La disastrosa prestazione di Joe Biden nel primo dibattito presidenziale di giovedì ha scatenato uno tsunami di reazioni isteriche sulla stampa americana “mainstream”, che chiede improvvisamente il clamoroso ritiro del candidato democratico dalla corsa alla Casa Bianca. Quella in corso in queste ore ha tutti i contorni di una campagna pianificata da tempo che attendeva solo l’occasione propizia per esplodere ed esplorare le modalità per mettere da parte un presidente chiaramente avviato da tempo verso il declino fisico e intellettuale.

Il suggello su questa operazione lo ha messo giovedì il comitato di redazione del New York Times con un articolo nel quale Biden viene sollecitato a ritirare la sua candidatura alla presidenza. I vertici del giornale invitano a prendere atto che l’inquilino della Casa Bianca “non è l’uomo che era quattro anni fa” e che non esiste più alcun “fondamento logico per cui Biden debba essere quest’anno il candidato democratico [alla presidenza]”. Segue poi il riconoscimento di quanto gli americani hanno potuto osservare nell’evento di giovedì, cioè l’evidenza del peso “dell’età e delle limitazioni” fisico-mentali di Biden che rendono impossibile per lui sostenere una campagna elettorale e, tantomeno, un secondo mandato alla guida degli Stati Uniti.

Se rimaneva qualche dubbio sulla natura del piano promosso dagli Stati Unit per dispiegare un corpo di polizia internazionale guidato dal Kenya ad Haiti, una tragica coincidenza avvenuta questa settimana ha provveduto a fugarli completamente, dimostrando il carattere predatorio e repressivo dell’operazione autorizzata formalmente dal Consiglio di Sicurezza ONU lo scorso anno. Proprio mente a Port-au-Prince approdavano i primi 400 dei circa mille agenti kenyani previsti, a Nairobi e nel resto del paese africano andava in scena una feroce repressione della rivolta esplosa contro un pacchetto di austerity approvato dal parlamento su ordine del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Il numero di vittime tra i manifestanti, definiti “traditori” dal presidente William Ruto, recentemente accolto con tutti gli onori alla Casa Bianca, è superiore a venti e anticipa in modo inquietante il trattamento che potrebbe essere riservato alla popolazione haitiana nei prossimi mesi.

Nella crisi mediorientale scatenata dall’aggressione israeliana a Gaza, il fronte libanese resta al centro delle macchinazioni del regime di Netanyahu, con l’ipotesi di un conflitto di vasta scala tra le forze sioniste e Hezbollah tutt’altro che scongiurata nonostante l’aperto scetticismo del governo americano. La visita di questa settimana a Washington del ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha avuto al centro delle discussioni proprio la questione della possibile guerra al confine settentrionale. Nessuna delle due parti sembra volere realmente che la situazione precipiti, ma il fallimento delle operazioni militari di Israele nella striscia e la totale assenza di una “exit strategy” da parte di Netanyahu rischiano di portare precisamente a un epilogo a dir poco disastroso.

A pochi giorni di distanza dal dodicesimo anniversario della perdita della libertà a causa della persecuzione giudiziaria del governo americano e dei suoi complici in Gran Bretagna, Svezia, Ecuador e Australia, Julian Assange è tornato finalmente un uomo libero nella giornata di lunedì grazie a un accordo raggiunto con il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. Di un possibile patteggiamento si discuteva in maniera non ufficiale da qualche mese, ma a convincere Washington a mollare la presa è stata una combinazione di fattori, primo fra tutti l’insostenibilità delle ragioni dell’accusa con l’approssimarsi dell’epilogo di un procedimento-farsa orchestrato fin dall’inizio per infliggere una punizione esemplare al 52enne giornalista australiano.

Il ricorso a operazioni di matrice apertamente terroristica contraddistingue il regime ucraino almeno fin dall’inizio della guerra con la Russia nel febbraio 2022. Il bombardamento di una popolare spiaggia in Crimea nel primo pomeriggio di domenica sembra però un’azione in grado di imprimere un’ulteriore svolta al conflitto, soprattutto per via del ruolo decisivo svolto dagli Stati Uniti. È possibile infatti che Mosca decida nel prossimo futuro una ritorsione direttamente contro le forze NATO o, quanto meno, qualche iniziativa che restringa in maniera drastica le manovre di queste ultime in appoggio alla strategia disperata di Kiev.


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