Nel quadro delle strategie di sovversione e destabilizzazione per efficientare ulteriormente il suo egemonismo, da decenni Washington utilizza sistematicamente le sanzioni, sia generali che mirate, destinate a colpire i paesi che non cedono la loro sovranità e le loro risorse agli USA. Questi vengono definiti paesi ostili, con la fabbricazione ad hoc di accuse mai esibite o palesemente false; dal Nicaragua a Cuba, dall’Iraq alla Siria, dall’Iran alla Russia, la storia abbonda di esempi.

Dalla caduta del campo socialista, che diede inizio alla globalizzazione, l’utilizzo delle sanzioni è aumentato esponenzialmente, arrivando al 121% rispetto a quante in vigore nel mondo bipolare. Oggi colpiscono 9765 persone con provvedimenti selezionati, 17 Paesi con provvedimenti mirati e 6 con misure generali; un totale di 23 paesi, circa il 72% della popolazione, oltre il 30% del PIL del pianeta.

Si narra che sarebbero una alternativa alla guerra, quando è ormai dimostrato che, in molti casi, ne sono solo il preludio. Nelle guerre di Quarta e Quinta generazione, le sanzioni sono, al pari della comunicazione e della diplomazia, uno strumento di affiancamento alle operazioni militari e la gerarchia di utilizzo di questi ambiti non è rigida, bensì soggetta alle condizioni sul campo.

Dopo il disperato intervento di mercoledì all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il presidente ucraino Zelensky si è messo in strada verso Washington per completare il suo tour americano che lo vede impegnato a mendicare altro denaro e armi a un Occidente sempre più sfiduciato per l’andamento del conflitto con la Russia. L’accoglienza riservata negli Stati Uniti all’ex comico non è stata però quella sperata. Al di là delle manifestazioni esteriori di sostegno per il suo regime, i segnali del possibile ingolfamento del flusso di aiuti sono molteplici, soprattutto alla luce dello scontro sul bilancio federale americano in corso al Congresso. Il New York Times, inoltre, ha recapitato a Zelensky un messaggio difficile da fraintendere in contemporanea al suo sbarco sul suolo americano, rivelando i risultati di un’indagine su una recente strage di civili nel Donbass finora attribuita erroneamente alle forze armate russe.

La crisi politica in Niger, seguita al colpo di stato di fine luglio, si sta evolvendo nelle ultime settimane verso la creazione di un nuovo equilibrio che sembra penalizzare soprattutto la Francia e le ambizioni neo-coloniali africane del presidente Macron. Gli sviluppi più recenti della vicenda riguardano le iniziative americane per conservare presenza e influenza nel paese del Sahel, messe in atto al preciso scopo di trarre il maggiore vantaggio possibile dalle difficoltà francesi e dall’avversione dilagante nei confronti dell’ex potenza coloniale.

Il processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita sembra avere subito una nuova battuta d’arresto con la recente presa di posizione contraria da parte della monarchia del Golfo Persico, comunicata in via ufficiale al governo degli Stati Uniti. La notizia non ha per ora trovato conferme, ma le resistenze manifestate da Riyadh al ristabilimento formale di relazioni diplomatiche con lo stato ebraico, soprattutto dopo la distensione promossa con la Repubblica Islamica, avevano fatto da qualche tempo intravedere un epilogo poco incoraggiante per Washington e Tel Aviv.

Qualche giorno fa, il giornale on-line di proprietà saudita Elaph ha scritto che l’Arabia Saudita “ha informato l’amministrazione Biden [dell’intenzione] di interrompere ogni discussione relativa alla normalizzazione con Israele”. Anche se smentita prevedibilmente dai governi americano e israeliano, la notizia è quanto meno sintomatica dei malumori sauditi. I negoziati tra i due paesi fanno parte del progetto, lanciato inizialmente dall’ex presidente Trump, che, attraverso i cosiddetti Accordi di Abramo, dovrebbe portare all’istituzione di normali rapporti diplomatici tra Israele e alcuni paesi arabi.

Dal vertice BRICS a Johannesburg, passando per il G20 a Nuova Dheli e terminando con il G77+Cina a L'Avana, il termine "de-dollarizzazione" è entrato ormai nel lessico abituale della politica, soprattutto quando il Sud globale prende la parola. De-dollarizzazione, dunque. Ovvero, riduzione progressiva dell’utilizzo del Dollaro statunitense negli scambi internazionali e nei depositi di riserve strategiche degli stati. Conseguenze? Riduzione dell’influenza degli Stati Uniti nella gestione dell’economia internazionale. La sola ipotesi genera di per sé un cambio epocale negli equilibri economici internazionali. Si parla non a caso di dittatura del Dollaro, proprio per sottolineare l’influenza assoluta dell’utilizzo della Divisa statunitense sull’economia globale. La sua diffusione e le regole per il suo utilizzo, fissate unilateralmente dell’emittente, determinano una pesante ipoteca degli USA sui mercati internazionali, perché attraverso il potere decisionale sull’utilizzo del Dollaro gli USA decidono quali paesi, quando, dove e in quali prodotti possono commerciare, scambiare, investire.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy