Nel suo primo mandato (2017-2021), il presidente Donald Trump decise di mantenere segreta gran parte dei documenti sull’assassinio di John F. Kennedy; ma la scorsa settimana, dopo essersi autonominato presidente del Kennedy Center, ha disposto la declassificazione di tutti i documenti (80.000) relativi sia a quel fatto, avvenuto il 22 novembre 1963, sia all’omicidio del senatore Robert Kennedy nel 1968 e a quello perpetrato contro Martin Luther King lo stesso anno. I documenti sono disponibili online dal 18 marzo sul sito web del National Archives (Maryland), sezione “JFK Assassination Records - 2025 Documents Release”, a questo indirizzo: www.archives.gov/research/jfk/release-2025. Si trovano anche nel National Security Archive: https://t.ly/qhZ78.

Nonostante le preoccupazioni di diversi funzionari per le conseguenze impreviste di una mole di materiale così vasta, e nonostante alcune iniziali riserve di John Ratcliffe, direttore della CIA, il team per la sicurezza è rimasto “attonito”, secondo quanto riferito dal New York Times (https://t.ly/rnq18), di fronte all’ordine di Trump che ha dovuto essere eseguito, e in sole 24 ore sono stati pubblicati 64.000 documenti. Gli Stati Uniti hanno un sistema unico nella gestione di biblioteche, archivi e informazioni di ogni genere, con repository sia pubblici che privati e un’ampia accessibilità accademica per la ricerca.

Le università più prestigiose possiedono documenti di grande valore. Inoltre, negli Stati Uniti i documenti riservati vengono periodicamente declassificati. Tuttavia, questa tradizione ha preso una svolta inedita e preoccupante nella nuova era Trump, con la Casa Bianca che ha ordinato la chiusura dell’ufficio statale che pubblicava statistiche economiche come dati su inflazione, occupazione e PIL (https://rb.gy/4wbca2).

Il “Giorno della Liberazione” proclamato da Trump con il lancio mercoledì di una vera e propria guerra commerciale globale finirà molto probabilmente per creare una serie di effetti contraddittori sul piano economico e geo-politico negli Stati Uniti, in ogni caso con un esito molto diverso da quello prospettato dal presidente repubblicano. Di rilevanza storica potrebbero essere in effetti i cambiamenti che le nuove politiche tariffarie innescheranno, se confermate nel medio e lungo periodo. Ma, in assenza di una pianificazione economica, industriale e sociale di vasta portata – al momento nemmeno lontanamente nelle intenzioni e nelle capacità della Casa Bianca – i soli dazi a tappeto appena annunciati faranno poco o nulla per la “rinascita” degli Stati Uniti. Ciò che potranno quasi certamente provocare è invece un’intensificazione delle rivalità sul piano globale, con il rischio di un aumento vertiginoso di tensioni e conflitti.

La promessa di Donald Trump di ristabilire il controllo americano sul canale di Panama si è scontrata in questi giorni con la decisione del governo cinese di bloccare un recente mega-accordo, dai connotati marcatamente politici, per cedere la gestione logistica di due porti nel paese centro-americano a un consorzio guidato dal colosso USA degli investimenti gestiti, BlackRock. L’autorità di vigilanza antitrust cinese (SAMR) ha aperto un’indagine sull’operazione che potrebbe fruttare alla “holding” CK Hutchison, storicamente legata a Hong Kong ma con sede legale alle isole Cayman, circa 23 miliardi di dollari. Questa decisione, che sospende la ratifica dell’accordo, è stata con ogni probabilità sollecitata dai vertici del governo di Pechino, da dove nelle ultime settimane erano circolati commenti tutt’altro che entusiasti nei confronti di un’operazione dalle implicazioni strategiche ritenute preoccupanti dalla Repubblica Popolare.

Le possibilità di un qualche significativo progresso diplomatico nella crisi russo-ucraina continuano a dipendere dalle decisioni del regime di Zelensky e dei suoi sponsor europei, più impegnati a cercare di sabotare le trattative tra Russia e Stati Uniti che a impegnarsi per creare un clima favorevole alla cessazione delle ostilità. Kiev insiste nel condurre inutili operazioni militari contro obiettivi civili o, in diretta violazione dei termini della tregua negoziata dall’amministrazione Trump, prendendo di mira “infrastrutture energetiche” russe. L’Europa, da parte sua, con in testa il presidente francese Macron e il premier britannico Starmer, discute invece attorno a un impraticabile progetto di intervento militare a sostegno dell’Ucraina, mentre si rifiuta anche solo di considerare l’alleggerimento di alcune sanzioni imposte alla Russia, che potrebbe sbloccare l’accordo sulla libera navigazione commerciale nel Mar Nero, sottoscritto in linea di principio settimana scorsa a Riyadh tra Mosca e Washington.

Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha respinto ufficialmente domenica qualsiasi negoziato diretto con gli Stati Uniti, rispondendo a una lettera inviata da Donald Trump il 12 marzo scorso attraverso la mediazione degli Emirati Arabi. Tuttavia, Pezeshkian ha lasciato aperta la porta a “colloqui indiretti”, subordinati al comportamento di Washington. “L’Iran non si è mai sottratto al dialogo, ma sono le promesse non mantenute dell’altra parte ad avere eroso la fiducia”, ha dichiarato il presidente della Repubblica Islamica durante un incontro governativo, sottolineando che Teheran “valuterà le azioni concrete americane prima di qualsiasi ulteriore passo”. 


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