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- Scritto da Michele Paris
Tra voci di una possibile imminente tregua e l’intensificazione dell’offensiva militare israeliana nel nord della striscia di Gaza, sono emersi in questi giorni nuovi raccapriccianti dettagli sulle operazioni del regime di Netanyahu per “ripulire” questo territorio dalla popolazione palestinese con la complicità degli Stati Uniti e degli altri governi occidentali. Il tutto mentre Trump insiste nel fare pressioni sul sistema giudiziario israeliano per lasciar cadere le accuse di corruzione e altri reati simili nei confronti del premier/criminale di guerra, collegando assurdamente il processo ai danni di quest’ultimo agli aiuti militari garantiti da Washington a Tel Aviv.
La misura della strage
Un team di accademici di una università di Londra ha pubblicato nei giorni scorsi uno degli studi più esaustivi sul bilancio reale dei morti causati finora dalla barbarie sionista a Gaza. Altre indagini nei mesi scorsi avevano peraltro già concluso che il numero offerto dalle autorità della striscia era fortemente sottostimato. Ad oggi, il dato ufficiale supera le 55 mila vittime, gran parte delle quali civili e, di questi, un numero spropositato è costituito da donne e bambini.
Secondo lo studio, ci sarebbe una sottovalutazione delle vittime di almeno il 40% e, oltre a coloro che sono morti direttamente a causa degli attacchi delle forze di occupazione israeliane, vanno tenuti in considerazione i decessi dovuti al tracollo del sistema assistenziale e della rete social-famigliare, avvenuto soprattutto dopo i primi mesi dell’offensiva israeliana seguita ai fatti del 7 ottobre 2023. Grazie a fattori come la presenza dell’agenzia per i rifugiati palestinesi dell’ONU (UNRWA) e di altre ONG, un sistema sanitario relativamente efficiente e una rete comunitaria e famigliare capillare, l’impatto di fame, malattie e privazioni era stato in qualche modo attenuato nelle prime fasi del genocidio.
In seguito, tuttavia, il livello di distruzione provocato dalle operazioni militari indiscriminate e lo sradicamento di fatto di praticamente tutta la popolazione di Gaza hanno spazzato via ogni forma di difesa, facendo aumentare drammaticamente il numero delle vittime. A peggiorare le cose è stato il blocco totale degli aiuti in ingresso nella striscia imposto dalle forze sioniste dal 4 marzo scorso fino – teoricamente – al 19 maggio. Dopo quest’ultima data, Israele e Stati Uniti hanno messo in piedi un’organizzazione fintamente umanitaria incaricata di distribuire aiuti comunque di gran lunga insufficienti, per sfruttarla allo scopo di assassinare senza troppe complicazioni un numero ancora più elevato di civili palestinesi.
In definitiva, fino allo scorso gennaio, i calcoli dello studio citato davano un totale di quasi 84 mila morti che, se si considerano i mesi trascorsi da allora, ammontano quasi certamente ad oggi a un numero superiore a 100 mila. Il dato rende l’aggressione israeliana di Gaza uno dei conflitti più sanguinosi del 21esimo secolo. Gli autori dell’indagine spiegano che la strage in corso è la peggiore per quanto riguarda il rapporto tra vittime civili e combattenti, così come per la percentuale di morti sulla popolazione totale.
Il 56% dei morti per mano di Israele sono bambini sotto i 18 anni o donne e questa proporzione è pari a oltre il doppio di quella registrata nei peggiori conflitti degli ultimi 25 anni. Nella guerra civile del Kosovo e in Siria la percentuale era ad esempio del 20%, del 21% in Colombia, del 17% in Iraq, del 23% in Sudan e del 9% in Etiopia. Il totale dei morti finora a Gaza è inoltre pari a circa il 4% della popolazione complessiva della striscia, una quota cioè senza precedenti per il secolo che stiamo vivendo. I numeri del ministero della Salute di Gaza sono ridicolizzati dal regime di Netanyahu, nonostante siano essi stessi sottostimati, mentre Tel Aviv ammette di avere ucciso 20 mila “terroristi” affiliati a Hamas. Com’è ovvio, Israele non fornisce alcuna informazione per dimostrare l’identità dei morti.
