La guerra in Ucraina ha prodotto una conseguenza inaspettata su Mario Draghi. Lo ha privato dell’unica caratteristica che tutti, amici e avversari, gli hanno sempre riconosciuto: un certo aplomb signorile e compassato, mezzo britannico e mezzo romano-gesuitico. Dopo sette mesi di conflitto, ormai, il nostro banchiere-premier si è trasformato in ultras atlantista più realista del re e più imperialista della Casa Bianca. Non perde occasione di proporre una visione manichea del mondo che a tratti sembra addirittura ingenua, infantile, in cui dalla parte sbagliata ci sono i russi cattivi e da quella giusta gli occidentali buoni. Con l’ovvio corollario che chiunque osi mettere in discussione questo schema così elementare viene etichettato come antidemocratico e connivente col nemico.

 

Questa impostazione ideologica - l’asservimento totale e incondizionato al volere degli Stati Uniti - non è di per sé una novità. La condividono in pieno il Pd e il Terzo Polo, che sono al tempo stesso i riferimenti di Draghi in Parlamento e gli eredi della Democrazia cristiana, il partito che in quarant’anni di governo ha trasformato il nostro Paese in un avamposto militare e politico di Washington.

Più che la sostanza, quindi, ciò che colpisce nelle ultime uscite pubbliche di Draghi è la forma, il tono. Che scegliesse la via della prostrazione al volere di Biden si poteva forse immaginare, ma che lo facesse con un fervore tanto acceso, per non dire sguaiato, è davvero sorprendente.    

Per prepararsi alla sua ultima conferenza stampa da Presidente del Consiglio, la settimana scorsa Draghi ha parlato al telefono con il segretario di Stato degli Usa, Antony Blinken, che deve aver svolto un ruolo simile a quello di un catechista. Meno di 24 ore dopo, infatti, il banchiere-premier si è consegnato ai giornalisti per un’ora e mezza, rispondendo a una ventina di domande. Il passaggio più significativo è stato quello sulle presunte interferenze russe nella politica italiana, di cui al momento non c’è prova alcuna nemmeno nelle carte dell’intelligence che Washington ha tirato fuori ad uso e consumo della campagna elettorale italiana.

Per adesso i sospetti sui finanziamenti illeciti rimangono congelati, in attesa di capire se e quando le informazioni secretate verranno declassificate, ma la mente di Draghi è già sgombra d’ogni incertezza. Dà per scontato che la penetrazione russa ci sia stata e abbia pesato, ma sottolinea anche che “la democrazia italiana è forte” e “non si fa battere dai nemici esterni e dai loro pupazzi prezzolati. È chiaro - prosegue - che negli ultimi anni la Russia ha effettuato un’opera sistematica di corruzione in tanti settori, dalla politica alla stampa, in Europa e negli Stati Uniti”.

Con queste frasi così crude e ineleganti, di fatto, Draghi porta ad altezze finora sconosciute il doppiopesismo degli ultras atlantisti. Di sicuro non se ne rende conto, né lo ammetterebbe mai, ma quello di cui accusa la Russia (peraltro senza prove, almeno finora) è esattamente quello che gli Stati Uniti hanno fatto per decenni con dozzine di Paesi in tutti i continenti. A cominciare dall’Italia, naturalmente, che ha sempre avuto un ruolo centrale nello scacchiere geostrategico degli Usa.

Solo che, quando lo fa Washinton, a nessuno viene in mente di chiamarla “corruzione”: sono finanziamenti legittimi e disinteressati, che guarda caso arrivano sempre nelle tasche giuste al momento giusto e sempre per via indiretta, attraverso fondazioni, associazioni, organizzazioni non governative e via elencando. Un po’ come quando la Nato bombardò la Serbia per tutelare il diritto del Kossovo all’autodeterminazione: finché lo fanno i buoni va tutto bene, no?

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