Con il 51,20% dei voti, Nicolás Maduro Moro ha vinto le elezioni presidenziali venezuelane e si è confermato alla guida del Paese. Una vittoria fondamentale per Caracas, molto importante per l'America Latina nel suo complesso e significativa per lo scenario internazionale. La destra, che vedeva insieme conservatori e reazionari ed era rappresentata da una figura dal passato criminale e dal presente opaco, ha comunque ottenuto un risultato significativo, frutto del combinato disposto di una cultura politica annessionista storicamente presente nel Paese e di anni di difficoltà economiche causate dall'embargo occidentale.

L'affluenza alle urne del 59% degli aventi diritto spiega bene l'importanza della posta in gioco e la totale incompatibilità delle proposte in campo: da un lato il percorso chavista e bolivariano del Paese, che ne garantisce l'indipendenza e la sovranità nazionale; dall'altro il rientro nell'orbita statunitense, che ne delinea la dipendenza strategica da Washington.

Uno degli innumerevoli arbitri che il governo USA commette, è quello, proprio della sua ossessione, di accusare Cuba di sostenere il terrorismo. Si potrà osservare che l'accusa ricorre contro tutti i Paesi che non sono suoi vassalli ma, nel caso di Cuba, l'affronto è ancor maggiore. Accusare Cuba di essere patrocinatore del terrorismo è un paradosso vero, un insulto alla logica, uno sfregio alla verità. Rivela piuttosto l’astrusità fattuale e la funzione esclusivamente politico-propagandistica delle liste elaborate da Washington, che nel disegnarne la strumentalità politica ne indica la totale inaffidabilità sotto il profilo giuridico.

Mentre il premier israeliano Netanyahu atterrava a Washington per incontrare i complici del genocidio, nella capitale cinese è stato annunciato un accordo potenzialmente decisivo tra le varie fazioni che rappresentano la popolazione palestinese. A mediarlo è stato il governo di Pechino, confermando il ruolo sempre più importante della Repubblica Popolare nello sforzo di stabilizzare la regione mediorientale. Nel concreto, l’evento andato in scena in Cina difficilmente produrrà risultati nel breve periodo, ma rappresenta senza dubbio l’emergere di una nuova piattaforma unitaria attorno alla quale i movimenti palestinesi – tradizionalmente attraversati da profonde divisioni – potranno coordinare una strategia contro l’occupazione, alternativa a quella senza prospettive offerta dall’Occidente e dai regimi arabi.

L’attacco israeliano contro il porto yemenita di Hodeidah nel fine settimana rischia di infiammare ancora di più il Medio Oriente e di imbrigliare definitivamente il regime sionista e il suo principale sponsor – il governo americano – in un pericoloso conflitto su vasta scala. Il bombardamento ha preso di mira strutture civili e commerciali, senza causare nessun danno dal punto di vista militare al governo guidato dal movimento Ansarallah (“Houthis”). L’iniziativa di Israele era stata decisa come ritorsione contro il clamoroso blitz portato a termine venerdì da un drone yemenita sulla capitale, Tel Aviv.

Il ritiro dalla corsa alla rielezione di Joe Biden è stato presentato come una decisione autonoma del presidente democratico una volta preso atto delle limitazioni dovute alle sue condizioni fisico-mentali e del clima sempre più sfavorevole all’interno del suo partito. In realtà, la rinuncia alla nomination è l’inevitabile risultato di un feroce scontro tra le varie fazioni del Partito Democratico e dell’apparato della “sicurezza nazionale” americano, esploso più o meno apertamente dopo il disastroso dibattito presidenziale dello scorso 27 giugno.

Chi sarà a rimpiazzare Biden alla guida del ticket democratico non è ancora del tutto certo. La vice-presidente, Kamala Harris, sembra la logica favorita e ha subito incassato l’appoggio ufficiale del suo superiore. Ci sono tuttavia alcune procedure previste dal partito che non consentono un semplice passaggio di consegne tramite una sorta di investitura presidenziale. In teoria, dovrebbero essere i delegati alla convention – prevista a Chicago dal 19 al 22 agosto – a decidere il nuovo candidato alla Casa Bianca, ma se anche la forma dovesse essere rispettata, i vertici democratici faranno di tutto per sottrarre il processo di selezione agli elettori e ai loro rappresentanti scelti durante le primarie.


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