Lo stesso studio dell’università londinese ha indagato le cifre proposte da Israele, ma i militanti di Hamas liquidati, anche accettando la definizione altamente discutibile di “terroristi”, sembrano essere tutt’al più qualche centinaio. Basandosi su tecniche consolidate per analizzare i teatri di guerra, i ricercatori spiegano che, se il numero di 20 mila morti fosse reale, a esso dovrebbe corrispondere almeno il doppio di feriti, ovvero 40 mila. Il che significa che Hamas dispone o disponeva come minimo di 60 mila uomini, anzi molti di più se si considera che il movimento di liberazione non è stato cancellato dalla striscia. Cifre simili sono universalmente considerate irreali.
I crimini come politica
Qualche giorno fa, il quotidiano “liberal” israeliano Haaretz ha pubblicato una serie di sconvolgenti testimonianze di militari delle forze di occupazione israeliane che ammettono di avere avuto ordine di sparare a vista e senza motivo sui civili palestinesi che ogni giorno si recano nei centri di distribuzione aiuti gestiti dalla cosiddetta “Fondazione Umanitaria per Gaza”. Da quando è stato istituito questo meccanismo i morti ammazzati deliberatamente dai militari sionisti sono stati più di 500 e migliaia sono invece i feriti.
Fin da prima del lancio dell’operazione, l’ONU e le organizzazioni umanitarie che operano tradizionalmente nella striscia avevano avvertito che si trattava di una manovra americana e israeliana che, dietro il paravento degli aiuti, avrebbe peggiorato la situazione. Il modo in cui il piano era stato studiato avrebbe costretto i palestinesi a spostarsi nel sud della striscia, da dove poi sarebbe stato più facile espellerli definitivamente dalla loro terra, mentre un gran numero di essi sarebbe stato ucciso dai militari con la scusa di mantenere l’ordine presso i centri di distribuzione o di impedire i saccheggi.
Queste previsioni si sono pienamente avverate e a confermarlo sono i soldati israeliani che hanno parlato con i giornalisti di Haaretz. Uno di essi definisce le aree dedicate alla distribuzione di cibo e altri beni di prima necessità come “campi di sterminio”. Nella sola postazione dove era stato assegnato, si verificavano fino a cinque assassini al giorno. I palestinesi disperati accorsi per ricevere qualche aiuto vengono trattati come “forze ostili”, contro cui si impiegano tutte le armi da fuoco a disposizione, dalle mitragliatrici pesanti alle granate, fino ai mortai.
In sostanza, come si legge nell’articolo, il fuoco dei militari israeliani serve a far muovere i palestinesi nella direzione desiderata, così da liquidarli in maniera deliberata con la giustificazione del controllo della distribuzione degli aiuti e del contrasto al caos e ai saccheggi. Un altro soldato ha ammesso di non avere mai assistito a episodi nei quali la sua squadra era esposta al fuoco di militanti palestinesi. In altre parole, le stragi quotidiane avvengono nonostante “non ci siano nemici né armi”. Se, poi, qualcuno chiede ai superiori il motivo per cui si spara, non c’è mai una risposta adeguata e la sola domanda “infastidisce i comandanti”.
Medici Senza Frontiere e altre organizzazioni hanno definito il sistema messo in piedi da Washington e Tel Aviv una “parte integrante delle operazioni di pulizia etnica” israeliane. Ciononostante, l’amministrazione Trump ha appena stanziato altri 30 milioni di dollari a favore del progetto, con un portavoce del dipartimento Stato che ha pubblicamente elogiato gli addetti a queste operazioni a Gaza per il lavoro “incredibile” che starebbero facendo.
Se c’era una possibilità che il regime sionista sprofondasse ancora di più nell’abisso di turpitudine morale in cui già affoga, l’occasione per farlo l’hanno colta immediatamente i due principali responsabili delle mostruosità in atto, ovvero Netanyahu e il suo ministro della guerra, Israel Katz. In una dichiarazione che risulterebbe ridicola se non avvenisse in un contesto tragico, i due criminali di guerra hanno bollato l’articolo di Haaretz come una “accusa del sangue”, riferendosi all’accusa antisemita di origine medievale secondo la quale gli ebrei usavano il sangue di bambini cristiani per sacrifici rituali. Un’accusa ampiamente smentita e storicamente usata per giustificare le persecuzioni contro gli ebrei. La ferocia che caratterizza la reazione di Netanyahu e Katz ha provato a spiegarla la giornalista indipendente australiana Caitlin Johnstone, per la quale “la macchina della propaganda di Israele non immaginava che alcuni soldati incaricati di attuare l’olocausto di Gaza potessero avere una coscienza”.
