È trascorso solo un mese dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ma la direzione intrapresa dalla sua seconda presidenza verso un consolidamento dei poteri dell’esecutivo in senso autoritario appare già chiaramente visibile. Tra le altre iniziative riconducibili a questa involuzione, una delle più controverse è quella che stabilisce l’autorità sostanzialmente assoluta del presidente su una serie di agenzie federali considerate indipendenti e che operano in svariati ambiti, producendo direttive e regolamentazioni, assicurandone l’implementazione e imponendo sanzioni per il mancato rispetto di esse. Trump si è auto-assegnato questo potere attraverso un decreto presidenziale firmato nei giorni scorsi. La decisione ha già innescato cause legali che finiranno probabilmente davanti alla Corte Suprema, dove il principio alla base dell’indipendenza di questi organi potrebbe essere cancellato in via definitiva.

L’area del Pacifico è in questi giorni nuovamente interessata da gravi tensioni tra il fronte filo-americano e la Cina dopo che Pechino ha mandato in porto un accordo di “cooperazione strategica” con il governo delle isole Cook. Questo arcipelago di appena 15 mila abitanti è una sorta di semi-colonia della Nuova Zelanda e qualsiasi iniziativa della sua classe politica che metta in discussione lo status quo, tanto più aprendo spazi alla penetrazione cinese, viene vista come una minaccia inaccettabile. Il primo ministro delle Cook, Mark Brown, ha cercato in tutti i modi di rassicurare il governo neozelandese, ma in un quadro regionale segnato dalla crescente competizione con la Cina è improbabile che la questione venga dimenticata in fretta, nonostante il pieno diritto del piccolo paese del Pacifico a esplorare qualsiasi opportunità di sviluppo economico.

I colloqui preliminari conclusi martedì a Riyadh tra le delegazioni di Stati Uniti e Russia non hanno prevedibilmente avvicinato una soluzione diplomatica alla crisi ucraina né resettato del tutto le relazioni tra le due potenze nucleari. Dopo un summit di oltre quattro ore dai toni cordiali, tuttavia, il risultato più importante è stato l’accordo sulla preparazione di un vero e proprio negoziato, basato sul riconoscimento degli interessi strategici di entrambe le parti. Il prossimo passo potrebbe essere ora l’atteso faccia a faccia tra Putin e Trump, ma le variabili sulla strada della pace in Ucraina restano moltissime, a cominciare dal comportamento dei vassalli europei, messi da parte dalla nuova amministrazione repubblicana, e dello stesso regime di Zelensky, il cui futuro appare cupo come non mai in questi ultimi tre anni.

Mentre Trump e i suoi uomini hanno definito chiaramente gli obiettivi in relazione alla guerra tra Russia e Ucraina, sia pure tralasciando o posticipando i dettagli cruciali, l’Europa resta ancorata a una realtà superata da tempo dagli eventi e continua a impegnarsi pubblicamente per un progetto irrealizzabile, sia esso la vittoria di Kiev o una “pace giusta” oppure, ancora, l’ottenimento di adeguate garanzie di sicurezza per il paese dell’ex Unione Sovietica.

Nonostante le minacciose dichiarazioni di Trump e Netanyahu dei giorni scorsi, la tregua nella striscia di Gaza sembra potere resistere, almeno per il momento, dopo che giovedì Hamas ha confermato che procederà con la liberazione concordata di altri tre prigionieri israeliani entro la giornata di sabato. La minaccia dello stop all’implementazione delle condizioni previste dal cessate il fuoco era legata alle ripetute violazioni da parte di Israele, ma anche al piano delirante del presidente americano per trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente” sotto il controllo USA. Se confermato, il momentaneo passo indietro di Washington e Tel Aviv, alla base della decisione di Hamas di sbloccare la liberazione dei prigionieri, è probabilmente dovuto proprio al disastroso impatto di quest’ultimo progetto criminale, che, tra l’altro, rischierebbe seriamente di destabilizzare vari paesi arabi alleati di Washington.

Con l’arrivo di Trump alla casa Bianca un cambio di rotta ci si aspettava e un cambio di rotta è arrivato. I paesi europei che si sono fatti trascinare con entusiasmo russofobico nella crociata anti-russa hanno ricevuto conferme precise ai loro peggiori timori nella vicenda ucraina. In una telefonata intercorsa tra i due presidenti di Usa e Russia, si è aperto il negoziato tra Casa Bianca e Cremlino e si sono ipotizzati colloqui diretti e reciproci viaggi nei rispettivi paesi quale segno della ripresa di un rapporto positivo, come dimostra lo scambio di prigionieri avvenuto in assoluta rapidità. Dunque la road map negoziale sull’Ucraina è iniziata e dalle prime indiscrezioni, peraltro confermate quasi apertamente da Washington, sembra che le richieste di Putin per porre fine all’operazione militare speciale russa possano essere accettate nella sostanza.


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