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- Scritto da Mario Lombardo
Sono tornate in queste ore a circolare in maniera insistente le voci di un possibile imminente accordo per un cessate il fuoco a Gaza. La partenza per Doha del numero uno del Mossad, David Barnea, ha rafforzato le speranze di molti per la fine del genocidio palestinese in tempi brevi. Nella capitale del Qatar è presente anche l’inviato di Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff, mentre l’amministrazione democratica americana uscente è tornata a chiedere pubblicamente al regime di Netanyahu di favorire l’implementazione di una tregua. È possibile quindi che si stia preparando una sospensione della strage nella striscia in concomitanza con l’insediamento del nuovo presidente repubblicano, ma tutti i segnali indicano che lo stop all’aggressione potrebbe essere solo temporanea, se non addirittura una trappola per Hamas.
Come nei mesi scorsi, quando una tregua sembrava essere a portata di mano, gli ostacoli erano e restano numerosi e di difficile soluzione. Un esponente di primo piano del movimento di resistenza palestinese ha spiegato alla testata libanese Al Mayadeen che Israele insiste nel chiedere “condizioni impossibili” per finalizzare l’accordo. Una di queste è la permanenza di militari israeliani sul territorio di Gaza, tra cui nei corridoi strategicamente cruciali di Philadelphia e Netzarim.
Più in generale, teme correttamente Hamas, Tel Aviv vuole tenere aperta la possibilità di riprendere l’aggressione e il genocidio dopo la prima fase del cessate il fuoco, ovvero dopo la liberazione degli “ostaggi” israeliani. Hamas insiste al contrario per una tregua permanente e, probabilmente per raggiungere questo obiettivo, ha fatto concessioni inaspettate alla delegazione israeliana durante i negoziati, ad esempio sulla questione del numero e dell’identità dei detenuti da liberare già nella prima fase dell’accordo.
Non è chiaro, nel caso dovesse alla fine andare in porto un’intesa, quali garanzie Hamas potrebbe ritenere sufficienti a questo scopo e molto dipenderà anche dalle reali condizioni in cui versa l’organizzazione islamista dopo oltre un anno di guerra. Un recente articolo del quotidiano israeliano Haaretz ha fatto capire quali sono i pericoli per il movimento che governa la striscia. Nel concreto, cioè, Israele non si impegnerebbe ad astenersi dall’attaccare nuovamente Gaza nemmeno al termine di una potenziale seconda fase della tregua. Al tavolo delle trattative potrebbe esserci quindi un tentativo di offrire come garanzia non l’impegno israeliano a non riprendere il genocidio, bensì solo quello degli Stati Uniti a “lavorare con Israele per la fine della guerra”.
Se così fosse, l’eventuale accordo si baserebbe di fatto sulla più o meno vaga promessa americana di fare pressioni su Netanyahu per concludere definitivamente le operazioni militari, senza appunto un impegno esplicito di Tel Aviv. Quanto possa valere una rassicurazione americana di questo genere non è difficile intuirlo se si pensa all’appoggio totale dato al regime sionista in quindici mesi di massacri a Gaza. La situazione potrebbe poi oltretutto peggiorare per Hamas con il ritorno alla Casa Bianca di Trump dal prossimo 20 gennaio.
Anche se stanno mediando i negoziati in corso, gli Stati Uniti sono tutt’altro che imparziali e il rischio concreto è che il possibile accordo si risolva solo in una tregua temporanea che consenta la liberazione di tutti gli “ostaggi” detenuti ancora da Hamas, in modo che poi l’aggressione militare nella striscia possa riprendere. Questa opzione spiegherebbe anche l’accettazione da parte di Netanyahu di un accordo con Hamas che i suoi partner di governo dell’ultra-destra continuano a definire come una “catastrofe”.
In questi precisi termini si è espresso il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ma se l’accordo fosse una trappola per Hamas le sue parole potrebbero anche non portare a un’uscita dal governo del suo partito, come aveva sempre minacciato negli ultimi mesi. All’opposizione, tuttavia, Benny Gantz ha dato pieno appoggio all’accordo per consentire il ritorno dei detenuti di Hamas. Gantz aveva fatto parte a lungo del governo di emergenza seguito ai fatti del 7 ottobre 2023 e potrebbe forse agire da stampella per il governo guidato dal Likud in caso di diserzione dell’estrema destra a causa della tregua.