Tregua e illusioni
Negli ultimi giorni si sono moltiplicate le voci di un possibile accordo per un cessate il fuoco a Gaza. Se le dichiarazioni che arrivano da Washington rendono come sempre complicata una lettura della realtà, quello che si intuisce tra le righe sembra essere un tentativo da parte di Trump e Netanyahu di capitalizzare l’esito della guerra con l’Iran, o più precisamente la versione che entrambi ne hanno dato, per forzare una soluzione che favorisca solo lo stato ebraico. La proposta sul tavolo prevedrebbe infatti ancora una volta condizioni inaccettabili da parte di Hamas, come il disarmo del movimento di resistenza palestinese, l’esilio all’estero dei suoi leader e, soprattutto, la mancata assicurazione di una tregua permanente e l’evacuazione delle forze di occupazione sioniste da Gaza.
C’è insomma una certa impazienza a Washington e Tel Aviv per chiudere almeno temporaneamente una crisi che sta pesando sulla residua legittimità del regime di Netanyahu e sulla stessa tenuta economica e sociale dello stato ebraico. Quello che si vuole è però il raggiungimento degli obiettivi del premier e dei suoi alleati ultra-radicali, vale a dire la resa di Hamas e la facoltà di gettare le basi dell’occupazione permanente della striscia, attraverso la “diplomazia”, visto che non è stato possibile finora ottenerli con le armi. USA e Israele continuano d’altra parte a presentare proposte che includono un periodo di calma provvisorio, per facilitare la liberazione dei prigionieri israeliani ancora nelle mani di Hamas e poi consentire la ripresa dell’aggressione e del genocidio.
Questa realtà dimostra che Israele e Stati Uniti non sono interessati a una trattativa seria, malgrado la profonda crisi in cui versa il regime di Netanyahu. Serietà che è peraltro un concetto totalmente sconosciuto alla Casa Bianca, come dimostra la nuova uscita di Trump a proposito dei guai legali di Netanyahu. In un altro post sul suo social Truth, il presidente americano è tornato domenica a chiedere alla magistratura israeliana – un organo a tutti gli effetti indipendente – di lasciar cadere le accuse che pesano su Netanyahu e l’archiviazione del processo in cui è coinvolto. Al culmine dell’incoerenza, Trump ha addirittura minacciato di congelare gli aiuti militari americani a Israele se il primo ministro non verrà immediatamente prosciolto da tutte le accuse a suo carico.
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- Scritto da Mario Lombardo
La vicenda della legge sulle “interferenze straniere” appena approvata in via definitiva dal parlamento della Georgia è un esempio perfetto della doppiezza e della monumentale ipocrisia che caratterizza la politica estera di Europa e Stati Uniti. Il provvedimento è oggetto di feroci critiche e condanne, nonché di una campagna di disinformazione che punta a descrivere come ultra-repressiva e anti-democratica una legge legittima, per molti versi necessaria e, soprattutto, già parte della legislazione di alcuni paesi occidentali e in fase di seria discussione in altri.
La legge è passata in terza e ultima lettura martedì con il voto favorevole di 84 deputati e 30 contrari. Un testo pressoché identico era stato proposto un anno fa, ma la maggioranza del partito “Sogno Georgiano” l’aveva poi ritirato in seguito alle pressioni internazionali e all’esplodere di proteste popolari sempre più aggressive. Le stesse manifestazioni contro la legge erano subito scattate anche alla metà di aprile, quando il governo aveva reintrodotto il provvedimento con alcuni cambiamenti cosmetici. In sostanza, l’unica differenza di rilievo era il cambiamento della definizione dei soggetti contro cui la legge è indirizzata: da “agenti di influenza straniera” a “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”.
Secondo il testo, ONG, media e sindacati che ricevono più del 20% dei loro introiti dall’estero sono tenuti appunto a registrarsi come “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”, così da potere essere monitorati dal ministero della Giustizia georgiano. Questo paese caucasico ospita un numero insolitamente alto di ONG e altre organizzazioni che operano in vari ambiti della “società civile”. La gran parte di esse viene finanziata dall’estero, spesso tramite soggetti collegati direttamente o indirettamente al governo americano o all’Unione Europea.
La legge è stata fin dall’inizio bollata da Washington e Bruxelles come una sorta di regalo alla Russia di Putin e, anzi, a una normativa simile già implementata da Mosca viene continuamente accostata. Più correttamente, la legge si ispira al “Foreign Agents Registration Act” (“FARA”) americano degli anni Trenta del secolo scorso. Rispetto a quest’ultima, quella georgiana risulta oltretutto più morbida. Ad esempio, negli Stati Uniti è prevista l’incriminazione per i soggetti che non provvedono a registrarsi come agenti stranieri, mentre in Georgia si rischierà solo una sanzione fino ad un massimo di 9.500 dollari.
