Il recente accordo tra Regno Unito e Mauritius per la restituzione delle Isole Chagos, annunciato il 3 ottobre scorso, segna una svolta storica in una disputa che si trascina da oltre mezzo secolo. Tuttavia, sebbene presentato come un atto di riparazione storica, la decisione britannica appare più come un calcolo geopolitico che una vera ammissione di colpa. Le isole, in particolare Diego Garcia, ospitano infatti una delle basi militari più strategiche al mondo, utilizzata dagli Stati Uniti per operazioni in Medio Oriente e in Asia meridionale, ed è la salvaguardia della continuità di tale utilizzo a essere stata al centro dei negoziati.

A un anno esatto dall’operazione “Diluvio di Al-Aqsa” portata a termine da Hamas in territorio israeliano, la violenza dello stato ebraico sotto la supervisione del primo ministro criminale di guerra Netanyahu si sta allargando pericolosamente nella regione mediorientale. Oltre a decine di migliaia di morti, la gran parte dei quali donne e bambini, la guerra in corso ha provocato o sta provocando un terremoto strategico e gettato le basi della liquidazione definitiva, sia pure nel medio o lungo periodo, di un progetto sionista genocida che ha dimostrato a tutto il pianeta la totale illegittimità della propria esistenza.

Qualsiasi forma di giustificazione delle azioni di Israele dopo dodici mesi di atrocità contro la popolazione palestinese appare ormai insostenibile e solo negli ambienti più irriducibilmente filo-sionisti non è emerso ancora quanto meno il dubbio circa una risposta smisuratamente sproporzionata all’iniziativa militare di Hamas del 7 ottobre 2023. Chi fa parte ancora di questa minoranza continua oltretutto a ignorare gli elementi emersi nelle settimane e nei mesi successivi. Elementi che hanno smentito una versione ufficiale dei fatti costruita apposta per garantire al regime di Netanyahu la copertura politica necessaria a mettere in atto una strage con pochi precedenti nella storia recente.

Sono ore decisive per la situazione politica e militare tra Israele e l'Iran. Non c'è molto spazio per gli ottimismi: Netanyahu vuole la guerra e solo la sua estensione a tutta la regione, fino al Golfo Persico, può garantirli il consenso del quale ha bisogno per non veder cadere il suo governo e avviarsi verso un processo che finirebbe male per lui. Inoltre non può non raccogliere la sfida iraniana per non rendere nullo il consenso politico di cui gode in patria grazie alla guerra, che sembra essere avversa solo alle famiglie degli ostaggi, non alla popolazione nel suo complesso.

Da parte sua l’Iran non poteva e non può rimanere inerte davanti ai massacri di civili, alle invasioni e ai bombardamenti dei paesi sovrani che Tel Aviv esercita quotidianamente. Non poteva esimersi dal ristabilire una linea credibile di deterrenza, senza la quale le aggressioni israeliane continuerebbero impunite, mettendo a rischio la credibilità difensiva iraniana e il suo ordine politico interno. Insomma il terrorismo israeliano si appresta ad una nuova aggressione, ma l’Iran sembra in grado di limitare i danni e di reagire.

Come accade puntualmente ad ogni iniziativa di paesi o entità rivali, la propaganda occidentale e, nel caso del Medio Oriente, dello stato ebraico si è subito scatenata anche dopo l’attacco missilistico iraniano di martedì sera contro Israele. La falsificazione della realtà di questa operazione e del contesto in cui è avvenuta è fondamentale per tenere in piedi quel poco che resta della credibilità di Netanyahu e del suo regime genocida agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, ma anche per giustificare un’eventuale ritorsione che Tel Aviv ha peraltro già minacciato. Il massiccio lancio di missili da parte di Teheran è stato tuttavia legittimo alla luce dei numerosi atti di terrorismo di Israele e, oltretutto, è stato deciso solo dopo che la leadership della Repubblica Islamica aveva evidenziato una pazienza strategica decisamente sproporzionata rispetto alle provocazioni subite in questi mesi.

Con 88 voti a favore, 13 contrari e 20 astensioni, l'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa ha ritenuto ieri che il giornalista e fondatore di WikiLeaks Julian Assange sia un prigioniero politico. “L'Assemblea ritiene che le accuse sproporzionatamente gravi mosse dagli Stati Uniti contro Julian Assange ai sensi della legge sullo spionaggio, che lo espongono di fatto al rischio di ergastolo, (...) giustifichino la designazione di Assange come prigioniero politico”, si legge nel testo della risoluzione adottata dall'organismo.

Il testo della risoluzione denuncia gli Stati Uniti per l'uso improprio della legge sullo spionaggio del 1917 e chiede alle autorità del Paese di modificarla immediatamente in modo che “non venga applicata contro editori, giornalisti e informatori”, ma contro “l'intento doloso di danneggiare la sicurezza nazionale” dello Stato.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy