La stampa ufficiale negli Stati Uniti e in Europa sta favorendo e preparando accuratamente il cambiamento di rotta forse definitivo di Donald Trump sull’approccio alla guerra in Ucraina e sulla natura dei rapporti tra Washington e Mosca. L’esaurimento della pazienza del presidente americano nei confronti di Putin sarebbe determinato, secondo questa versione, dall’ostinazione del capo del Cremlino nel respingere tutte le – ragionevoli – proposte della Casa Bianca per arrivare a una tregua temporanea. Vista l’intrattabilità del presidente russo, presumibilmente determinato a conquistare tutta l’Ucraina e l’intera Europa, a Trump non resterebbe che tornare all’unica opzione possibile, quella della guerra “fino all’ultimo ucraino” già perseguita dal suo predecessore. La metamorfosi di Trump è stata ratificata lunedì con un doppio annuncio dalla Casa Bianca, uno appunto sulla vendita di armi a Kiev e l’altro che consiste nell’immancabile “ultimatum”, indirizzato in questa occasione al Cremlino.

Durante il diciassettesimo incontro annuale dei BRICS, recentemente celebratosi a Rio de Janeiro, i leader del blocco hanno proposto di avanzare nella creazione di un nuovo sistema di transazioni finanziarie nell’ambito dell’Iniziativa dei Pagamenti Transfrontalieri dei BRICS, con l’obiettivo di facilitare transazioni più accessibili, rapide e sicure tra i Paesi membri.

La conferenza di giovedì a Roma sulla ricostruzione dell’Ucraina è a tutti gli effetti l’ennesimo tentativo degli alleati del regime di Zelensky di auto-illudersi di potere influire in qualche modo sulle sorti della guerra in corso dal febbraio 2022. Viste le premesse, dichiarazioni e avvertimenti lanciati durante il vertice appartengono a una realtà parallela, plasmata dal terrore dell’ex comico televisivo ucraino per la sorte personale che lo attende e dalle velleità dei leader europei di evitare una sconfitta epocale nella “guerra per procura” di cui essi stessi, assieme alla precedente amministrazione americana, sono interamente responsabili. In teoria, ciò che conta nel concreto viene deciso sull’asse Mosca-Washington, ma anche in questo caso la fermezza e la coerenza del Cremlino continuano a scontrarsi con la volubilità, il narcisismo e l’indecisione dell’inquilino della Casa Bianca.

Per la prima volta dal ritorno al potere nell’agosto del 2021, il regime dei Talebani in Afghanistan ha ottenuto qualche giorno fa il riconoscimento ufficiale della propria legittimità da parte di un paese, anzi di una potenza globale come la Russia. La decisione di Mosca era nell’aria da qualche tempo e rappresenta non solo una presa d’atto della realtà oggettiva di chi governa a Kabul, ma anche una scelta diplomatica e strategica attentamente studiata. Secondo il Cremlino è ormai più utile e proficuo coinvolgere e responsabilizzare il governo talebano piuttosto che tenerlo ai margini della comunità internazionale o, tutt’al più, limitarsi a intrattenere con esso relazioni informali, come continuano a fare molti paesi anche occidentali.

La resistenza palestinese a Gaza continua a portare a termine operazioni complesse e altamente efficaci contro le forze sioniste di occupazione nonostante una situazione a dir poco catastrofica e l’avanzamento a passo spedito dei piani di pulizia etnica di Trump e Netanyahu. La visita di lunedì a Washington del primo ministro/criminale di guerra israeliano ha assunto, visti gli scenari complessivi, connotati grotteschi, sia pure ribadendo il sostanziale allineamento di USA e Israele sulla questione del genocidio palestinese. I segnali che arrivano dalla diplomazia, intanto, restano contraddittori. Per Hamas non ci sono ancora sviluppi positivi, vista l’assenza quasi totale di elasticità dei negoziatori di Tel Aviv, mentre dalla Casa Bianca e da fonti israeliane si insiste nel sostenere che l’accordo per un cessate il fuoco potrebbe essere a portata di mano.


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