Il cessate il fuoco entrato in vigore in Libano il 27 novembre scorso è stato utilizzato da subito da Israele per raggiungere alcuni obiettivi che non era stato possibile conseguire grazie alla resistenza di Hezbollah durante la fase più calda del conflitto nelle settimane precedenti. A confermarlo sono le centinaia o forse migliaia di violazioni della tregua registrate in questi 60 giorni e il rifiuto di evacuare le forze armate sioniste dal territorio libanese entro la scadenza stabilita dai termini dell’accordo. A presiedere e favorire le ennesime azioni illegali di Israele sono ancora una volta gli Stati Uniti, assieme all’altro “garante” del cessate il fuoco, la Francia, e di fatto anche al nuovo governo di Beirut.

La giustificazione citata da Tel Aviv per restare nel sud del Libano è la mancata implementazione dei termini della tregua da parte del vicino settentrionale. Ovvero che l’esercito libanese non avrebbe ancora preso possesso di tutta l’area a sud del fiume Leonte (Litani), sgomberando le forze di Hezbollah e le loro armi. Netanyahu ha così chiesto a Washington di prorogare i tempi del ritiro dal Libano, cosa che l’amministrazione Trump ha concesso, annunciando lunedì un’estensione fino al 18 febbraio prossimo.

Molte delle dichiarazioni pubbliche più provocatorie del neo-presidente americano Trump vengono commentate con un certo disinteresse dagli osservatori e dalla stampa “mainstream” perché giudicate come l’espressione di una personalità impulsiva o, tutt’al più, soltanto parte di strategie negoziali. Se ciò è talvolta indiscutibile, in altre circostanze le uscite di Trump rivelano piuttosto l’allineamento in corso o già ultimato tra la retorica ufficiale e le politiche effettivamente implementate o in fase di elaborazione dall’apparato di potere americano. Così sembra essere anche per le recenti affermazioni sul futuro della striscia di Gaza, pronunciate nel fine settimana a bordo dell’aereo presidenziale e che rappresentano l’adozione formale della pulizia etnica come politica del governo degli Stati Uniti.

Ormai, in attesa di capire quanto di quello che dice sarà in grado di fare, Trump ha edotto il mondo intero circa la sua modalità di comunicazione. Ogni frase inizia con una promessa e finisce con una minaccia. Tra le due locuzioni non c’è null’altro che non sia una verbosità sguaiata e cafona che di per sé rappresenta bene la cifra del personaggio. Nell’occasione del Foro di Davos, evento annuale dove i big della politica incontrano quelli dell’economia per ribadirgli la loro genuflessione finanziaria ed ideologica, l’intervento video del neopresidente USA ha avuto come bersagli i paesi del Golfo Persico e l’Europa.

Con il ritorno ufficiale di Trump alla Casa Bianca, la questione della possibile soluzione diplomatica della guerra in Ucraina inizia ad assumere un qualche contorno più definito, in attesa della prima mossa da parte della nuova amministrazione repubblicana che segni in maniera definitiva il cambiamento di rotta rispetto a quella uscente di Joe Biden. Anche se al momento gli elementi concreti sono praticamente inesistenti, le indicazioni che arrivano da Washington fanno intravedere, nella migliore delle ipotesi, un processo molto complicato. Trump e i suoi consiglieri sembrano infatti partire ancora da presupposti sganciati quasi del tutto dalla realtà dei fatti. Senza il riconoscimento e l’accettazione di quanto sta accadendo in Ucraina, qualsiasi eventuale negoziato con Mosca rischia di arenarsi precocemente, prorogando la crisi in maniera pericolosa.

Nel terzo giorno della tregua a Gaza, la fragile pace dopo oltre quindici mesi di orrore sembra resistere nonostante le forze di occupazione israeliane abbiano iniziato una nuova operazione repressiva contro la resistenza palestinese in Cisgiordania. In questa prima fase dell’accordo sottoscritto a Doha tra Netanyahu e Hamas, si stanno accendendo le discussioni sui motivi che hanno convinto Tel Aviv a fermare il genocidio e le due amministrazioni americane a fare pressioni in maniera decisiva sul regime sionista per accettare i termini del cessate il fuoco. Le dinamiche degli ultimi mesi in Medio Oriente, a loro volta modellate dagli eventi del 7 ottobre 2023 e dalla successiva reazione israeliana, sono evidentemente un fattore, ma il cambiamento del clima nella regione in apparenza favorevole allo stato ebraico è solo una parte della storia, visto che, di fatto, nessuno degli obiettivi fissati da Netanyahu all’inizio della brutale aggressione nella striscia è stato raggiunto al momento della firma dell’accordo con Hamas.


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