Armando Carrillo era andato a visitare il figlio Danny, detenuto nel carcere della contea di Nuces, Texas, dove doveva scontare tre settimane per violazione degli obblighi di assistenza familiare. Danny era agitato e le guardie lo avevano riportato in cella. Erano già le due di notte ma Carrillo faceva su e già fuori dal carcere in attesa di un avvocato che potesse aiutare Danny ad uscire su cauzione. Durante la visita il figlio gli aveva detto di aver paura che potessero ucciderlo.

Rudy Guede ha scontato dieci anni di carcere a Viterbo come unico colpevole  dell’omicidio di Meredith Kerker. Dieci anni fa, Amanda Knox fu assolta per lo stesso omicidio e si diede molto da fare per raccontare la storia a modo suo. Knox è appena diventata madre di una bambina dopo una gravidanza segreta per evitare che i giornalisti la rintracciassero. Adesso  gioisce di poter parlare finalmente della propria maternità. Teme solo che la bambina finisca sui  giornali.

Ci vogliamo provare a fare un abbozzo di (umile) analisi su razzismo e stadi? Ok, proviamoci. Senza particolari pretese socio-antropologiche né di fornire spiegazioni rassicuranti su un “fenomeno” in evidente espansione, ma con la chiara intenzione di dare un contributo a smascherare, per lo meno, il velo di ipocrisia che avvolge questo reiterata vergogna. Che servirebbe, forse, anche a trovare una soluzione, dopo innumerevoli episodi e altrettanta inutile indignazione.

Solo per attenerci alla cronaca più recente, riportiamo quanto accaduto a due calciatori, insultati a fine partita dagli spalti, non più gremiti ma ancora pieni di idiozia. Kalidou Koulibaly, perno insostituibile della difesa del Napoli, e Dusan Vlahovic, giovanissimo goleador della Fiorentina, venivano pesantemente fatti oggetto di ingiurie e cori offensivi: “negro di merda, scimmia”, “sei uno zingaro”.

Sto per licenziare un mucchio di righe. La cosa che almeno voglio dire è questa: che se avessi partecipato di una manifestazione nel corso della quale fosse avvenuto l’assalto alla Cgil, mi vergognerei come un ladro.

Prima dichiaro la mia personale posizione. Ho una fiducia che chiamerei pregiudiziale per i vaccini, se non si fondasse su una ingente esperienza clinica che mi ha inaspettatamente tenuto in vita finora. Essendo pressoché ottuagenario, dunque destinato a morire, qualunque sia il pretesto, di vecchiaia, merito certo una diffidenza: ho poco da perdere, e se provassi a stipulare un’assicurazione sulla vita dovrei versare una cifra esosa. Di fatto ho ridotto drasticamente il mio investimento su me stesso, futuro, vanità, ambizioni, dunque chi mi dicesse: “facile per te, che hai un piede nella fossa”, avrebbe buone ragioni. C’è una faccia opposta della medaglia. Quelli come me, mentre disinvestono dal proprio futuro, diventano tanto più attaccati al futuro altrui, di figli, nipoti, e intere generazioni a venire. Dunque l’obiezione è perlomeno parziale.

Gabrielle Petito e Brian Laundry si erano conosciuti al liceo e, come accade a volte, non si erano più lasciati. Finiti gli studi avevano deciso di vivere insieme e, nel 2019, s’erano imbarcati in un viaggio senza destinazione precisa e sarebbero stati via almeno quattro mesi. Il due luglio scorso erano saliti a bordo di un vecchio Ford Transit con l-intenzione di visitare i posti più scenografici degli Stati Uniti e realizzare un blog “on the road” scandendo le tappe con immagini accattivanti.


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