La stampa USA ha comunque scritto lunedì che Israele ha concordato con i mediatori americani, egiziani e del Qatar una bozza definitiva dell’accordo e attende ora la risposta di Hamas, in particolare del numero uno del braccio armato del movimento, Mohammed Sinwar, fratello del leader assassinato lo scorso ottobre da Israele, Yahya Sinwar. I vertici militari delle forze di occupazione avrebbero da parte loro già pronti i piani per un rapido ritiro da Gaza, incluso dal corridoio di Netzarim che divide in due la striscia.
Queste notizie e gli entusiasmi veicolati dalla stampa ufficiale vanno presi con cautela. Già più volte nel recente passato si era parlato di possibili tregue imminenti, poi finite nel nulla. In tutti i casi, l’accento da parte di Israele e dei suoi alleati è sempre e solo sull’imperativo di liberare gli “ostaggi” in mano a Hamas. Il genocidio palestinese in corso nel sostanziale silenzio dell’Occidente continua a essere invece tutt’al più un dettaglio secondario, così che una volta completate le prime fasi della tregua, la strage potrebbe facilmente riprendere.
D’altra parte, come già anticipato, l’amministrazione americana entrante sarà ancora di più allineata alle posizioni israeliane e non è da escludere che Trump possa finire per approvare anche formalmente la pulizia etnica e la rioccupazione della striscia. Ciò che si annuncia a breve da Washington lo ha chiarito nel fine settimana il vice-presidente eletto, J. D. Vance. In un’intervista, l’ex senatore dell’Ohio ha ripreso le raccapriccianti dichiarazioni di qualche giorno di prima di Trump per minacciare la distruzione totale di Hamas se non verranno rilasciati gli “ostaggi”.
Vance ha prospettato ancora maggiore supporto militare al regime sionista e sanzioni “molto aggressive” contro chiunque sostenga “organizzazioni terroristiche” in Medio Oriente, per poi attaccare indirettamente l’amministrazione uscente, in tutto e per tutto complice del genocidio, ma colpevole invece a suo dire di non avere fatto abbastanza per sostenere militarmente le operazioni di Israele.
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- Scritto da Mario Lombardo
La vicenda della legge sulle “interferenze straniere” appena approvata in via definitiva dal parlamento della Georgia è un esempio perfetto della doppiezza e della monumentale ipocrisia che caratterizza la politica estera di Europa e Stati Uniti. Il provvedimento è oggetto di feroci critiche e condanne, nonché di una campagna di disinformazione che punta a descrivere come ultra-repressiva e anti-democratica una legge legittima, per molti versi necessaria e, soprattutto, già parte della legislazione di alcuni paesi occidentali e in fase di seria discussione in altri.
La legge è passata in terza e ultima lettura martedì con il voto favorevole di 84 deputati e 30 contrari. Un testo pressoché identico era stato proposto un anno fa, ma la maggioranza del partito “Sogno Georgiano” l’aveva poi ritirato in seguito alle pressioni internazionali e all’esplodere di proteste popolari sempre più aggressive. Le stesse manifestazioni contro la legge erano subito scattate anche alla metà di aprile, quando il governo aveva reintrodotto il provvedimento con alcuni cambiamenti cosmetici. In sostanza, l’unica differenza di rilievo era il cambiamento della definizione dei soggetti contro cui la legge è indirizzata: da “agenti di influenza straniera” a “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”.
Secondo il testo, ONG, media e sindacati che ricevono più del 20% dei loro introiti dall’estero sono tenuti appunto a registrarsi come “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”, così da potere essere monitorati dal ministero della Giustizia georgiano. Questo paese caucasico ospita un numero insolitamente alto di ONG e altre organizzazioni che operano in vari ambiti della “società civile”. La gran parte di esse viene finanziata dall’estero, spesso tramite soggetti collegati direttamente o indirettamente al governo americano o all’Unione Europea.
La legge è stata fin dall’inizio bollata da Washington e Bruxelles come una sorta di regalo alla Russia di Putin e, anzi, a una normativa simile già implementata da Mosca viene continuamente accostata. Più correttamente, la legge si ispira al “Foreign Agents Registration Act” (“FARA”) americano degli anni Trenta del secolo scorso. Rispetto a quest’ultima, quella georgiana risulta oltretutto più morbida. Ad esempio, negli Stati Uniti è prevista l’incriminazione per i soggetti che non provvedono a registrarsi come agenti stranieri, mentre in Georgia si rischierà solo una sanzione fino ad un massimo di 9.500 dollari.
