tedesca Merkel, con il pieno appoggio di Macron e della numero uno della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.
L’accordo dovrà essere ratificato dai singoli parlamenti dei paesi UE prima di entrare in vigore e, in tal caso, rafforzerà i legami economici tra Bruxelles e Pechino, spianando la strada a quello che sarà probabilmente il passo successivo, vale a dire un trattato di libero scambio. A dare la spinta decisiva sono stati due fattori. Il primo è il voto per le presidenziali USA dello scorso novembre e il successivo periodo di transizione tra le due amministrazioni, mentre l’altro è l’avvicinarsi della fine del semestre tedesco alla presidenza dell’Unione.
Quest’ultimo elemento ha messo in chiaro quale sia la posta in gioco per il governo di Berlino, ben deciso a far valere la propria autonomia strategica dagli Stati Uniti, in particolare riguardo alla promozione degli interessi del capitalismo tedesco, orientato sempre più verso il mercato cinese. L’autorità ulteriore garantita dalla leadership provvisoria dell’UE, assieme alla finestra temporale tra la sconfitta di Trump e l’insediamento di Biden, hanno dato, come spiegava qualche giorno fa un commento del francese Le Monde, una “opportunità unica” a una Germania convinta dalla pandemia della necessità “urgente di rafforzare la sovranità europea… nel pieno dello scontro tra Washington e Pechino”.
Proprio la concomitanza dell’accordo con la vittoria di Biden e l’impegno dell’ex vice-presidente democratico per rinsaldare le alleanze in Occidente, al fine di contrastare le spinte centrifughe e multipolari, testimonia della presenza di forze formidabili dentro la classe dirigente europea che spingono per l’implementazione di politiche “indipendenti” e potenzialmente in conflitto con gli Stati Uniti, al di là degli orientamenti dell’inquilino della Casa Bianca.
Queste dinamiche rispondono d’altra parte a fattori oggettivi e non dipendono solo dalle tendenze personali di Trump. Da Parigi a Berlino, i leader delle principali potenze economiche europee ritengono evidentemente che negli USA la strada del nazionalismo spinto difficilmente verrà abbandonata del tutto. La minaccia alla coesione della NATO, la guerra commerciale anche contro gli alleati e l’arma delle sanzioni economiche dirette verso paesi con cui Bruxelles non intende rompere (Cina, Russia, Iran) rischiano di restare a lungo in cima all’agenda di qualsiasi governo USA perché sono in definitiva una reazione alla declinante posizione internazionale di Washington.
L’accordo sugli investimenti è dunque in primo luogo una decisione politica da parte dell’Europa, il cui business intende però sfruttare le occasioni di profitto offerte dalla Cina, praticamente l’unica potenza economica mondiale in grado di far segnare tassi di crescita positivi per l’anno 2020. Secondo i termini concordati, le compagnie europee di svariati settori avranno accesso senza precedenti al mercato cinese, ad esempio senza l’obbligo di operare in regime di “joint venture” o di condividere tecnologie e proprietà intellettuale. Ancora, a livello teorico il governo di Pechino non potrà fare discriminazioni tra le aziende europee e quelle statali domestiche nell’assegnazione di appalti.
La Cina si impegna inoltre a rispettare i termini dell’accordo sul clima di Parigi e a ratificare le convenzioni internazionali contro il lavoro forzato. Questa promessa, già denunciata come improbabile dagli oppositori dell’intesa con l’UE, serve a limitare la valanga di accuse, in larga misura strumentali, relative alla presunta esistenza di campi di lavoro nella regione a maggioranza musulmana dello Xinjiang.
Da parte sua, la Cina otterrà più ampie possibilità di investimento in Europa, dal settore manifatturiero a quello energetico. Anche in questo caso, tuttavia, i benefici saranno soprattutto politici. È quasi unanime il giudizio degli osservatori sui vantaggi di natura geopolitica che deriveranno per Pechino. L’accordo del 30 dicembre e, ancora di più, un eventuale trattato di libero scambio con l’Europa implicano la rottura dell’isolamento in cui gli Stati Uniti intendono forzare la Cina, sia attraverso la guerra commerciale unilaterale di Trump sia, in prospettiva, con il compattamento del fronte occidentale auspicato da Biden.
