Il fallimento della controffensiva delle forze armate ucraine ha accentuato le divisioni dentro l’apparato di potere americano e occidentale in genere, facendo emergere sempre più alla luce del sole le posizioni contrastanti circa l’appoggio da garantire al regime di Zelensky nel conflitto con la Russia. Queste divisioni stanno infatti trapelando sulla stampa ufficiale, per lo più sotto forma di “rivelazioni” che raccontano di malumori e accuse nei confronti della gestione delle operazioni sul campo da parte dei vertici militari ucraini.

Tra gli altri, New York Times e Wall Street Journal hanno pubblicato nei giorni scorsi due articoli molto simili allo scopo di veicolare l’irritazione crescente in determinati ambienti di Washington per l’andamento della guerra e l’assenza ormai di prospettive incoraggianti. L’ex analista della CIA e commentatore indipendente, Larry Johnson, ha spiegato dal suo blog che la “fuga di notizie” di intelligence e la loro pubblicazione sui media è sintomo di solito di disaccordi importanti in merito a questioni politiche o relative alla sicurezza nazionale. Quando invece vi è unità di vedute all’interno dei vari organi di governo, è improbabile che circolino sulla stampa notizie “riservate”.

Sotto la sigla BRICS, si è riunito a Johannesburg un consesso che, con i nuovi entrati - Iran, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Argentina, Eritrea ed Etiopia - dal 1 Gennaio del 2024 rappresenterà il 47% della popolazione mondiale e il 37% del PIL planetario. Se si pensa che alla sua nascita, nel 1995, rappresentava solo il 16,9 del PIL, che nel 2010 arrivò al 26,1, si capisce come l’incremento sia inversamente proporzionale a quello del G7, che è passato dal 66% del 1990 al 46% di oggi.

Un confronto che sarà sempre più impietoso per l’Occidente. Secondo il Presidente cinese, Xi Jinping, l’adesione di nuovi paesi “segna un nuovo punto di partenza”. C’è in effetti un dato che, più di ogni altro, suffraga le parole del leader cinese: con l’ingresso dei nuovi paesi, il blocco del Sud globale arriva a avere tra le sue fila i primi 9 produttori di idrocarburi del mondo, oltre il 61% della produzione; e quando si aggiungeranno altri paesi come Venezuela e Algeria, il dato sarà ancora più netto. Arriveranno ad irrobustire ulteriormente i BRICS anche giganti demografici come Indonesia e Pakistan, paesi di importanza strategica come Turchia, Tunisia e Algeria, di grande interesse geopolitico e valore ideologico come Nicaragua, Cuba e Venezuela.

Con grande sfoggio di foto e narrazioni a favor di propaganda, è stato siglato a Camp David, tra Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, quello che viene definito un accordo di “cooperazione trilaterale”. I media atlantisti lo definiscono “un duro monito alla Cina”, dimenticandosi però che essa non ha una politica aggressiva. C’è poi chi - come Pechino - la definisce una mini-Nato, e questo sembra più calzante, dato che i presupposti di partenza e le convenienze strategiche sono in linea con quanto visto nella fondazione della NATO nel 1949. Il copione non muta: così come la nascita della Nato fu un intento aggressivo verso l’allora Unione Sovietica, oggi la nuova alleanza del Pacifico riproduce lo stesso atteggiamento verso la Cina.

Stupisce e nello stesso tempo provoca ribrezzo la caparbietà autolesionista colla quale il gruppo dirigente ucraino creato a tavolino, foraggiato e diretto da NATO e Stati Uniti, si ostina nel rifiuto di prendere atto del fallimento delle sue vaneggiate controffensive, istigando il popolo ucraino a resistere fino all’ultimo, come se il nemico fosse alle porte di Kiev.

Non si tratta invece della conquista di Kiev, prospettiva mai prevista da Putin e dallo stato maggiore russo, ma di negoziare ponendo le basi della giusta pace che eviti ai contendenti, e soprattutto al popolo ucraino, ulteriori inutili sofferenze. In questa ottica risulta decisivo l’esaurimento della carne da cannone da buttare sul piatto della bilancia del massacro, mentre aumenta il numero dei disertori ed obiettori di coscienza, soprattutto sul lato ucraino del macello. A meno che, quindi, la follia guerrafondaia della NATO non giunga al punto da inviare truppe combattenti in gran numero, oltre a quelle da tempo già presenti sul terreno travestite da mercenari, la fine della guerra appare come l’unica opzione praticabile.

Tra minacce e tensioni, è scaduto l'ultimatum che l'ECOWAS aveva offerto al Niger. L'Occidente collettivo grida contro il "golpe" ma sostiene il presidente deposto Bazoum, che vinse le elezioni con una frode. Bazoum è uomo della Francia, poiché nel suo Paese ha sempre avuto a cuore gli interessi di Parigi e non quelli dei nigerini, reprimendo l'opposizione e ospitando persino le truppe francesi espulse dal Mali.

Il contagio ad altri Paesi della regione, Senegal in primis, è il timore più grande dell'Occidente, ed è per questo che l'Ecowas (Comunità economica dell'Africa occidentale), docile strumento africano della devozione occidentale, sembra finora decisa a preparare un intervento militare contro il Niger. Non si può certo far passare per una risposta democratica al rovesciamento di un governo eletto; piuttosto, è chiaro che è l'Occidente a stabilire quali colpi di Stato sono possibili e quali no, quali sostenere e quali combattere. Infatti, in Mali, come in Guinea, Burkina Faso e Niger, l'elemento distintivo delle rivolte militari è solo uno: hanno il sostegno delle rispettive popolazioni, il che rende il "colpo di Stato" un pronunciamento militare che accoglie le richieste popolari, che spazza via le élite a favore degli ultimi.


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