Tutto questo viene naturalmente ignorato da governi, media e ONG occidentali quando discutono della legge georgiana, che resta invariabilmente “la legge di Putin”. Incredibilmente, in questi giorni l’assistente al segretario di Stato USA, Jim O’Brien, visitando la Georgia, ha spiegato che questo paese rischia di vedere compromessi gli sforzi per accedere all’UE e alla NATO, poiché la legge appena approvata determina un allontanamento dagli “standard [democratici]” richiesti da questi organismi. In altre parole, la Georgia rischia di trovarsi la strada sbarrata in Occidente perché ha appena introdotto nel proprio ordinamento una legge per limitare le attività di destabilizzazione favorite dall’estero di fatto identica, anche se meno restrittiva, di quella in vigore da quasi un secolo negli Stati Uniti.
Anche in sede europea si discute delle conseguenze sui rapporti con Tbilisi che la legge potrebbe avere. I ministri degli Esteri di una dozzina di paesi già nei giorni scorsi avevano emesso un comunicato ufficiale per chiedere alle autorità UE di valutare “l’impatto del provvedimento sul processo di adesione”. Una risposta congiunta dei 27 membri non sembra essere invece in agenda, visto che alcuni governi, come quelli di Ungheria e Slovacchia, ritengono di non dover interferire nelle vicende interne di un paese terzo.
Le espressioni di condanna dei burocrati europei sono accompagnate rigorosamente dalle solite prediche sul rispetto dei principi democratici e del diritto, tutti messi in serissimo pericolo, a loro dire, dalla legge georgiana. La stessa Commissione Europea sta però discutendo essa stessa l’opportunità di introdurre nel prossimo futuro un provvedimento sulla linea di quello oggetto di contestazioni in Georgia, oltre che già in vigore negli Stati Uniti. La proposta, scaturita dallo scandalo “Qatargate”, punta a creare un database dei lobbisti stranieri per limitare o neutralizzare le “influenze maligne” estere.
Il dibattito pubblico sulla proposta aveva sollevato qualche voce critica, non solo tra le stesse ONG che rischiano di essere costrette a rendere pubbliche le loro fonti di introito, ma anche da quanti avvertivano che una legge simile farebbe cadere la maschera della finta democrazia europea. In primo luogo, l’UE non avrebbe più, nemmeno formalmente, l’autorità morale per denunciare iniziative come quella georgiana visto che ritiene necessaria anche per sé stessa una legge simile. Inoltre, il provvedimento allo studio finirebbe per penalizzare una pratica comune alle istituzioni europee, ovvero l’elargizione di finanziamenti a organizzazioni della “società civile” operanti in paesi stranieri.
Dopo l’approvazione definitiva di martedì, la legge georgiana dovrà essere ratificata dalla presidente filo-occidentale Salomé Zourabichvili, la quale ha già dichiarato che intende utilizzare il potere di veto. La maggioranza che sostiene il governo del primo ministro, Irakli Kobakhidze, potrà però annullarlo e consentire alla legge di entrare in vigore definitivamente. L’incognita che rimane è rappresentata dalla possibile prosecuzione delle proteste dell’opposizione, cioè se i sostenitori occidentali dei manifestanti sceglieranno di continuare a destabilizzare la Georgia cercando di forzare un cambio di regime, a rischio di gettare il paese nel caos.
La determinazione con cui il governo sta portando a termine l’iter legislativo del provvedimento sulle interferenze straniere, così come l’insistenza della propaganda europea e americana per affondare una legge interamente legittima, rivela l’importanza della posta in gioco a Tbilisi. Lo scontro in atto si collega infatti al conflitto tra Russia e Ucraina o, più, precisamente, tra Russia e USA/UE/NATO. In questo scenario, la Georgia si è ritrovata in una posizione sempre più precaria. Da un lato è sottoposta alle pressioni occidentali per partecipare in pieno alla campagna anti-russa, mentre dall’altro deve procedere con estrema cautela per evitare il coinvolgimento diretto in una guerra che avrebbe effetti devastanti.