Ampiamente citato dai media internazionali è stato nei giorni scorsi il commento all’accordo dell’analista Noah Barkin. Quest’ultimo lo ha definito uno “schiaffo” all’amministrazione democratica entrante, intenzionata a “riparare i legami transatlantici e a lavorare in sintonia con l’Europa per far fronte alle sfide strategiche” proposte da Pechino. La rapidità con cui l’accordo sugli investimenti è stato finalizzato nelle ultime settimane dell’anno indica precisamente il desiderio dei leader europei di mettere Biden davanti al fatto compiuto, anticipando le iniziative comuni che la sua amministrazione avrebbe adottato in funzione anti-cinese.
I tempi dell’accordo e la determinazione da parte europea sono ancora più sorprendenti, nonché altamente significativi, se si pensa che i futuri membri del gabinetto Biden avevano orchestrato una vera e propria campagna per impedire la stipula dell’accordo, puntando con ogni probabilità sugli ambienti più filo-americani da questa parte dell’Atlantico.
Il prossimo consigliere per la Sicurezza Nazionale USA, Jake Sullivan, era stato il più esplicito in questo senso. Il 22 dicembre aveva scritto su Twitter che “l’amministrazione Biden-Harris gradirebbe consultarsi precocemente con i propri partner europei in merito alle preoccupazioni comuni derivanti dalle pratiche economiche cinesi”. Sempre Sullivan, in una più recente intervista alla CNN, aveva inoltre espresso la volontà di superare le incomprensioni con gli alleati sorte durante la presidenza Trump, allo scopo di “creare un’agenda comune” sulle questioni legate ai problemi sollevati dalla minaccia di Pechino.
Manifestando tutta l’apprensione degli ambienti USA vicini al Partito Democratico, l’editorialista del Washington Post, Ishaan Tharoor, ha spiegato che l’annuncio dell’accordo sugli investimenti tra Cina e UE ha invece mostrato una “realtà differente”. La Merkel e Macron hanno cioè optato per una “’autonomia strategica” dell’Europa, con l’obiettivo addirittura di liberarsi dalla “protezione, durata oltre mezzo secolo, della Pax Americana”.
Il rimescolamento in atto, che potrebbe spiazzare da subito il nuovo governo americano, è sottolineato anche dal fatto che la Commissione Europea solo nel 2019 in un documento ufficiale aveva bollato la Cina come un “rivale strategico”. Non solo, quanto meno a livello potenziale, l’integrazione euro-asiatica, a cui strizza l’occhio il recente accordo tra Pechino e Bruxelles, potrebbe produrre effetti benefici anche per la Russia. Quest’ultimo paese è infatti sempre più uno snodo imprescindibile di queste dinamiche, soprattutto per via della partnership strategica costruita con la Cina.
La posizione dell’Europa non è ad ogni modo univoca sull’approccio alla Cina. Voci fermamente contrarie all’accordo si sono fatte sentire già a partire dalle ultime ore dell’anno. Le riserve più diffuse riguardano appunto l’opportunità di inviare un messaggio così ostile a Washington alla vigilia di un cambio della guardia alla Casa Bianca che dovrebbe favorire il ripristino di relazioni più distese tra USA e UE. L’argomento preferito per denunciare l’accordo con Pechino è stato poi quello della “democrazia” e dei “diritti umani”, in merito ai quali la Cina dovrebbe presumibilmente fare molto di più prima che l’Europa acconsenta a un accordo come quello appena sottoscritto.
Una delle speranze ostentate dalla stampa ufficiale cinese nei giorni scorsi è che l’accordo sugli investimenti con Bruxelles e un futuro trattato di libero scambio possano non solo evitare l’isolamento di Pechino, ma anche stabilizzare in qualche modo il capitalismo internazionale e consolidare le fondamenta della globalizzazione.
Le divisioni in Europa e la quasi certa risposta degli Stati Uniti a questi sviluppi fanno pensare piuttosto a un inasprimento delle tensioni internazionali, già alimentate dall’impatto della pandemia in corso. La questione più esplosiva e difficilmente risolvibile nel quadro attuale resta in definitiva l’integrazione pacifica di una Cina dal peso economico sempre maggiore in un sistema dominato da un’America in profonda crisi e non più in grado di conservare la propria posizione se non attraverso la forza e la minaccia militare.