Tutto questo viene naturalmente ignorato da governi, media e ONG occidentali quando discutono della legge georgiana, che resta invariabilmente “la legge di Putin”. Incredibilmente, in questi giorni l’assistente al segretario di Stato USA, Jim O’Brien, visitando la Georgia, ha spiegato che questo paese rischia di vedere compromessi gli sforzi per accedere all’UE e alla NATO, poiché la legge appena approvata determina un allontanamento dagli “standard [democratici]” richiesti da questi organismi. In altre parole, la Georgia rischia di trovarsi la strada sbarrata in Occidente perché ha appena introdotto nel proprio ordinamento una legge per limitare le attività di destabilizzazione favorite dall’estero di fatto identica, anche se meno restrittiva, di quella in vigore da quasi un secolo negli Stati Uniti.
Anche in sede europea si discute delle conseguenze sui rapporti con Tbilisi che la legge potrebbe avere. I ministri degli Esteri di una dozzina di paesi già nei giorni scorsi avevano emesso un comunicato ufficiale per chiedere alle autorità UE di valutare “l’impatto del provvedimento sul processo di adesione”. Una risposta congiunta dei 27 membri non sembra essere invece in agenda, visto che alcuni governi, come quelli di Ungheria e Slovacchia, ritengono di non dover interferire nelle vicende interne di un paese terzo.
Le espressioni di condanna dei burocrati europei sono accompagnate rigorosamente dalle solite prediche sul rispetto dei principi democratici e del diritto, tutti messi in serissimo pericolo, a loro dire, dalla legge georgiana. La stessa Commissione Europea sta però discutendo essa stessa l’opportunità di introdurre nel prossimo futuro un provvedimento sulla linea di quello oggetto di contestazioni in Georgia, oltre che già in vigore negli Stati Uniti. La proposta, scaturita dallo scandalo “Qatargate”, punta a creare un database dei lobbisti stranieri per limitare o neutralizzare le “influenze maligne” estere.
Il dibattito pubblico sulla proposta aveva sollevato qualche voce critica, non solo tra le stesse ONG che rischiano di essere costrette a rendere pubbliche le loro fonti di introito, ma anche da quanti avvertivano che una legge simile farebbe cadere la maschera della finta democrazia europea. In primo luogo, l’UE non avrebbe più, nemmeno formalmente, l’autorità morale per denunciare iniziative come quella georgiana visto che ritiene necessaria anche per sé stessa una legge simile. Inoltre, il provvedimento allo studio finirebbe per penalizzare una pratica comune alle istituzioni europee, ovvero l’elargizione di finanziamenti a organizzazioni della “società civile” operanti in paesi stranieri.
Dopo l’approvazione definitiva di martedì, la legge georgiana dovrà essere ratificata dalla presidente filo-occidentale Salomé Zourabichvili, la quale ha già dichiarato che intende utilizzare il potere di veto. La maggioranza che sostiene il governo del primo ministro, Irakli Kobakhidze, potrà però annullarlo e consentire alla legge di entrare in vigore definitivamente. L’incognita che rimane è rappresentata dalla possibile prosecuzione delle proteste dell’opposizione, cioè se i sostenitori occidentali dei manifestanti sceglieranno di continuare a destabilizzare la Georgia cercando di forzare un cambio di regime, a rischio di gettare il paese nel caos.
La determinazione con cui il governo sta portando a termine l’iter legislativo del provvedimento sulle interferenze straniere, così come l’insistenza della propaganda europea e americana per affondare una legge interamente legittima, rivela l’importanza della posta in gioco a Tbilisi. Lo scontro in atto si collega infatti al conflitto tra Russia e Ucraina o, più, precisamente, tra Russia e USA/UE/NATO. In questo scenario, la Georgia si è ritrovata in una posizione sempre più precaria. Da un lato è sottoposta alle pressioni occidentali per partecipare in pieno alla campagna anti-russa, mentre dall’altro deve procedere con estrema cautela per evitare il coinvolgimento diretto in una guerra che avrebbe effetti devastanti.
Il governo del partito “Sogno Georgiano”, al netto delle falsificazioni occidentali, non è in nessun modo filo-russo, tanto che aveva subito condannato l’invasione dell’Ucraina e fornito aiuti umanitari a Kiev. Da tempo cerca poi di costruire un percorso per entrare nell’UE e, sia pure in modo più prudente, nella NATO. Lo scorso dicembre, da Bruxelles era arrivato anche il via libera al riconoscimento dello status di candidato ufficiale all’ingresso nell’Unione Europea.
