Le sfuriate quotidiane di Trump contro le istituzioni statunitensi e gli avversari politici interni - ai quali assegna premi e castighi in maniera del tutto arbitraria - viaggiano in parallelo con la quotidiana individuazione di un nemico estero verso il quale minacciare sanzioni o guerre. In questo contesto, che serve al tycoon per distrarre gli statunitensi dai suoi scandali di natura sessuale, dal suo insider trading e dai tragici risultati dell’economia, s’inseriscono tanto le provocazioni aperte (come nel caso del Venezuela) quanto alcune decisioni di rottura che, per il loro impatto assumono natura globale. La rottura con l’India di Modi è una di queste e rappresenta uno dei peggiori autogol mai realizzati dagli Stati Uniti.

I governi di Francia, Germania e Regno Unito, come praticamente tutto il resto dell’Europa, non intendono perdere una sola occasione per rimarcare la propria marginalità strategica e l’irrilevanza politica e morale che li contraddistingue nell’approccio alle principali questioni internazionali. Di ciò se ne è avuta puntuale conferma giovedì con l’attivazione, da parte di questi tre paesi, del cosiddetto “snapback”, il meccanismo, previsto dall’accordo sul nucleare iraniano del 2015 (JCPOA), che consente la reintroduzione delle sanzioni multilaterali contro la Repubblica Islamica che lo stesso trattato aveva sospeso per un decennio. La decisione è il frutto della cecità di una classe dirigente europea che cerca disperatamente e senza successo di ritrovare una qualche leva per incidere sulle più importanti dinamiche strategiche globali e, nel caso specifico, rischia di dare il colpo di grazia a un processo diplomatico già sufficientemente complicato.

La clamorosa rottura delle relazioni diplomatiche tra Australia e Iran di questa settimana ha tutto l’aspetto di un’operazione costruita a tavolino tra il governo laburista di Canberra e gli alleati di Stati Uniti e Israele. Se si cercasse infatti una minima prova concreta delle responsabilità iraniane nei fatti che vengono attribuiti ai Guardiani della Rivoluzione o un senso logico che avrebbe motivato questi ultimi nelle loro azioni, si resterebbe fortemente delusi. La messa in scena del primo ministro, Anthony Albanese, per coprire un’operazione dei servizi segreti australiani, in collaborazione con CIA e Mossad, serve in primo luogo a calmare le acque nei rapporti tra il suo governo e il regime genocida di Netanyahu, mentre preannuncia allo stesso tempo una possibile nuova offensiva militare totalmente illegale contro la Repubblica Islamica.

Nel teatro della geopolitica contemporanea, poche scene si preannunciano così cariche di significato quanto l’incontro che dovrebbe avvenire tra il primo ministro indiano, Narendra Modi, e il presidente cinese, Xi Jinping, a margine del vertice SCO in programma a Tianjin a partire da domenica prossima. Due leader che per anni si sono guardati in cagnesco oltre l’Himalaya, improvvisamente impegnati a tessere i fili di una riconciliazione che fino a pochi mesi fa sembrava impensabile. Ma il vero protagonista di questa svolta non sarà presente all’evento: Donald Trump, l’uomo che con la sua politica del bastone senza carota sta regalando alla Cina quello che Pechino non era mai riuscita a ottenere con decenni di paziente diplomazia.

Dopo il dispiegamento di militari della Guardia Nazionale nella capitale americana un paio di settimane fa, il presidente Trump starebbe valutando la possibilità di implementare a breve un piano simile anche nella terza città più grande degli Stati Uniti: Chicago. Il Washington Post ne ha dato notizia in questi giorni, collegando le intenzioni della Casa Bianca alle politiche ultra-repressive contro l’immigrazione “irregolare” già in fase di applicazione e avvertendo che il ricorso ai militari sul suolo domestico in queste due metropoli potrebbe essere un modello da adottare in altre città del paese nel prossimo futuro.


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