Mentre con la bocca parliamo di soluzione diplomatica, di cessate il fuoco e di pace “credibile”, con le mani continuiamo a mandare armi in Ucraina. Venerdì è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il terzo decreto interministeriale per spedire a Kiev “materiale bellico”, che stavolta sarà anche più pesante di quello inviato finora. Non più solo strumenti di difesa, quindi, con tanti saluti alla retorica della “guerra per la pace” diffusa dai media mainstream.

L’ipocrisia la fa davvero da padrona nel campo dei guerrafondai. Varie recenti esternazioni di costoro ne costituiscono una prova davvero evidente. Basti pensare allo sdegno del segretario del PD Enrico Letta di fronte a coloro che osano chiamare il conflitto in corso una “guerra per procura”. Secondo il segretario del PD si tratterebbe di una definizione “ignominiosa”, perché “i protagonisti sono gli ucraini, sono loro che stanno morendo e saranno loro a decidere se e a quali condizioni accettare una soluzione diplomatica”. Mentre non ci sono dubbi sul fatto che gli ucraini siano le principali vittime della guerra in corso - anche se ovviamente si tende a dimenticare sempre le popolazioni del Donbass, le quali possono dirsi ucraine fino a un certo punto - la seconda condizione enunciata da Letta corrisponde a un pio desiderio.

Qualcosa sta cambiando nel modo in cui i partiti italiani si approcciano alla guerra in Ucraina. L’entusiasmo bellicista della prima fase sembra affievolirsi, lasciando spazio a un pragmatismo fatto di maggiore cautela. Le ragioni sembrano due: l’evoluzione del conflitto, che sta entrando in una nuova fase, e l’approssimarsi degli appuntamenti elettorali, che obbligano la politica a tenere conto dell’opinione pubblica.

Sul primo fronte, dopo oltre due mesi di scontri, è chiaro che Kiev non sta più solamente cercando di respingere le truppe russe, ma porta avanti un conflitto tradizionale, fatto anche di contrattacchi. Le spedizioni di armi in Ucraina, quindi, non possono più essere presentate come un gesto di solidarietà nei confronti di un Paese che deve difendersi. Con il passare del tempo, i nostri interventi esterni (e ipocriti) prendono sempre più la forma di una dichiarazione di guerra alla Russia.

Estendere l’embargo al gas russo non vuol dire spegnere l’aria condizionata, ma chiudere impianti industriali e finire in recessione. Lo hanno spiegato i cinque maggiori istituti economici tedeschi - Ifw di Kiel, Ifo di Monaco, Diw di Berlino, Rwi di Essen e Iwh di Halle - presentando la settimana scorsa a Berlino le stime di primavera.

Secondo l’analisi, se la Germania interrompesse ad aprile le importazioni di gas dalla Russia, rinuncerebbe a 220 miliardi nel biennio 22-23, mettendo a rischio 400mila posti di lavoro. La crescita attesa per quest’anno - già scesa per la guerra al 2,7%, dal 4,8 previsto in autunno - si assottiglierebbe ancora all’1,9%. L’anno prossimo, invece, arriverebbe una “forte recessione”, con un calo del Pil pari al 2,2%: solo due mesi fa, la stima per il 2023 era di +3,1%.

Da qualche settimana, governanti e rappresentanti delle istituzioni europee si divertono a raccontare favole sul gas. Dicono che stiamo lavorando per ridurre la dipendenza da quello russo, abbassando i consumi e trovando nuove forme di approvvigionamento. Peccato che nessuno abbia il coraggio di citare i veri numeri, né di raccontare la storia fino in fondo.


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