Allo stesso tempo, il governo georgiano è perfettamente consapevole dell’importanza di evitare che le relazioni con la Russia precipitino, visto anche il ricordo molto vivido della disastrosa guerra in Abkhazia e Ossezia del sud nel 2008. La Russia è chiaramente una presenza fondamentale e inevitabile, dal punto di vista geografico, economico e militare, così che Tbilisi non ha alcun interesse a percorrere la strada suicida dell’Ucraina o, in prospettiva, della Moldavia per assecondare le mire strategiche occidentali. Realismo e pragmatismo sono quindi i principi a cui si ispira il partito di governo fin dall’approdo al potere per la prima volta dodici anni fa sotto la guida dell’imprenditore miliardario con interessi in Russia, Bidzina Ivanishvili.
Alla luce di questi orientamenti, non sorprende che governi e servizi di intelligence occidentali abbiano intensificato le manovre per fare pressioni sul governo di Tbilisi, principalmente fomentando proteste di piazza talvolta violente per far naufragare una legge che andrebbe a colpire o, quanto meno, a smascherare le loro stesse manovre destabilizzanti. Se anche le tensioni dovessero abbassarsi dopo l’approvazione della legge sulle ingerenze straniere, è probabile che la campagna contro il governo riprenderà nei prossimi mesi in vista delle elezioni legislative in programma a ottobre.
Tornando alla posizione della Georgia, va ricordato che questo paese impoverito negli ultimi due anni ha beneficiato notevolmente dell’aumento dei traffici commerciali con la Russia, dovuto alla chiusura, per via delle sanzioni americane ed europee, delle rotte che passavano dall’Occidente. Non si stratta solo di un’attitudine opportunistica, quella georgiana, ma di un calibramento strategico volto a massimizzare i vantaggi di una politica estera aperta. Tanto che la Georgia ha accompagnato la candidatura all’ingresso nell’UE alla formalizzazione di una partnership strategica con la Cina.
A fronte di ciò, i crociati della democrazia in Occidente chiedono invece alla Georgia di salire sul carro delle sanzioni contro la Russia, favorendo un autentico suicidio economico esattamente come sta facendo l’Europa, e di andare allo scontro totale con Mosca, sposando la fallimentare causa ucraina e mettendo a serio rischio la propria sicurezza interna. Con queste premesse, non è difficile comprendere le ragioni per cui il governo di Tbilisi diffidi dell’Occidente e intenda andare fino in fondo per tenere sotto controllo le manovre di destabilizzazione organizzate dall’estero.
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- Scritto da Sara Michelucci
Esordio alla regia per Micaela Ramazzotti, con il film Felicità, di cui è anche la protagonista, che sarà presentato in concorso nella sezione Orizzonti Extra alla 80ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.
La storia è quella di una famiglia storta, di genitori egoisti e manipolatori, un mostro a due teste che divora ogni speranza di libertà dei propri figli. Desirè è la sola che può salvare suo fratello Claudio e continuerà a lottare contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, per inseguire un po’ di felicità.
Una sorella che tenta in tutti i modi di far uscire dalla depressione il fratello, vittima dei suoi stessi genitori, troppo debole per riuscire a salvarsi da solo. Un film sulla famiglia e sulla costante lotta per riuscire a distruggere legami sbagliati e che fanno stare male.
Con Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Micaela Ramazzotti e con la partecipazione di Sergio Rubini, il film è prodotto da Lotus Production con Rai Cinema e sarà distribuito da 01 Distribution.
"Sono onorata e orgogliosa che proprio la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia sia la prima a voler bene a Felicità - dichiara la regista - . Cosa di cui tutti noi abbiamo bisogno".
Il film arriverà nella sale italiane il 21 settembre.
Felicità (Italia, 2023)
Regia: Micaela Ramazzotti
Attori: Micaela Ramazzotti, Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Sergio Rubini
Distribuzione: 01 Distribution
Sceneggiatura: Micaela Ramazzotti, Isabella Cecchi, Alessandra Guidi
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Jacopo Quadri
Produzione: Lotus Production con Rai Cinema
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- Scritto da Sara Michelucci
Presentato in anteprima mondiale al Sundance Festival 2023 e vincitore del Gran Premio della Giuria per miglior film drammatico, A Thousand and one, primo film dietro la macchina da presa, della sceneggiatrice A.V. Rockwell, narra la storia di Inez (Teyana Taylor), una donna determinata e impetuosa, la quale rapisce il figlio Terry, di sei anni, dal sistema di affidamento nazionale. Aggrappandosi uno all’altro, madre e figlio cercano di ritrovare il senso di casa, di identità e di stabilità in una New York in rapido cambiamento.
