In un'intervista rivelatrice, Samuel Ramírez, coordinatore del Movimento delle vittime del regime (MOVIR), espone le gravi violazioni dei diritti umani commesse durante il regime di emergenza di Nayib Bukele in El Salvador. Dal marzo 2022, più di 81.000 persone sono state detenute sotto questa misura, molte delle quali in modo arbitrario. Il MOVIR lotta instancabilmente per ottenere giustizia e sostegno alle vittime.

In Germania, nelle elezioni appena celebrate nei Lander di Sassonia e Turingia, i neo nazisti della AfD hanno ottenuto un forte risultato. Non meno significativa l’affermazione del BSW di Sahra Wagenknecht, che ha fondato un partito di sinistra alternativa, anticapitalista, pacifista e anti-atlantista che dopo soli nove mesi ha raccolto il 15,8 dei voti in Turingia e l’11,8 in Sassonia. Sono voti presi ai Verdi (i più atlantisti della costellazione ecologista europea) ai Socialdemocratici (nella versione suicida di ciò che fu un tempo il partito di Brandt) e a Die Linke (esempio di mutazione genetica atlantista della ex sinistra).

Il mainstream mediatico eurocentrico si dichiara preoccupatissimo per l’avanzata dell’estrema destra, ma l’establishment atlantico è perfettamente cosciente di due cose: 1) l’estrema destra non è nemica e, tendenzialmente, non è nemmeno estranea, viene dallo stesso album di famiglia; 2) i neonazisti non saranno mai in grado di rappresentare una opzione di governo senza che il deep state euro-statunitense glielo consenta.

Proprio nei giorni precedenti Manfred Weber, esponente della CDU e capogruppo del centro destra al Parlamento Europeo, esprimeva appoggio totale a Giorgia Meloni che lo ha ricevuto a Roma. E anche in Olanda i centristi governano insieme a destra ed estrema destra senza che questo abbia impensierito nessuno. Insomma la minaccia non viene da destra. Nessuna destra continentale risulta incompatibile con lo schema vigente delle élites europee. Il cosiddetto "sovranismo" ci mette un amen a diventare ultra-atlantismo.

L’assassinio a Teheran a fine luglio per mano israeliana del capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, era stato subito seguito dalla promessa del governo iraniano di mettere in atto una ritorsione adeguata contro lo stato ebraico. Dopo oltre un mese, però, non si è registrata ancora nessuna iniziativa di rilievo. Molti sostengono che la sola attesa di un possibile attacco ha fatto salire enormemente le tensioni in Israele traducendosi in una sorta di punizione, ma l’unica ragione che giustificherebbe un passo indietro della Repubblica Islamica sembra essere una contropartita importante, con ogni probabilità collegata alla guerra a Gaza. La leadership iraniana, in ogni caso, deve valutare con estrema cautela qualsiasi risposta, vista la complessità degli scenari mediorientali odierni e le implicazioni che avrebbe per i propri interessi strategici.

Le proteste di centinaia di migliaia di israeliani e uno sciopero generale, indetto lunedì per paralizzare il paese, non hanno apparentemente cambiato di una virgola l’atteggiamento del premier Netanyahu in relazione a un possibile cessate il fuoco nella striscia di Gaza. Le operazioni militari, che da alcuni giorni si sono intensificate anche in Cisgiordania, stanno assumendo sempre più l’aspetto di una guerra totale contro la popolazione palestinese, senza nessun riguardo nemmeno per la sorte dei prigionieri israeliani ancora nelle mani di Hamas, né per le conseguenze sugli equilibri strategici regionali.

L’aggravarsi della crisi ha portato alla luce anche il primo vero scontro tra Netanyahu e il presidente americano Biden. L’inquilino della Casa Bianca ha sostenuto lunedì che il primo ministro di Israele non sta facendo abbastanza per mandare in porto l’accordo con Hamas. L’affermazione di Biden, pur rappresentando a dir poco un eufemismo, ha espresso un fatto chiaro a chiunque da parecchio tempo, ma, nel quadro delle dinamiche dei rapporti tra i due alleati negli ultimi mesi, segna il primo caso in assoluto in cui gli Stati Uniti hanno assegnato una qualche responsabilità al regime sionista per la mancata tregua.

Il successo del partito Alternativa per la Germania (AfD) nelle due elezioni locali tenute in Germania del fine settimana è stato accolto dai soliti allarmi e inviti all’autocritica di politici e stampa “mainstream”, ufficialmente per cercare di frenare l’avanzata dell’estrema destra tedesca a poco più di un anno dal voto per il rinnovo del parlamento federale. Nei “Länder” orientali di Sassonia e Turingia non ha però sfondato solo l’AfD, ma anche la sinistra più tradizionale, o “estrema” per i canoni odierni, dell’Alleanza Sahra Wagenknecht (BSW o Bündnis Sahra Wagenknecht), in grado di intercettare ampi consensi in uno spazio politico desertificato dal totale fallimento di Socialdemocratici (SPD), Verdi e Die Linke.


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