La conferenza annuale dei conservatori americani (“Conservative Political Action Conference” o CPAC) è stata nel fine settimana il primo appuntamento politico di rilievo per tastare il terreno in casa repubblicana a meno di un anno dall’inizio delle primarie per le presidenziali del 2024. L’ex presidente Donald Trump è per il momento il favorito quasi indiscusso e il suo discorso alla chiusura dell’evento tenuto nel Maryland ha confermato in larga misura la strategia vincente già impiegata nel 2016. Populismo e anti-comunismo restano gli elementi centrali di una campagna elettorale che trae beneficio in primo luogo dalle politiche anti-sociali e guerrafondaie dell’amministrazione democratica di Joe Biden.

L’imposizione praticamente indiscriminata di sanzioni è ormai il tratto distintivo della strategia degli Stati Uniti per colpire i paesi rivali e cercare di arrestare il proprio declino internazionale. Dopo il sostanziale fallimento dell’offensiva contro la Russia, Washington si prepara ora a colpire con questa arma anche la Cina, cercando di ottenere appoggio tra gli alleati più fedeli. A riportare la notizia è stata questa settimana l’agenzia di stampa Reuters con un tempismo pressoché perfetto per farla coincidere con il rilancio delle tesi cospirazioniste sull’origine del COVID-19 e la nuova escalation delle tensioni attorno all’isola di Taiwan.

“Consultazioni” sarebbero appunto iniziate con i partner del G-7 per concordare una serie di misure economiche punitive contro Pechino. L’iniziativa si collega direttamente alla recente presentazione da parte della Cina di una proposta di negoziato per risolvere diplomaticamente la guerra in Ucraina. Il documento in dodici punti redatto dal governo cinese è stato di fatto respinto da Stati Uniti e NATO perché troppo sbilanciato a favore della Russia. Scrupolo assoluto dell’amministrazione Biden è di impedire che il “mostro” cinese possa essere protagonista di un’iniziativa di pace in Ucraina, assecondando il desiderio anche dell’opinione pubblica occidentale.

L’Unione Europea e il Regno Unito hanno finalmente raggiunto un accordo per risolvere la complicata questione del “protocollo nordirlandese” a tre anni di distanza dall’entrata in vigore della Brexit. Il primo ministro britannico, Rishi Sunak, ha ostentato toni quasi trionfali nel darne la notizia dopo il vertice di lunedì a Windsor con la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Le probabilità che il documento venga ratificato dal parlamento di Londra appaiono in effetti buone, ma il parere decisivo sarà quello degli unionisti nordirlandesi, i cui leader si sono mostrati per il momento solo cautamente ottimisti.

Con sospetta fretta è stato respinto e già archiviato il piano cinese per il raggiungimento del “cessate il fuoco” in Ucraina. Ci hanno pensato gli Stati Uniti a porre il veto, come già fatto con i tentativi turchi, vaticani e israeliani, ricordando a tutti chi è che impedisce la fine della guerra. Nel frattempo lo scenario vede le macerie e i cadaveri in Ucraina, le tombe dei soldati in Russia, gli effetti collaterali nel clima e nell’economia, l’emergenza umanitaria, la crisi nelle relazioni internazionali, lo scollamento tra i cittadini che nei sondaggi manifestano avversione contro l’invio delle armi e i governi che invece le armi continuano a inviarle, il rischio nucleare.

Il quadro generale, dopo trecentosessantacinque giorni di guerra, è impietoso. Questo quadro, però, è prigioniero di uno schema che fin dall’inizio i governi hanno elaborato e i mass e social media hanno diffuso, con rare eccezioni: ci sono l’aggredito e l’aggressore. Uno schema semplice nell’era della semplificazione, politicamente corretto e dunque non criticabile. Chi, in quest’anno, ha proposto che fosse necessario mettersi tra l’aggredito e l’aggressore per fermarli e costringerli a una soluzione politica del conflitto, è stato additato al ludibrio. Ha trionfato l’eristica ossia l’arte di battagliare con le parole; per dirla con Schopenhauer, l’arte di ottenere ragione a prescindere dalla verità e dalla logica con l’uso di stratagemmi. Chi ha sostenuto che non bisognava stare né con Putin né con la Nato ma percorrere la via della pace, è stato aggredito e zittito nel dibattito pubblico con dissimulazioni, false proposizioni, provocazioni, diversioni. Proviamo a chiarire, allora, una buona volta.

