Le elezioni di metà mandato nelle Filippine hanno insolitamente focalizzato l’interesse di stampa e osservatori internazionali per via di implicazioni esplosive in materia di politica estera, soprattutto in relazione allo scontro tra Cina e Stati Uniti in Asia orientale. Il voto di lunedì prevedeva il rinnovo di tutte le amministrazioni locali, della camera bassa del parlamento di Manila e della metà dei seggi del Senato. Per molti, la consultazione rappresentava una sorta di referendum sulla scelta tra i due più importanti clan politici del paese-arcipelago – Marcos e Duterte – a loro volta riconducibili a orientamenti favorevoli rispettivamente a Washington e a Pechino.

Il fronte filo-sionista e i media ufficiali in Occidente sono in pieno fermento da alcuni giorni per la possibile clamorosa rottura che si starebbe consumando tra il presidente americano Trump e il governo di ultra-destra israeliano del primo ministro/criminale di guerra Netanyahu. Il rilascio nella giornata di lunedì da parte di Hamas del prigioniero con cittadinanza americana, Edan Alexander, è arrivato infatti al termine di una trattativa diretta tra gli Stati Uniti e il movimento di liberazione palestinese che governa Gaza. La vicenda avrebbe creato seri problemi a Tel Aviv, visto anche che si aggiunge ad altri recenti sviluppi che hanno visto la Casa Bianca agire sulle questioni mediorientali senza consultare il principale alleato americano nella regione. Se di vera rottura si può parlare lo si vedrà a breve, quando le diverse direzioni presumibilmente prese da USA e Israele potrebbero portare a uno scontro aperto, spingendo Trump a decidere per quali interessi la sua amministrazione è realmente intenzionata ad adoperarsi.

Un giudice federale americano è dovuto intervenire nuovamente questa settimana per imporre all’amministrazione Trump il rispetto di un ordine che aveva già emesso nel mese di aprile al fine di fermare le deportazioni illegali di immigrati negli Stati Uniti verso paesi autoritari o in stato di guerra. L’ingiunzione è solo l’ultima in ordine di tempo delle numerose arrivate nei giorni scorsi. Svariati tribunali del paese hanno preso di mira quelli che appaiono a tutti gli effetti come rapimenti da parte delle forze di polizia, seguiti dal confinamento in veri e propri lager e dall’espulsione senza il minimo rispetto delle procedure legali e dei diritti costituzionali.

Il giudice distrettuale Brian Murphy del tribunale di Boston ha risposto a un’istanza di urgenza dei legali di immigrati di origine laotiana, filippina e vietnamita, che stavano per essere imbarcati su un volo governativo diretto in Libia. Un altro potenziale paese di destinazione dei migranti da espellere era l’Arabia Saudita. Gli avvocati e le organizzazioni umanitarie che hanno partecipato alla causa ritenevano che il governo del presidente Trump fosse sul punto di trasgredire all’ordine precedente dello stesso Murphy che imponeva, prima di eseguire le deportazioni, una notifica scritta da recapitare ai destinatari del provvedimento e l’opportunità per questi ultimi di ricorrere davanti a un giudice.

La clamorosa caduta del neo-cancelliere tedesco, Friedrich Merz, nella prima votazione al Bundestag di martedì per la fiducia al suo nascente governo ha dato subito e in maniera inequivocabile la misura dell’impopolarità della maggioranza formatasi a Berlino dopo le elezioni anticipate dello scorso febbraio. L’ex presidente della divisione tedesca del colosso delle speculazioni BlackRock ha alla fine superato l’ostacolo nella seconda votazione in aula, grazie anche alla collaborazione dei partiti di opposizione. Le basi del suo governo con i socialdemocratici (SPD) appaiono però da subito molto fragili, così da rendere complicata l’implementazione di un’agenda fatta di militarismo spinto, tagli selvaggi alla spesa sociale e rilancio degli interessi del capitalismo tedesco sul piano internazionale.

La risoluzione approvata lunedì dal gabinetto israeliano del primo ministro/criminale di guerra, Benjamin Netanyahu, ha tutto l’aspetto di una soluzione finale al “problema” palestinese nella striscia di Gaza. Occupazione militare permanente, espulsione o confinamento degli abitanti in campi di concentramento, restrizioni estreme nella distribuzione di cibo e aiuti, sterminio puro e semplice tramite fame, malattie e violenza sono le caratteristiche principali del piano che verrà implementato a breve da Tel Aviv. Mentre media e politici occidentali cercano di presentare la nuova iniziativa israeliana come un mezzo per fare pressioni su Hamas e ottenere la liberazione degli “ostaggi”, Netanyahu e i suoi complici non hanno ormai più nessuno scrupolo nel descrivere il piano per quello che realmente rappresenta.


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