Il governo del partito “Sogno Georgiano”, al netto delle falsificazioni occidentali, non è in nessun modo filo-russo, tanto che aveva subito condannato l’invasione dell’Ucraina e fornito aiuti umanitari a Kiev. Da tempo cerca poi di costruire un percorso per entrare nell’UE e, sia pure in modo più prudente, nella NATO. Lo scorso dicembre, da Bruxelles era arrivato anche il via libera al riconoscimento dello status di candidato ufficiale all’ingresso nell’Unione Europea.
Allo stesso tempo, il governo georgiano è perfettamente consapevole dell’importanza di evitare che le relazioni con la Russia precipitino, visto anche il ricordo molto vivido della disastrosa guerra in Abkhazia e Ossezia del sud nel 2008. La Russia è chiaramente una presenza fondamentale e inevitabile, dal punto di vista geografico, economico e militare, così che Tbilisi non ha alcun interesse a percorrere la strada suicida dell’Ucraina o, in prospettiva, della Moldavia per assecondare le mire strategiche occidentali. Realismo e pragmatismo sono quindi i principi a cui si ispira il partito di governo fin dall’approdo al potere per la prima volta dodici anni fa sotto la guida dell’imprenditore miliardario con interessi in Russia, Bidzina Ivanishvili.
Alla luce di questi orientamenti, non sorprende che governi e servizi di intelligence occidentali abbiano intensificato le manovre per fare pressioni sul governo di Tbilisi, principalmente fomentando proteste di piazza talvolta violente per far naufragare una legge che andrebbe a colpire o, quanto meno, a smascherare le loro stesse manovre destabilizzanti. Se anche le tensioni dovessero abbassarsi dopo l’approvazione della legge sulle ingerenze straniere, è probabile che la campagna contro il governo riprenderà nei prossimi mesi in vista delle elezioni legislative in programma a ottobre.
Tornando alla posizione della Georgia, va ricordato che questo paese impoverito negli ultimi due anni ha beneficiato notevolmente dell’aumento dei traffici commerciali con la Russia, dovuto alla chiusura, per via delle sanzioni americane ed europee, delle rotte che passavano dall’Occidente. Non si stratta solo di un’attitudine opportunistica, quella georgiana, ma di un calibramento strategico volto a massimizzare i vantaggi di una politica estera aperta. Tanto che la Georgia ha accompagnato la candidatura all’ingresso nell’UE alla formalizzazione di una partnership strategica con la Cina.
A fronte di ciò, i crociati della democrazia in Occidente chiedono invece alla Georgia di salire sul carro delle sanzioni contro la Russia, favorendo un autentico suicidio economico esattamente come sta facendo l’Europa, e di andare allo scontro totale con Mosca, sposando la fallimentare causa ucraina e mettendo a serio rischio la propria sicurezza interna. Con queste premesse, non è difficile comprendere le ragioni per cui il governo di Tbilisi diffidi dell’Occidente e intenda andare fino in fondo per tenere sotto controllo le manovre di destabilizzazione organizzate dall’estero.
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- Scritto da Sara Michelucci
Esordio alla regia per Micaela Ramazzotti, con il film Felicità, di cui è anche la protagonista, che sarà presentato in concorso nella sezione Orizzonti Extra alla 80ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.
La storia è quella di una famiglia storta, di genitori egoisti e manipolatori, un mostro a due teste che divora ogni speranza di libertà dei propri figli. Desirè è la sola che può salvare suo fratello Claudio e continuerà a lottare contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, per inseguire un po’ di felicità.
Una sorella che tenta in tutti i modi di far uscire dalla depressione il fratello, vittima dei suoi stessi genitori, troppo debole per riuscire a salvarsi da solo. Un film sulla famiglia e sulla costante lotta per riuscire a distruggere legami sbagliati e che fanno stare male.
Con Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Micaela Ramazzotti e con la partecipazione di Sergio Rubini, il film è prodotto da Lotus Production con Rai Cinema e sarà distribuito da 01 Distribution.
"Sono onorata e orgogliosa che proprio la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia sia la prima a voler bene a Felicità - dichiara la regista - . Cosa di cui tutti noi abbiamo bisogno".
Il film arriverà nella sale italiane il 21 settembre.
Felicità (Italia, 2023)
Regia: Micaela Ramazzotti
Attori: Micaela Ramazzotti, Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Sergio Rubini
Distribuzione: 01 Distribution
Sceneggiatura: Micaela Ramazzotti, Isabella Cecchi, Alessandra Guidi
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Jacopo Quadri
Produzione: Lotus Production con Rai Cinema
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- Scritto da Sara Michelucci
Presentato in anteprima mondiale al Sundance Festival 2023 e vincitore del Gran Premio della Giuria per miglior film drammatico, A Thousand and one, primo film dietro la macchina da presa, della sceneggiatrice A.V. Rockwell, narra la storia di Inez (Teyana Taylor), una donna determinata e impetuosa, la quale rapisce il figlio Terry, di sei anni, dal sistema di affidamento nazionale. Aggrappandosi uno all’altro, madre e figlio cercano di ritrovare il senso di casa, di identità e di stabilità in una New York in rapido cambiamento.
