di Rosa Ana De Santis

La Giunta per le autorizzazioni della Camera ha votato, come previsto, per respingere la richiesta di arresto avanzata nei confronti di Marco Milanese dalla Procura di Napoli. Fondamentale la posizione del Carroccio, annunciata già alla vigilia del voto, in barba alla libertà di coscienza su cui Bossi dovrebbe dare il licet conclusivo. Contrari in 11 e a favore 10: così si è per ora salvato il braccio destro di Tremonti, il cui arresto avrebbe certamente comportato, in questa delicatissima fase dell’esecutivo, l’ennesimo contraccolpo.

Ma i giochi non sono conclusi e l’aula si esprimerà il 22 settembre sul voto della Giunta. Il dibattito si annuncia già infuocato, con i centristi che dichiarano voto secondo coscienza e il Pd che chiede il voto palese, insieme anche all’Udc, per restituire all’elettorato tutta la verità dell’ennesimo fattaccio giudiziario che inquina le Istituzioni e questo governo in modo particolare.

La comunicazione del governo continua ad essere tutta incentrata sul tema del “fumus persecutionis” e del massacro mediatico. Un po’ pochino. Le accuse pesantissime di corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio, associazione a delinquere, opera di rallentamento delle indagini della Guardia di Finanza sugli affari  loschi delle assicurazioni internazionali, rivelazioni sulla condotta del Generale Adinolfi e i suoi avvisi sulle indagini in corso, sembrano inchiodare il consigliere numero uno del Ministro dell’Economia.

Proseguiranno le interviste di Tremonti per discolparsi della propria ingenuità e della “stupidata” commessa nell’abitare in una casa pagata da Angelo Proietti, titolare di società Edil Ars, uno dei tanti giri di Milanese, ma la sensazione è che sia tutto ininfluente. La questione è ormai tutta politica.

Questa mattina Bossi, durante la solita colazione a Via Giolitti, ai cronisti ha detto che “non gli piace mandare in galera la gente” e che “l’arresto gli pare una forzatura”. Il partito che nella maggioranza vorrebbe rappresentare la voce più popolare e più legata al territorio del Pdl in questo voto gioca una partita importante di fronte ai propri elettori. E il caso Milanese è, aldilà dell’epilogo giudiziario in aula, un colpo alla compattezza della maggioranza che non sarà indolore. Il voto è insieme un voto e un veto su Tremonti e la partita dipende, ancora una volta, dal Cavaliere.

di Rosa Ana De Santis

Un evidente caso di legittimo impedimento o una fuga, ma Berlusconi martedi sarà in Europa. Prima a Bruxelles per incontrare il Presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, poi a Stasburgo per un colloquio con il presidente della commissione Ue José Manuel Barroso. Salta quindi l’udienza fissata dalla procura di Napoli sulla presunta rete di ricatti ed estorsioni di Tarantini e Lavitola ai danni del premier, ma il capo della Procura Giovandomenico Lepore annuncia che sarà fissata presto una nuova data.

Ancora una volta, dunque, Berlusconi decide di sottrarsi ai pm, dopo aver denunciato la “solita macchina del fango”. Nelle ore dell’ennesimo caso scottante sul capo del governo, si è fatta persino strada, accanto all’opposizione tradizionale del Pd e all’invito di Bersani alle dimissioni, la tesi bizzarra di Buttiglione e dell’Udc. Dimissioni in cambio di salvacondotto, ovvero di una chiusura (non si capisce bene come) dei processi penali a suo carico.

Il tono caritatevole, utilizzato nell’offerta del presidente Udc al Premier, non soltanto restituisce una foto impietosa della giustizia italiana, ma lascia alla storia del paese un precedente legale (anzi illegale) pesantissimo, incoerente con quel principio di eguaglianza scritto nella Costituzione e finora ribadito senza tregua di fronte ai tentativi del governo di svuotarlo di senso; ma soprattutto legittima, in nome di un incarico politico, l’impunità per uno e uno solo.

