C’è una grande polemica politico-mediatica sulla richiesta di pene della Procura di Palermo verso il Ministro Matteo Salvini. I fatti sono noti, risalgono all’Agosto del 2019, quando nel ruolo di Ministro dell’Interno il beota padano impedì lo sbarco dei migranti raccolti alla deriva dalla motonave Open Arms, che chiese di poter attraccare in salvo nel porto di Lampedusa. Aveva a bordo 147 migranti raccolti in mare che avevano bisogno di assistenza e cure.
Con un decreto ad hoc Salvini proibì “l’ingresso, il transito e la sosta” nelle acque territoriali italiane per la Open Arms. Il decreto venne firmato anche da Toninelli (Ministro delle infrastrutture) e Trenta (ministro della Difesa), membri della delegazione pentastellata al governo. Va detto anche, però, che poi questi ultimi si rifiutarono di firmarne altri dopo l’intervento del TAR che annullò la validità del primo decreto.

Salvini impedì lo sbarco dei migranti causando innumerevoli problemi e mise a repentaglio la salute pubblica oltre che quella dei migranti stessi, generando una emergenza umanitaria per esclusive ragioni politiche. Il tentativo di difendere quello che era un operato indifendibile è stato sempre giustificato con la fantasiosa ricerca di cavilli di improponibili decreti. Gli si spiega – qui sta il difficile - che il codice di salvezza in mare prevede che quale che sia lo status della persona in mare essa va comunque salvata, aiutata e poi semmai, ove ricorrano le fattispecie indicate dalla legge, può essere trattenuta, identificata e persino sottoposta a provvedimenti giudiziari fino alla sua espulsione. Ma in nessun caso e per nessun motivo lo Stato può decidere di non intervenire per salvare persone in pericolo, perché l’omissione di soccorso – a terra come in mare – è reato e, nel caso specifico, non era motivata da inagibilità o impedimenti di forza maggiore ma da una precisa quanto spudoratamente cinica volontà politica. L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso obbligo degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare.

L’inchiesta di Fanpage sul fascismo che alberga in Fratelli d’Italia continua a produrre polemiche. L’inchiesta è una chicca giornalistica che dovrebbe fare scuola invece di scatenare critiche. Contestare le modalità di una inchiesta, quando questa non coinvolge minori, persone innocenti o luoghi estranei, quando i contenuti che emergono non vengono “aggiustati” politicamente ma espressi così come sono stati captati, esponendo fatti e parole senza omissioni, appare strumentale prima che infondato.

Venerdì scorso 24 maggio a Budapest la bella stagione era arrivata, ma il piacevole tepore che spinge la gente si tavolini di bar e ristoranti affollati, era turbato da lievi pioggerelline primaverili. Anche nell’aula 2 del Tribunale di Budapest faceva discretamente caldo. Per la prima volta Ilaria Salis ha potuto assistere al giudizio senza le consuete catene e l’arcigna guardia a vista delle teste di cuoio ungheresi. A oltre quindici mesi dal suo arresto, il processo è finalmente entrato nel vivo con l’escussione dei testimoni e la visione delle riprese delle telecamere relative all’aggressione.

Ho rivisto di recente su YouTube il film cult di George A. Romero, “La notte dei morti viventi”.  Quei personaggi orribili, i morti richiamati in vita da strane radiazioni, che si muovono come automi e sentono unicamente il richiamo del sangue e della carne umana, per procurarsi i quali si gettano in massa su qualunque persona viva si imbatta in loro, trasformandola a sua volta in uno zombie assetato di sangue, mi hanno ricordato, non so perché, gli attuali governanti europei che si apprestano alle elezioni e nel frattempo hanno deciso di preparare i cittadini all’inevitabile guerra contro la Russia, mentre continuano col loro sostanziale appoggio al regime genocida di Benjamin Netanyahu.

La vicenda di Ilaria Salis, la giovane maestra antifascista italiana detenuta da oltre un anno in Ungheria in condizioni indegne, è giunta a conoscenza dell’opinione pubblica italiana e internazionale solo alla fine dello scorso anno. Nel giro di poche settimane si è quindi raccolto un importante movimento di solidarietà che occorre ulteriormente estendere, tenendo presente qual è la posta in gioco.