Siamo di fronte ad un dramma familiare contemporaneo, che racconta le difficoltà di una donna sola e certamente non benestante, in una città difficile come NY. Terry sogna di poter stare con sua madre e lega subito con Lucky (Aaron Kingsley Adetola), il compagno di Inez. Quando diventa adolescente, Terry (Aven Courtney) si rivela essere un ragazzo intelligente e studioso e così sua madre sogna per lui un futuro migliore del suo, lontano dalla strada, ma ciò che ha segnato all’origine la loro difficile storia familiare sta per tornare a galla.
Un film sicuramente interessante sia dal lato della sceneggiatura, che della regia, che ha nel realismo di cui è intriso quella giusta carica che serve a sondare e comprendere la vita dei suoi protagonisti.
A Thousand and one (Usa 2023)
Regia: A.V. Rockwell
Cast: Teyana Taylor, William Catlett, Josiah Cross, Aven Courtney, Aaron Kingsley Adetola, Terri Abney, Delissa Reynolds, Amelia Workman, Adriane Lenox
Sceneggiatura: A.V. Rockwell
Fotografia: Eric Yue
Montaggio: Sabine Hoffman, Kristan Sprague
Distribuzione: Lucky Red e Universal Pictures International Italy
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- Scritto da Sara Michelucci
Firmato da Giuseppe Piccioni, L'ombra del giorno racconta una storia d'amore in un periodo storico difficile. Siamo nel 1938. È un giorno qualunque, in una città di provincia come tante altre in Italia (Ascoli Piceno). I tavoli sono apparecchiati e Luciano ha appena aperto il suo ristorante. Dalla vetrina vede un corteo ordinato di bimbi di una scuola elementare, accompagnati da una maestra. Camminano disciplinati sul marciapiede al sole, in fila per due, con i loro grembiuli infiocchettati e i capelli pettinati con cura. Luciano è tentato di credere a quell’immagine di serenità, di fiducia nel futuro. Ha un’andatura claudicante a causa di una ferita della prima guerra mondiale, un ricordo permanente della ferocia di quel conflitto.
Dietro le ampie vetrine che danno sull’antica piazza scorre la vita di quella piccola città in quegli anni. Sono gli anni del consenso, delle operepubbliche, e delle nuove città. Luciano è un fascista, come la maggior parte degli italiani in quel periodo, ma lo è a modo suo; ha preferito rimanere in disparte e si è tenuto lontano dall’idea di trarre vantaggio dalle sue decorazioni di guerra e dalla militanza ottusa e obbediente nelle gerarchie del partito.
Però si sente partecipe di quel generale entusiasmo, nonostante per indole tenda a occuparsi solo dei fatti propri, perché “il lavoro è lavoro”: quello che gli sta a cuore è il suo ristorante e i compiti quotidiani a cui lui si dedica con scrupolo taciturno. Finché fuori dalla vetrina, appare una ragazza. Mi chiamo Anna Costanzi, gli dice, e timidamente chiede se cercano personale. Di lì a poco l’avvento di quella ragazza e le prime evidenti crepe che si evidenziano in quel mondo che guarda dalla vetrina cambieranno la vita di Luciano.
Com’è strana la vita, pensa Luciano. Un tempo, del suo lavoro, gli piaceva proprio essereaffacciato sulla strada, guardare la gente che passeggiava, che correva in fretta al lavoro, gli dava l’illusione di essere insieme a quelle persone, al loro stesso livello. Adesso invece tutto si confonde e ogni giorno si rinnova la sorpresa. E ha il volto di Anna. Ora, in entrambi, si è fatto strada un sentimento, qualcosa a cui Luciano aveva rinunciato da tempo. Ma quella giovane donna ha un segreto. Ad interpretare i protagonisti ci sono due bravi attori come Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli, che vestono alla perfezione i panni di questi due innamorati.
L'ombra del giorno (Italia 2022)
Regia: Giuseppe Piccioni
Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella, Annick Emdin
Cast: Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli, Waël Sersoub
Distributore: 01 Distribution