Non si sa a nome di chi Buttiglione parli, molti l’hanno interpretata come una provocazione. E’ vero che da molto tempo, nel Palazzo e fuori, si parla di un ipotetico patto che il Premier potrebbe sottoscrivere che prevedrebbe la sua uscita di scena in cambio di una sanatoria generalizzata dei procedimenti a suo carico. Altre versioni, alle quali si associano sussurri del suo stesso entourage, riportano invece d’improbabili salvacondotti di tipo politico-istituzionale (vedi Quirinale). Ma qui saremmo alla fantascienza.

Molti hanno polemizzato duramente con la proposta dell’Udc, i dipietristi confidano appunto in una provocazione a sorpresa. Certo è che l’Italia liberata da Berlusconi inaugurerebbe una nuova fase della sua storia, ma liberata in questo modo trascinerebbe con sé più ombre di quelle che lascerebbe alla storia personale del Cavaliere, con un’ipoteca sul futuro le cui conseguenze sono difficili da prevedere.

Se Buttiglione voleva rimproverare alla sinistra di aver cavalcato troppo (e vanamente) la via giudiziaria alla spallata del governo, non può ignorare che dispensare un capo di governo dalle proprie responsabilità pubbliche non sarà indolore per la vita delle Istituzioni. Sorprende che sia proprio un paladino della moralità della politica a nobilitare l’indecenza pubblica e l’illegalità, che è materia ben diversa dalle abitudini sessuali di Berlusconi e dalla sua vita privata, argomenti che peraltro (vale la pena ricordare) interessano molto l’Udc quando si parla dei comuni cittadini e molto meno quando si parla di loro (vedi i divorzi di Casini o la vivace vita sessuale del deputato Mele).

Vero è che l’Udc lavora alacremente per un berlusconismo senza Berlusconi. Il tentativo di costruire un nuovo asse politico che, benedetto da Oltretevere, tenga dentro forzitalioti, democristiani di antico e nuovo corso, magari con alla testa un nuovo imprenditore o banchiere, ha certamente come presupposto l’uscita del cavaliere, come che sia. Insomma: con qualche decennio di ritardo, riecco spuntare il fattore K.

Ma non si tratta di opporsi a quest’ipotesi in nome della tattica politica. La tesi di Buttiglione è più grave per ciò che rischia di portare dopo Berlusconi. La normalizzazione di un Parlamento pieno zeppo d’indagati e condannati? Infatti: in nome di cosa la solidarietà dovrebbe valere solo per il Premier? Un tirannicidio concesso non è tale né autentico; è soltanto una somma azione d’ingiustizia e di immoralità. Davvero si può essere così ingenui da pensare che dispensato l’uomo, si risolleva un paese intero?

L’Udc utilizza lo stesso strumento della giustizia inseguito dal Pd, solo lo fa annullandolo. E proprio mentre lo vorrebbe annullare, ecco che lo ammette, cadendo nello stesso vizio di forma degli “anti Cav”. Lo ammette, pur se con l’eccezione. Che è però eccezione di legge e moralità. Ma è proprio ciò che non si può concedere. Soprattutto perché è solo la legge ciò che ci può salvare dagli abusi dell’uomo che si vorrebbe proteggere e anche dai moralisti. Tutti quelli che mentre lanciano strali di condanna, partecipano o vorrebbero partecipare agli stessi baccanali e conducono le prove generali di quando saranno loro i nuovi rais. Tutto più facile in un paese che perde pezzi di Costituzione e di storia. 

di Mariavittoria Orsolato

Lo scorso martedì sono scaduti i termini per la presentazione delle domande di partecipazione all’ultima delle aste per l’assegnazione delle rimanenti frequenze del digitale terrestre: una ghiotta occasione per provare a rimpinguare le miserrime casse statali (in potenza), l’ennesima truffa ai danni dei cittadini e dello Stato (in atto). A differenza dell’asta che si sta svolgendo per le frequenze del dividendo digitale esterno, dove Telecom Italia, Vodafone, Wind e H3G hanno già messo sul piatto 2,3 miliardi di euro, quella per le frequenze televisive non è a pagamento. Ma andiamo per ordine.

