Da qualche settimana, governanti e rappresentanti delle istituzioni europee si divertono a raccontare favole sul gas. Dicono che stiamo lavorando per ridurre la dipendenza da quello russo, abbassando i consumi e trovando nuove forme di approvvigionamento. Peccato che nessuno abbia il coraggio di citare i veri numeri, né di raccontare la storia fino in fondo.

La guerra in Ucraina imporrà al governo italiano (e non solo) di rimettere mano al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il motivo principale riguarda la transizione energetica, uno dei pilastri su cui si fondano i Pnrr di tutti i Paesi. Alla luce dei nuovi rapporti con Mosca, Bruxelles sta mettendo a punto una strategia per ridurre la dipendenza europea dal gas e dal petrolio della Russia. Questo obiettivo avrà la precedenza rispetto alla tutela dell’ambiente e in alcuni casi potrebbe giustificare il ritorno temporaneo al carbone. È chiaro quindi che i Pnrr dovranno essere modificati, ricalibrando priorità, politiche e allocazione delle risorse.

L’improvvisa voglia di guerra della politica italiana rischia non solo di annullare la ripresa post-pandemia, ma anche di trascinare il Paese in una nuova crisi economica. E per cosa? Non c’entra nulla la difesa della democrazia ucraina, peraltro mai esistita. Sembra piuttosto che le ragioni dell’interventismo siano di natura personale.

Prendiamo i due politici nostrani che nelle ultime settimane hanno calcato in testa con più forza l’elmetto della Nato: Mario Draghi ed Enrico Letta. Del primo basta ricordare il discorso d’insediamento alle Camere: in quella sede, l’attuale Presidente del Consiglio rimarcò più di una volta la professione di fede atlantista dell’Italia, e ora sta semplice mantenendo le promesse. Come la quasi totalità dei suoi predecessori, il Capo del governo italiano si dimostra disponibile a sacrificare l’interesse dei suoi connazionali sull’altare dell’obbedienza a Washington. Del resto, in assenza di questa predisposizione non sarebbe mai arrivato a Palazzo Chigi.

Se dall’insieme dei partiti italiani rappresentati in Parlamento togliamo Lega e Fratelli d’Italia, quello che rimane può essere definito come “la non-sinistra che sa stare a tavola”. È una compagine litigiosa, fratturata da odi personali feroci, ma allo stesso tempo accomunata da due caratteristiche. Primo, nessuno si definisce di sinistra né di centrosinistra, parole scomparse anche dal vocabolario del Pd. Secondo, nessuno condivide i tratti più beceri della destra-destra: nazionalismo, razzismo, xenofobia.

Dopodiché, la non-sinistra che sa stare a tavola comprende due sottoinsiemi, ciascuno con i propri rituali. Il primo è quello dei minipartiti che hanno il cuore a destra, si definiscono riformisti, progressisti o repubblicani e, per farla breve, di solito vengono indicati come “centro”. Ossessionati dall’immagine del cantiere, sono sempre impegnati a costruire un nuovo polo che abbia come stella polare le riforme, non meglio precisate.

Il Movimento 5 Stelle ha presentato ricorso contro l’ordinanza con cui la settimana scorsa il Tribunale di Napoli ha sospeso vertici e statuto. Non era la strada indicata da Beppe Grillo, che avrebbe preferito una trafila più lunga: il primo passo doveva essere una votazione su Rousseau per eleggere il nuovo comitato di garanzia, che poi avrebbe modificato lo statuto permettendo, infine, l’elezione del nuovo presidente. Alla fine, però, ha prevalso la linea di Giuseppe Conte, deciso a imbarcarsi nella battaglia legale piuttosto che rischiare di impantanarsi in tanti, troppi passaggi burocratici.

Il ricorso poggia su un documento firmato dall’ex capo politico Luigi Di Maio e ripescato nella casella di posta elettronica dell’ex reggente Vito Crimi. Il messaggio risale al novembre del 2018 e contiene un verbale nel quale si afferma che alle successive votazioni online gli iscritti da almeno sei mesi non avrebbero potuto votare.


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