Siamo di fronte ad un dramma familiare contemporaneo, che racconta le difficoltà di una donna sola e certamente non benestante, in una città difficile come NY. Terry sogna di poter stare con sua madre e lega subito con Lucky (Aaron Kingsley Adetola), il compagno di Inez. Quando diventa adolescente, Terry (Aven Courtney) si rivela essere un ragazzo intelligente e studioso e così sua madre sogna per lui un futuro migliore del suo, lontano dalla strada, ma ciò che ha segnato all’origine la loro difficile storia familiare sta per tornare a galla.
Un film sicuramente interessante sia dal lato della sceneggiatura, che della regia, che ha nel realismo di cui è intriso quella giusta carica che serve a sondare e comprendere la vita dei suoi protagonisti.
A Thousand and one (Usa 2023)
Regia: A.V. Rockwell
Cast: Teyana Taylor, William Catlett, Josiah Cross, Aven Courtney, Aaron Kingsley Adetola, Terri Abney, Delissa Reynolds, Amelia Workman, Adriane Lenox
Sceneggiatura: A.V. Rockwell
Fotografia: Eric Yue
Montaggio: Sabine Hoffman, Kristan Sprague
Distribuzione: Lucky Red e Universal Pictures International Italy
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- Scritto da Sara Michelucci
Firmato da Giuseppe Piccioni, L'ombra del giorno racconta una storia d'amore in un periodo storico difficile. Siamo nel 1938. È un giorno qualunque, in una città di provincia come tante altre in Italia (Ascoli Piceno). I tavoli sono apparecchiati e Luciano ha appena aperto il suo ristorante. Dalla vetrina vede un corteo ordinato di bimbi di una scuola elementare, accompagnati da una maestra. Camminano disciplinati sul marciapiede al sole, in fila per due, con i loro grembiuli infiocchettati e i capelli pettinati con cura. Luciano è tentato di credere a quell’immagine di serenità, di fiducia nel futuro. Ha un’andatura claudicante a causa di una ferita della prima guerra mondiale, un ricordo permanente della ferocia di quel conflitto.
Dietro le ampie vetrine che danno sull’antica piazza scorre la vita di quella piccola città in quegli anni. Sono gli anni del consenso, delle operepubbliche, e delle nuove città. Luciano è un fascista, come la maggior parte degli italiani in quel periodo, ma lo è a modo suo; ha preferito rimanere in disparte e si è tenuto lontano dall’idea di trarre vantaggio dalle sue decorazioni di guerra e dalla militanza ottusa e obbediente nelle gerarchie del partito.
Però si sente partecipe di quel generale entusiasmo, nonostante per indole tenda a occuparsi solo dei fatti propri, perché “il lavoro è lavoro”: quello che gli sta a cuore è il suo ristorante e i compiti quotidiani a cui lui si dedica con scrupolo taciturno. Finché fuori dalla vetrina, appare una ragazza. Mi chiamo Anna Costanzi, gli dice, e timidamente chiede se cercano personale. Di lì a poco l’avvento di quella ragazza e le prime evidenti crepe che si evidenziano in quel mondo che guarda dalla vetrina cambieranno la vita di Luciano.
Com’è strana la vita, pensa Luciano. Un tempo, del suo lavoro, gli piaceva proprio essereaffacciato sulla strada, guardare la gente che passeggiava, che correva in fretta al lavoro, gli dava l’illusione di essere insieme a quelle persone, al loro stesso livello. Adesso invece tutto si confonde e ogni giorno si rinnova la sorpresa. E ha il volto di Anna. Ora, in entrambi, si è fatto strada un sentimento, qualcosa a cui Luciano aveva rinunciato da tempo. Ma quella giovane donna ha un segreto. Ad interpretare i protagonisti ci sono due bravi attori come Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli, che vestono alla perfezione i panni di questi due innamorati.
L'ombra del giorno (Italia 2022)
Regia: Giuseppe Piccioni
Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella, Annick Emdin
Cast: Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli, Waël Sersoub
Distributore: 01 Distribution