Rudy Guede ha scontato dieci anni di carcere a Viterbo come unico colpevole  dell’omicidio di Meredith Kerker. Dieci anni fa, Amanda Knox fu assolta per lo stesso omicidio e si diede molto da fare per raccontare la storia a modo suo. Knox è appena diventata madre di una bambina dopo una gravidanza segreta per evitare che i giornalisti la rintracciassero. Adesso  gioisce di poter parlare finalmente della propria maternità. Teme solo che la bambina finisca sui  giornali.

Ci vogliamo provare a fare un abbozzo di (umile) analisi su razzismo e stadi? Ok, proviamoci. Senza particolari pretese socio-antropologiche né di fornire spiegazioni rassicuranti su un “fenomeno” in evidente espansione, ma con la chiara intenzione di dare un contributo a smascherare, per lo meno, il velo di ipocrisia che avvolge questo reiterata vergogna. Che servirebbe, forse, anche a trovare una soluzione, dopo innumerevoli episodi e altrettanta inutile indignazione.

Solo per attenerci alla cronaca più recente, riportiamo quanto accaduto a due calciatori, insultati a fine partita dagli spalti, non più gremiti ma ancora pieni di idiozia. Kalidou Koulibaly, perno insostituibile della difesa del Napoli, e Dusan Vlahovic, giovanissimo goleador della Fiorentina, venivano pesantemente fatti oggetto di ingiurie e cori offensivi: “negro di merda, scimmia”, “sei uno zingaro”.

Sto per licenziare un mucchio di righe. La cosa che almeno voglio dire è questa: che se avessi partecipato di una manifestazione nel corso della quale fosse avvenuto l’assalto alla Cgil, mi vergognerei come un ladro.

Prima dichiaro la mia personale posizione. Ho una fiducia che chiamerei pregiudiziale per i vaccini, se non si fondasse su una ingente esperienza clinica che mi ha inaspettatamente tenuto in vita finora. Essendo pressoché ottuagenario, dunque destinato a morire, qualunque sia il pretesto, di vecchiaia, merito certo una diffidenza: ho poco da perdere, e se provassi a stipulare un’assicurazione sulla vita dovrei versare una cifra esosa. Di fatto ho ridotto drasticamente il mio investimento su me stesso, futuro, vanità, ambizioni, dunque chi mi dicesse: “facile per te, che hai un piede nella fossa”, avrebbe buone ragioni. C’è una faccia opposta della medaglia. Quelli come me, mentre disinvestono dal proprio futuro, diventano tanto più attaccati al futuro altrui, di figli, nipoti, e intere generazioni a venire. Dunque l’obiezione è perlomeno parziale.

Gabrielle Petito e Brian Laundry si erano conosciuti al liceo e, come accade a volte, non si erano più lasciati. Finiti gli studi avevano deciso di vivere insieme e, nel 2019, s’erano imbarcati in un viaggio senza destinazione precisa e sarebbero stati via almeno quattro mesi. Il due luglio scorso erano saliti a bordo di un vecchio Ford Transit con l-intenzione di visitare i posti più scenografici degli Stati Uniti e realizzare un blog “on the road” scandendo le tappe con immagini accattivanti.

L’intera vicenda della GKN, il polo industriale di Campi Bisenzio che si occupa di componenti per il settore automobilistico e aerospaziale, è una rappresentazione tragica e realistica del mondo del lavoro nel suo insieme. Un affresco lugubre del capitalismo del terzo millennio e all’epoca della pandemia; ne raffigura la tradizionale attitudine predatoria e il suo tempestivo aggiornamento a una delle più drammatiche emergenze che l’umanità abbia patito.

Tuttavia, la mobilitazione sviluppatasi immediatamente dopo l’arrivo delle “famose” lettere di licenziamento, suggerisce spunti e riflessioni dalle quali non si dovrebbe trascendere. Almeno per quella parte di società che ha a cuore la sorte non solo di un impianto produttivo, ma la dignità di ogni lavoratore e di ogni lavoratrice. Ci obbliga dunque, a scavare nella dimensione paradigmatica di un evento dalle molteplici implicazioni, per la robustezza della sua rivelazione, il presidio permanente ai cancelli della fabbrica, e per la modalità immateriale che l’ha determinato: una mail secca e stringata che comunicava la fine del rapporto di lavoro.

Verrebbe da dire, se non risuonasse di amara ironia, che tutto ciò sia il marchio di fabbrica del neoliberismo. Corpi ritenuti essenziali fino a un attimo prima che la spietatezza della disintermediazione li spazzasse via. Dai macchinari ma non dalle piazze, e non per una oggettiva e irreversibile crisi economica, ma per delocalizzare.

I licenziamenti alla GKN parlano chiaro, anche a quella pseudo-sinistra che ha accolto a braccia aperte la fantasmagoria della modernità. Che ha spacciato le rinnovate forme di colonialismo per esigenze di mercato, per incrementare gli investimenti. Per lo più stranieri, a opera di potenti corporation che sovrastano e aggirano facilmente le (ormai poche e deboli) norme che regolano e tutelano i diritti di chi lavora. Pertanto, a poco serve l’indignazione per le multinazionali se poi le politiche nazionali sul lavoro ne consentono lo strapotere. Le lacrime di coccodrillo, se possibile, indignano ancora di più.

