A sentire le trombe della propaganda europea, pare che la guerra in Ucraina sia appesa solo alla disponibilità di Putin di aderire o no alla richiesta di cessate il fuoco proposta da Trump e Zelensky, il primo per togliersi di mezzo il secondo e le sue questue, il secondo per ordine del primo senza cui il suo regime durerebbe forse 15 giorni.

Trump naturalmente vuole arrivare ad un punto dove la precedente amministrazione si è ben guardata dall’avventurarsi e gli interessa anche solo far finta di confermare quanto detto prima della sua elezione circa la sua capacità di fermare la guerra rapidamente. Putin, com’è ovvio prima che giusto, nel premettere che la Russia non è contraria a far tacere le armi, ha sostanzialmente chiesto di precisare meglio in cosa consisterebbe ed a cosa servirebbe questa tregua, trattandosi di una paginetta di buone intenzioni priva di qualunque proposta operativa.

Per la tregua sarebbe bene specificare di che durata e chi e cosa coinvolge: belligeranti o anche alleati? Operazioni militari o anche riorganizzazione dei reparti? Invio di armi? E, in aggiunta: chi dovrebbe vegliare sul mantenimento effettivo della tregua? I duemila chilometri di frontiera comune da chi sarebbero sorvegliati? Con quale mandato? E quali entità statuali, quali figure istituzionali siglerebbero la tregua?

L’amministrazione Trump ha dato il via a una nuova escalation nella guerra commerciale globale, implementando dazi del 25% sulle importazioni di acciaio e alluminio che graveranno non solo sui tradizionali rivali economici, ma anche su storici alleati come l’Unione Europea, il Giappone, la Corea del Sud e l’Australia. La posta in gioco è enorme: nel 2023, gli scambi commerciali soltanto tra USA e UE hanno raggiunto un valore complessivo di 1.600 miliardi di euro, con un surplus commerciale europeo pari a 155,8 miliardi di euro per le merci, bilanciato solo parzialmente da un deficit di 104 miliardi nel settore dei servizi. Questo confronto, tutt’altro che circoscritto, rischia di destabilizzare ulteriormente l’economia e gli equilibri geopolitici globali.

I colloqui di martedì in Arabia Saudita tra Stati Uniti e Ucraina sono solo una delle primissime mosse di quello che si annuncia come un complicatissimo processo diplomatico per cercare di mettere fine alla guerra in corso con la Russia. Molti commentatori indipendenti hanno legittimamente espresso delusione per l’esito del summit con la proposta, da sottoporre a Mosca, di un cessate il fuoco generale di un mese. È molto probabile infatti che il Cremlino respinga l’offerta, visto che ha chiarito in più occasioni il proprio interesse non in un congelamento delle ostilità ma in un accordo di ampio respiro che elimini alla radice le ragioni della crisi. Un’evoluzione di questo genere non prospetterebbe nulla di buono sul fronte ucraino, ma è consigliabile quanto meno attendere la risposta ufficiale del governo russo alla proposta ucraino-americana e, ancora di più, i colloqui che seguiranno a breve tra esponenti del governo di Washington e quello di Mosca, inclusi molto probabilmente i presidenti Trump e Putin.

Alcuni mandati internazionali di arresto sono apparentemente più pesanti ed efficaci di altri e a sperimentarlo in prima persona è stato l’ex presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, preso in custodia martedì mattina all’aeroporto di Manila dalle autorità di polizia del suo paese in seguito a un ordine emesso dalla Corte Penale Internazionale (CPI). Ci sono pochi dubbi che il 79enne ex sindaco della città di Davao abbia gravi responsabilità nei fatti contestati dal tribunale de L’Aia, da collegare alla guerra scatenata contro il traffico di droga durante il suo mandato alla guida del paese del sud-est asiatico. La rapidità con cui l’attuale governo, guidato dal presidente Ferdinand Marcos jr., ha eseguito l’arresto è dovuta però in primo luogo al feroce conflitto interno alla classe politica indigena, conseguenza a sua volta dello scontro in atto sulla direzione da dare alla politica estera filippina nel pieno della competizione tra Cina e Stati Uniti.

Tra le iniziative che la nuova amministrazione repubblicana aveva promesso per ripulire l’apparato di potere burocratico dentro il governo americano, altrimenti noto come “Deep State”, c’era e sembra esserci ancora l’impegno a rendere pubblici tutti i documenti ancora riservati del caso Jeffrey Epstein. Il primo tentativo, annunciato dal ministro della Giustizia (“Attorney General”), Pam Bondi, si è risolto però nei giorni scorsi in un completo fallimento. Il materiale pubblicato non ha aggiunto nulla di nuovo a quanto già si sapeva sui contatti ad altissimo livello del defunto finanziere di New York. Da allora, ci sono stati ulteriori sviluppi che, secondo il dipartimento di Giustizia, dovrebbero finalmente avvicinare la rivelazione dei “segreti” di Epstein.


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