Che cosa si vuole effettivamente dire quando si dice né con Putin né con la Nato ma per la pace? Semplicemente questo: che tutti gli Stati e gli Organismi internazionali non coinvolti nel conflitto russo-ucraino avrebbero dovuto (e potrebbero ora) all'unisono istituire un tavolo internazionale straordinario per la pace convocando seduta stante entrambi i capi di Stato in guerra. Contemporaneamente, questi Stati e organismi terzi avrebbero dovuto (e potrebbero ora) autorizzare in via straordinaria l'invio sul campo di battaglia dei Caschi Blu dell'Onu e degli operatori delle organizzazioni internazionali umanitarie come forze d’interposizione per imporre il cessate il fuoco e l'assistenza alla popolazione. Il tavolo internazionale della pace avrebbe dovuto (e potrebbe ora) aprire una sessione a oltranza di ascolto delle ragioni dell'uno e dell'altro dei due contendenti e mediare fino ad arrivare a un accordo politico che avrebbe consentito (e consenta ora) un’equa composizione diplomatica del conflitto. Se è vero, com’è vero, che il mondo si è trovato e si trova in una situazione straordinaria, allora occorrevano e occorrono misure straordinarie.

Questa guerra impone il ritorno di quella politica intesa come arte dell'associare gli uomini, teorizzata da Johannes Althusius. Impone, cioè, il ritorno alla grande politica. Quella stessa grande politica che nel 1856, con il Congresso e poi con il Trattato di Parigi, pose fine alla guerra di Crimea, significativamente definita dallo storico francese Henry Pirenne come la prima guerra europea.

Il mondo non ha bisogno di nuove guerre fredde combattute, stavolta, sul suolo europeo; non ha bisogno di ritornare alla dottrina hitleriana della corsa verso est; non ha bisogno di restaurare la churchilliana cortina di ferro; non ha bisogno di restaurare la politica sovietica dei muri; non ha bisogno di restaurare la dottrina trumaniana del contenimento; non ha bisogno della Nato e di un suo possibile nuovo competitore, come hanno più volte sostenuto Sergio Romano e addirittura George Kennan all'indomani della caduta del muro di Berlino. Ha bisogno, invece, di smilitarizzare la politica, come seppero fare Kennedy e Chruščёv, con la mediazione di papa Giovanni XXIII, al tempo della crisi di Cuba. 

Se le misure straordinarie servono a risolvere situazioni straordinarie, allora è tempo di metterle in pratica. Solo se queste dovessero fallire, allora e soltanto allora, si potrà dare libero sfogo a quel complesso militare-industriale globale che intanto arraffa il proprio bottino di guerra a discapito dei popoli. E sulla coscienza di chi avrebbe fatto (o farebbe) fallire la mediazione sarebbe ricaduta (o ricadrebbero) le colpe e le vittime del disastro nucleare che offusca l'orizzonte. E soltanto a questo punto si avrebbe il peggiore e il più terribile dei diritti: quello di distinguere i buoni dai cattivi.

La pace ha perso un anno di tempo. O la diplomazia internazionale esce finalmente dai suoi segreti, dalle sue ambiguità, dai suoi intrighi, come predicava Wilson rimasto fino a oggi inascoltato, o questa guerra - al di là dei suoi esiti - sarà tremenda e per di più foriera di successive catastrofiche guerre. Se dalla prima guerra mondiale scaturirono i totalitarismi e la seconda guerra mondiale, se da quest'ultima scaturì la guerra fredda, dalla guerra odierna scaturirà un mondo da incubo. Tutto questo, per chi scrive, significa dire né con la Nato né con Putin ma per la pace.

Il protrarsi del conflitto in Ucraina rischia di mettere seriamente in crisi il sistema di finanziamento occidentale delle operazioni belliche del regime di Zelensky. I malumori in Europa sono evidenti da tempo, ma potrebbero essere le divisioni crescenti tra la classe politica americana a determinare nel breve periodo un rallentamento del flusso di armi e denaro diretto verso Kiev. La maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti di Washington continua infatti a mandare segnali piuttosto espliciti alla Casa Bianca, come la recente richiesta di fare chiarezza sulla destinazione e l’utilizzo degli aiuti recapitati finora all’ex repubblica sovietica.


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