La situazione nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC) è ormai sull’orlo del precipizio in seguito all’ingresso nella città strategica di Goma, capitale della provincia del Kivu settentrionale, della milizia di etnia Tutsi M23 grazie al sostegno delle forze armate del vicino Ruanda. Gli eventi degli ultimi giorni hanno spinto il governo di Kinshasa a rompere le già complicate relazioni diplomatiche con Kigali, facendo temere la possibile esplosione di una nuova guerra su vasta scala in una regione ricchissima di risorse minerarie. Sullo sfondo del conflitto ci sono appunto gli interessi legati all’estrazione e alla commercializzazione, spesso illegale, delle ricchezze del sottosuolo congolese e che si intrecciano alla crescente competizione tra la Cina e l’Occidente.

La direttiva emessa a inizio settimana dalla nuova amministrazione Trump sul congelamento di virtualmente tutte le spese federali ha gettato letteralmente nel caos le amministrazioni pubbliche degli Stati Uniti e le società private che operano con il sostegno di finanziamenti governativi. Il “memorandum”, che fa riferimento alla raffica di decreti presidenziali firmati dal neo-presidente nelle ore immediatamente successive al suo insediamento, è stato per ora sospeso da un giudice federale in conseguenza di una denuncia presentata da alcune organizzazioni non-profit. L’iniziativa minaccia comunque di alterare, con effetti politici ed economici potenzialmente devastanti, la prassi legata agli stanziamenti di fondi federali, regolata dalla stessa Costituzione americana e da una consolidata legge del Congresso risalente all’era Nixon.

Il cessate il fuoco entrato in vigore in Libano il 27 novembre scorso è stato utilizzato da subito da Israele per raggiungere alcuni obiettivi che non era stato possibile conseguire grazie alla resistenza di Hezbollah durante la fase più calda del conflitto nelle settimane precedenti. A confermarlo sono le centinaia o forse migliaia di violazioni della tregua registrate in questi 60 giorni e il rifiuto di evacuare le forze armate sioniste dal territorio libanese entro la scadenza stabilita dai termini dell’accordo. A presiedere e favorire le ennesime azioni illegali di Israele sono ancora una volta gli Stati Uniti, assieme all’altro “garante” del cessate il fuoco, la Francia, e di fatto anche al nuovo governo di Beirut.

La giustificazione citata da Tel Aviv per restare nel sud del Libano è la mancata implementazione dei termini della tregua da parte del vicino settentrionale. Ovvero che l’esercito libanese non avrebbe ancora preso possesso di tutta l’area a sud del fiume Leonte (Litani), sgomberando le forze di Hezbollah e le loro armi. Netanyahu ha così chiesto a Washington di prorogare i tempi del ritiro dal Libano, cosa che l’amministrazione Trump ha concesso, annunciando lunedì un’estensione fino al 18 febbraio prossimo.

Molte delle dichiarazioni pubbliche più provocatorie del neo-presidente americano Trump vengono commentate con un certo disinteresse dagli osservatori e dalla stampa “mainstream” perché giudicate come l’espressione di una personalità impulsiva o, tutt’al più, soltanto parte di strategie negoziali. Se ciò è talvolta indiscutibile, in altre circostanze le uscite di Trump rivelano piuttosto l’allineamento in corso o già ultimato tra la retorica ufficiale e le politiche effettivamente implementate o in fase di elaborazione dall’apparato di potere americano. Così sembra essere anche per le recenti affermazioni sul futuro della striscia di Gaza, pronunciate nel fine settimana a bordo dell’aereo presidenziale e che rappresentano l’adozione formale della pulizia etnica come politica del governo degli Stati Uniti.

Ormai, in attesa di capire quanto di quello che dice sarà in grado di fare, Trump ha edotto il mondo intero circa la sua modalità di comunicazione. Ogni frase inizia con una promessa e finisce con una minaccia. Tra le due locuzioni non c’è null’altro che non sia una verbosità sguaiata e cafona che di per sé rappresenta bene la cifra del personaggio. Nell’occasione del Foro di Davos, evento annuale dove i big della politica incontrano quelli dell’economia per ribadirgli la loro genuflessione finanziaria ed ideologica, l’intervento video del neopresidente USA ha avuto come bersagli i paesi del Golfo Persico e l’Europa.


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