Sono tornate in queste ore a circolare in maniera insistente le voci di un possibile imminente accordo per un cessate il fuoco a Gaza. La partenza per Doha del numero uno del Mossad, David Barnea, ha rafforzato le speranze di molti per la fine del genocidio palestinese in tempi brevi. Nella capitale del Qatar è presente anche l’inviato di Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff, mentre l’amministrazione democratica americana uscente è tornata a chiedere pubblicamente al regime di Netanyahu di favorire l’implementazione di una tregua. È possibile quindi che si stia preparando una sospensione della strage nella striscia in concomitanza con l’insediamento del nuovo presidente repubblicano, ma tutti i segnali indicano che lo stop all’aggressione potrebbe essere solo temporanea, se non addirittura una trappola per Hamas.

Sbruffoneggiavano su insurrezioni popolari e militari venezuelane, ma sono riusciti solo a organizzare comizi deserti. La figuraccia a cui si sono esposti gli Stati Uniti e l'UE appoggiando le ridicole performance di González Urrutia e Corinna Machado evidenzia l’incapacità della Casa Bianca di leggere il contesto latinoamericano. Alla fine, hanno dovuto assistere impotenti alla mobilitazione popolare in difesa del processo politico e istituzionale del Venezuela. La presenza del Presidente del Nicaragua, Comandante Daniel Ortega, e del Presidente di Cuba, Miguel Díaz-Canel, trasudava sovranità e fratellanza, e l’immagine dei presidenti socialisti del continente ha inviato messaggi chiari e incisivi. In quella cornice, nel cuore di Caracas, si è ricordato a amici e nemici che l’unità latinoamericana si costruisce su contenuti e sentimenti, su posizionamenti tattici e strategici, sulla volontà di resistere e vincere, sulla pratica della difesa di un modello socialista di democrazia popolare e sull’abitudine a partecipare uniti alle sfide internazionali.

Il discredito dell’Autorità Palestinese (AP) in Cisgiordania, un territorio che controlla di fatto per Israele, sta toccando il punto più basso da circa un mese a questa parte dopo l’inizio di una campagna di polizia diretta non contro il regime di occupazione o lo strapotere dei coloni, ma contro la resistenza palestinese che minaccia il suo declinante potere. Al centro della repressione delle forze di sicurezza dell’AP c’è il campo profughi di Jenin e i militanti dell’omonimo Battaglione, molti dei quali appartenenti a formazioni rivali dell’Autorità, come Hamas e Jihad Islamica. Questo atteggiamento riflette una strategia ben precisa dell’organo guidato da Mahmoud Abbas (Abu Mazen), da ricondurre ai legami che intrattiene con Washington e Tel Aviv, ma rischia proprio per questo di trasformarsi in un boomerang, vista la rapida perdita dei consensi residui che esso determina tra la popolazione palestinese.

In queste ultime settimane che precedono l’insediamento formale di Trump alla Casa Bianca, a tenere banco nel dibattito politico americano e non solo continuano a essere le dichiarazioni del presidente eletto sull’ipotesi di annessione da parte degli Stati Uniti di territori di paesi sovrani; tutti, nessuno escluso, alleati di Washington. Parlando alla stampa nella giornata di martedì, Trump non solo non ha smentito le minacce precedenti, ma ha ribadito la disponibilità dell’amministrazione entrante a valutare anche l’uso della forza per far diventare territori americani a tutti gli effetti, tra gli altri, il canale di Panama e la Groenlandia. Dietro la solita arroganza verbale del tycoon di New York ci sono questioni vitali per il dominio globale del capitalismo americano e, per questa ragione, le uscite di Trump devono essere valutate con estrema attenzione.

Significativamente, le frasi sulle ipotesi di annessione si sono accompagnate a minacce a tutto campo nei confronti dei paesi europei della NATO, invitati ad aumentare drasticamente le spese militari, così come dell’Iran e dei suoi alleati in Medio Oriente dove, se non dovesse esserci un’accettazione della supremazia degli interessi di USA e Israele, verrà sostanzialmente scatenata una guerra su vasta scala. Trump è tornato anche a riferirsi al Canada come al “51esimo stato americano” all’indomani delle dimissioni del primo ministro, Justin Trudeau. Per il neo-presidente, che ha in seguito pubblicato una mappa dei territori di Stati Uniti e Canada sotto un’unica bandiera a stelle e strisce, sarebbe giunto il momento di “liberarsi della linea di confine creata artificialmente” tra i due paesi nordamericani.

Il primo ministro canadese Justin Trudeau, dimessosi ufficialmente dal suo incarico nella giornata di lunedì, è in qualche modo vittima, oltre che delle politiche implementate dai suoi governi nell’ultimo decennio, della rielezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Il rapido precipitare delle fortune del 53enne ex icona della galassia “liberal” occidentale può infatti essere ricondotto ai fermenti che stanno infiammando la classe politica canadese in preparazione di una possibile offensiva, in primo luogo sul fronte commerciale, della nuova amministrazione repubblicana oltre il confine meridionale. Il suo Partito Liberale dovrà ora trovare un nuovo leader in tempi brevi, ma nulla servirà a impedire la vittoria nelle molto probabili elezioni anticipate di un Partito Conservatore sempre più orientato verso l’estrema destra populista.


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