Il 2 Aprile avrà inizio il sistema di dazi che gli Stati Uniti hanno deciso di imporre ai suoi soci commerciali e ad alcuni suoi nemici storici. L’idea dei dazi ha due obiettivi, entrambi riassumibili nella difesa della centralità statunitense sull’economia mondiale. Si vuole il ripristino della forza industriale perduta dopo il progressivo abbandono della stessa in vista di una riconversione del processo di accumulazione primario spostatosi sulla finanza e sui servizi. La perdita di milioni di posti di lavoro ha sconquassato l’equilibrio sociale interno e costretto ad una maggiorazione dell’import che è pesantemente gravata sul bilancio commerciale.

La scommessa politica di Trump è sul complesso dell’architettura economica statunitense, ovvero sulla necessità di ripristinare una supremazia nella produzione industriale riducendo il peso preponderante della finanza e invertendo il ciclo globalista nel rapporto tra import ed export. In sostanza Trump si propone di attaccare il modello economico-finanziario ultra monetarista sostenuto dal partito democratico, imputandogli la perdita di competitività dell’economia derivante dalla dismissione dei processi produttivi di tipo industriale e dalla crescita del PIL basata solo sulla speculazione finanziaria con la consegna alle banche della direzione dei processi economici del Paese.

Anche se scopi e obiettivi ufficiali dei nuovi dazi, annunciati questa settimana sulle auto di importazione, non corrispondono alle conseguenze che avranno realmente nel breve e medio periodo, il presidente americano Trump ha deciso di procedere con l’ennesima escalation di una guerra commerciale globale sempre più difficile da arginare. A partire dal prossimo 2 aprile, non solo le auto e gli autocarri “leggeri” in ingresso negli Stati Uniti saranno gravati da una tariffa doganale del 25%, ma anche le singole parti di essi, inclusi motori e trasmissioni. Un dettaglio, quest’ultimo, che, in un settore industriale altamente integrato come quello nordamericano, rischia di stravolgere le catene di approvvigionamento e far schizzare i prezzi di vendita anche per le vetture considerate di origine statunitense.

Un grossolano errore commesso durante una discussione interna sulla recente aggressione militare americana contro lo Yemen potrebbe costare il posto al consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente, Mike Waltz, attorno al quale sembra giocarsi anche il confronto tra falchi “neo-con” e “isolazionisti” dentro l’amministrazione di Donald Trump. L’ex deputato della Florida aveva aggiunto per sbaglio un giornalista del magazine The Atlantic a una chat di Signal tra esponenti di primissimo piano del governo di Washington dedicata alla discussione dei dettagli e delle implicazioni del bombardamento nel paese della penisola arabica, poi effettivamente avvenuto di lì a pochi giorni. La vicenda ha scatenato una feroce polemica sui giornali ufficiali e tra gli oppositori di Trump, ma, com’era prevedibile, nessuno di coloro che hanno attaccato la Casa Bianca ha ritenuto opportuno sollevare la questione cruciale, ovvero la totale illegalità di un’azione che ha di fatto riaperto il fronte di guerra yemenita.

L’utilizzo della giustizia a scopi politici e la repressione somministrata ai propri rivali non è esattamente una novità per il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. L’incriminazione e l’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, segnano però una netta accelerazione della strategia del leader del paese NATO, non a caso in un momento segnato dalla convergenza di una serie di dinamiche, ma anche di crisi, che lo hanno spinto a prendere iniziative audaci per prolungare la sua permanenza al potere e calibrare un certo riassestamento della posizione della Turchia nello scacchiere regionale.

L’attacco giudiziario a Imamoglu ha tutti i contorni di un’operazione attentamente preparata dal governo guidato da Erdogan e dal suo partito (AKP). Settimana scorsa, l’università di Istanbul aveva revocato la sua laurea ottenuta negli anni Novanta a seguito di una “indagine” su presunte irregolarità, già di dominio pubblico da mesi, nel trasferimento di Imamoglu a quest’ultimo istituto da uno di Cipro del Nord. Il possesso di un titolo di studio superiore è uno dei requisiti anti-democratici previsti dalla legge turca per candidarsi alla presidenza della repubblica e senza di esso Imamoglu sarebbe automaticamente escluso dalla competizione.

Gli 800 miliardi di euro del piano di riarmo europeo, ribattezzato per esigenze di comunicazione positiva “Readiness 2030”, sembrano una misura dagli effetti pratici limitati, ma con ampie ripercussioni politiche ed economiche sulla struttura del Vecchio Continente. È necessario perché la spesa militare russa è superiore a quella europea? Assolutamente no, anzi, è vero il contrario. In pieno conflitto, la spesa russa ammonta a 145,9 miliardi di dollari, mentre quella europea (Regno Unito incluso) raggiunge i 457 miliardi di dollari (il triplo). Gli Stati Uniti si attestano sugli 850 miliardi di dollari. Ergo, affermare che esista un divario di investimenti da colmare è semplicemente falso.


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