La formula risolutiva utilizzata dalla dirigenza aziendale, in questo caso, ha scoperchiato un vaso di Pandora di cui l’emergenza pandemica è solo un alibi. Non a caso, una volta terminato il blocco dei licenziamenti imposto dallo stato di emergenza, l’emergenza di uno Stato sostanzialmente favorevole alla deregolamentazione del lavoro salariato, è venuta allo scoperto. Gli effetti del Jobs Act, con l’annichilimento dell’Art. 18, si prolungano e si consolidano nel tempo di pari passo con la digitalizzazione dei processi produttivi nonché della quasi totalità delle attività sociali. Che riproducono, in larga maggioranza, le dinamiche principali del sistema capitalistico di produzione. Ad aumentarne l’efficacia, come se ne avesse bisogno, è intervenuta una drastica metamorfosi delle relazioni umane, simile a un vero e proprio collasso, causata dal virus che ha anticipato di dieci anni quanto stiamo vedendo in questi mesi; il dominio digitale.

A questa “novità”, insediatasi bruscamente nelle nostre esistenze con una velocità mai riscontrata in tutti gli altri imprescindibili cambiamenti avvenuti nel corso della Storia, non sono sfuggite neanche le relazioni di Potere. Politico, industriale, culturale. Basti pensare all’aumento esponenziale di fattorini, alle dipendenze di aziende “fantasma”, e dello smartworking, variante lavorativa sia del pubblico impiego che del privato. Entrambi, sebbene divisi da enormi differenze nella esecuzione delle proprie mansioni, sono accomunati da uno stesso principio regolatore, ovverosia la efficacia della connessione. Non tra esseri umani, tra lavoratori o finanche tra consumatori, ma tra un server e un dispositivo finale che ne detta tempi e regole.

L’epidemia ha accelerato un processo già in corso, e forse irreversibile già da prima della sua terribile propagazione, sintetizzato nell’emblematico exploit di Amazon. Al punto che è del tutto lecito affermare, per quel che riguarda l’organizzazione gerarchica del lavoro secondo una concezione proto-capitalista, che Jeff Bezos sta agli anni Duemila come Henry Ford sta al XX secolo. Il fondatore e proprietario della più grande impresa di e-commerce, è diventato anche un guru delle trasformazioni sociali alla stregua della rivoluzione antropologica degli anni sessanta e settanta, quella dei consumi, così minuziosamente e predittivamente raccontata da Pier Paolo Pasolini.

Nello sconfinamento di aziende sovranazionali e nell’abbattimento di frontiere legate a orari e loro suddivisione nell’arco della giornata, visto che la Rete agisce H24 e simultaneamente nei cinque continenti, rientra anche la irresistibile avanzata dei social network. In realtà, una vera e propria offensiva, nella quale è rimasta prigioniera gran parte della informazione. Quella, per intenderci, classica, della carta stampata e delle radio-tv. Di per sé non assiomaticamente cristallina e del tutto affidabile.

Ciò che però ora si vuole focalizzare è come la tecnologia non sia stata utilizzata per accrescerne potenza e diffusione, o solo in pochissimi casi, quanto per competere con la istantanea efficacia di un mondo costantemente online. I media hanno finito spesso per assimilarsi al “fenomeno” social assecondandone assurdità o, peggio, evidenti velleità eversive. Tentativi di golpe in più paesi dell’America Latina, tanto per fare degli esempi espliciti e recenti, sono passati anche per l’uso sistematico e scientifico dei social network. E per la disinvoltura con cui piccole e grandi testate giornalistiche ne hanno accettato l’autenticità e, soprattutto, la legittimità, scambiando trame golpiste per deficit di democrazia.

Molto probabilmente, il ruolo subalterno e rinunciatario della maggior parte dei mass media, riflette una delle crisi più profonde della rappresentatività politica, in Occidente ma non solo, dalla nascita degli Stati moderni. La dissoluzione dei grandi partiti di riferimento che hanno caratterizzato, nel bene e nel male, il Novecento, ha comportato il successo di movimenti e personaggi che godono del consenso di un elettorato liquido cresciuto tra Zuckerberg e post-verità. D’altro canto, queste ultime sono sempre esistite, non sono certo una esclusiva del web. Il web ne ha permesso l’accreditamento senza bisogno di contraddittorio, riducendo il confronto alla univocità delle stanze virtuali, dove falsità e negazionismi si autoalimentano fino a guadagnarsi spazio e “simpatie” nella vita reale. L’esempio della galassia NoVax ne è una inquietante testimonianza.

L’algoritmo dunque si impadronisce della scena grazie anche al dissolversi dei corpi; in carne e ossa come della mediazione. Nel nostro paese, il susseguirsi in questi ultimi anni di governi nati da maggioranze esigue formate da partiti in aperta ostilità fino a un attimo prima della chiusura delle urne, ha causato anche l’abbandono di realtà produttive in balìa dei capricci della Borsa. Operai e operaie, della GKN come della Whirlpool, solo per citare i casi più eclatanti e che hanno conosciuto la ribalta della cronaca, hanno (anche) il merito di aver ricordato a tutti che esistono e che la nostra è ancora una società classista. Lavoratori e lavoratrici esistono anche quando non muoiono, precipitando da una impalcatura o stritolate da un macchinario.

Mentre le nostre vite si dispiegano sempre più lungo le strade del virtuale, nel mondo reale ci sono sempre più vittime del lavoro. Un bollettino di una guerra mai dichiarata, mai interrotta. Pertanto, in seno a uno sfilacciamento del tessuto sociale, anch’esso antecedente alla pandemia che comunque lo ha reso ineludibile, e a una classe politica per alcuni versi del tutto distaccata dalle reali esigenze di fasce consistenti della popolazione, la “costituzione” di Confindustria come partito, appare logica e naturale. L’attuale esecutivo, capitanato da Mario Draghi, evidenzia la resa della politica a favore del tecnocrate, accolto come salvatore della Patria. Dalla fabbrica occupata e presidiata di Campi Bisenzio, giungono segnali inequivocabili di resistenza. Lezioni operaie di cui spetta a noi valorizzarne l’apprendimento, possibilmente non in DAD.


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