Ilaria è tuttora ostaggio di un regime autoritario che si fa beffe dei fondamentali principi dello Stato di diritto, tra i quali primeggia quello dell’indipendenza della magistratura. Principi affermati a chiare lettere nell’art. 2 del Trattato sull’Unione Europea intitolato appunto ai valori che dovrebbero ispirare l’azione della UE. Non a caso l’Ungheria è da tempo sul banco degli imputati in tale consesso e l’accusa relativa all’assenza di indipendenza dei giudici costituisce un elemento fondamentale per dubitare del rispetto da parte del governo ungherese di tali valori, unitamente a numerose altre scelte fortemente discutibili dal punto di vista dei principio di uguaglianza, non discriminazione ed altri ancora.

Il regime di Orban che tiene prigioniera Ilaria Salis, è fortemente orientato a destra e si regge su di una coalizione di cui fanno parte forze apertamente fasciste che sicuramente hanno posto il destino della nostra connazionale come elemento determinante nel negoziato politico interno al paese magiaro. Ma non è questo l’unico elemento di deteriore mercanteggiamento politico retrostante al processo contro Ilaria. Ci sono altri retroscena, che conosciamo solo in parte, e che riguardano il posizionamento di Orban all’interno del Parlamento Europeo e dell’Unione Europea più in generale, tenendo presente il ruolo chiave esercitato proprio da Giorgia Meloni nel traghettare la destra ungherese, per quanto impresentabile, verso l’appoggio alla candidatura di Ursula von der Leyen al suo secondo mandato.

In tale ottica potrebbe del resto essere interpretato l’ammorbidimento delle riserve di Orban nei confronti del trasferimento di armi all’Ucraina che costituivano l’unico aspetto positivo della sua politica. L’esistenza di un negoziato politico avente per oggetto la sorte della nostra concittadina ha ricevuto ulteriore accredito dall’atteggiamento sorprendentemente rude assunto dal ministro degli esteri ungherese all’uscita del suo incontro col suo omologo italiano Tajani.

Il tutto in un contesto europeo che, proprio grazie a Von der Leyen & Co., ma anche al Pd e tanti altri, sta definitivamente smarrendo la discriminante antifascista che pure si situa innegabilmente nel cuore stesso dell’Europa moderna, come dimostrato proprio dalle obbrobriose risoluzioni che mettono sullo stesso piano fascismo e comunismo nel momento stesso in cui inondano di armi l’esercito ucraino e i suoi battaglioni Azov.

Né può sfuggire l’ulteriore decisivo elemento costituito dalla legittimità dell’apologia del fascismo e del nazismo, argomento sul quale abbiamo registrato in Italia pericolosi arretramenti anche dal punto di vista della giurisprudenza. E non va dimenticato che la presenza di Ilaria sul suolo ungherese era diretta proprio a contestare una delle più vergognose manifestazioni di tale apologia, e cioè il cosiddetto giorno dell’onore che si tiene ogni anno l’11 Febbraio a Budapest col beneplacito della coalizione di destra che governa il paese.

Per tutti i motivi detti si tratta di un processo fortemente politico, che può essere manovrato a proprio piacimento dalle autorità ungheresi che si avvalgono di una strumentazione normativa e processuale per nulla garantista, come dimostrato fra l’altro dal carattere monocratico del giudice e dall’esistenza di una fattispecie normativa assolutamente indefinita come quella denominata “lesioni suscettibili di provocare la morte”. Un’accusa folle ma che in virtù della quale su Ilaria grava una minaccia di condanna spropositata in relazione dell’entità del danno concretamente inflitto alle vittime dell’aggressione di cui si sarebbe resa responsabile (lesioni guarite in circa una settimana e il cui autore in Italia non sarebbe perseguibile in assenza di querela). L’unica lesione evidente appare quella delle garanzie processuali fondamentali relative alla concreta conoscibilità degli elementi di prova ed altro ancora.

Il 28 marzo si terrà nel tribunale di Budapest la seconda udienza del processo che dovrebbe avviare l’esame degli elementi di prova, in particolare l’escussione dei testimoni, comprese le vittime dell’aggressione, e lo svolgimento delle perizie, in particolare quelle antropometriche che potrebbero smentire l’assunto dell’accusa che ha identificato in Ilaria la persona ripresa dalle telecamere mentre compie l’aggressione. Ilaria si è dichiarata innocente nel corso della prima udienza che si è svolta il 29 gennaio scorso e occorre darle tutti gli strumenti processuali e di altro genere atti a dimostrare la sua innocenza. Dato però il rilevato carattere fortemente politico della vicenda, occorre che questa sacrosanta pretesa sia sorretta da un’adeguata mobilitazione democratica dentro l’aula giudiziaria ungherese e al di fuori di essa.

 

NdR: Fabio Marcelli sta seguendo il processo in presenza con la delegazione del Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia - Gruppo d’intervento giuridico internazionale (CRED-GIGI)


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