Poco meno di quattro mesi fa l’esecutivo aveva approntato il regolamento di gara per l’assegnazione dei cinque nuovi multiplex  - ovvero le ambite megafrequenze digitali che possono trasportare fino a sei diversi canali - e di uno slot D-VBH, necessario alle trasmissioni rivolte ai dispositivi portatili come i cellulari o i tablet. Come prontamente segnalato da Il Fatto Quotidiano, il testo licenziato dal Ministero per lo Sviluppo Economico e sottoscritto dall’Agcom, più che favorire il pluralismo e l’ingresso di nuovi soggetti all’interno del mercato televisivo era tutto sbilanciato a favore di Rai e Mediaset che, partecipando a due gare su tre, avrebbero avuto gioco facile nell’accaparrarsi le fette di torta migliori.

Il meccanismo era quello di evitare una normale gara per prendere invece la strada del beauty-contest, un processo di assegnazione che prevede una graduatoria tra i concorrenti in base a tutta una serie di requisiti tecnici e commerciali, come il numero di dipendenti o il possesso di infrastrutture e impianti di trasmissione. Il perché dell’assegnazione gratuita risiedeva invece nel fatto che le frequenze in questione erano già di alcune società televisive (indovinate quali) che, una volta pungolate dall’Unione Europea, avevano restituito il maltolto mettendo così lo Stato in grado di cederle ad altri operatori televisivi.

Peccato che da Bruxelles si siano dimenticati di specificare che in ogni altro paese dell’Unione le frequenze sono un bene pubblico e il loro utilizzo viene sempre pagato dalle aziende che le usano. In un momento in cui ai cittadini viene chiesto di versare lacrime e sangue e i servizi vengono ridotti ai minimi termini, decidere di regalare due miliardi di euro - queste le previsioni di introito - è certamente tafazziano, almeno per la finanza pubblica. Nel 2001 l’ultimo governo Amato riuscì infatti a incassare quasi 14 miliardi di euro vendendo, sempre agli operatori delle telecomunicazioni, la banda per implementare i servizi UMTS; ma per Berlusconi e il suo Biscione è naturale fare le dovute eccezioni.

All’interno dell’opposizione si erano (fortunatamente) levate voci di dissenso e due senatori del Pd, Vincenzo Vita e Luigi Zanda, avevano approntato un emendamento alla manovra in discussione, proprio per abolire il meccanismo del beauty-contest e indire un’asta competitiva per l’assegnazione delle frequenze. Il testo, condiviso anche da Italia dei valori e Terzo polo è stato però bocciato per un solo voto lo scorso lunedì in commissione bilancio al Senato ed ora è ufficiale che lo Stato non guadagnerà un euro dal tanto celebrato digital divide.

Purtroppo però non è tutto. Nel testo che il ministro Paolo Romani ha licenziato e spedito a Bruxelles non c’era traccia della voce riguardante il disciplinare di gara, ovvero tutta quella serie di garanzie di trasparenza in grado di fare la differenza all’interno di un bando gratuito: dalla nomina della commissione esaminatrice all’advisor, dal numero di concorrenti ammessi fino all’individuazione delle frequenze da mettere a gara. Proprio in questo escamotage è possibile individuare quella che sarà l’assoluta discrezionalità del ministero tenuto ad interim da Berlusconi fino allo scorso 4 ottobre.

Stando infatti a quanto affermano gli operatori minori, le frequenze destinate a Rai e Mediaset vengono considerate le migliori, in quanto coprono l’intero territorio nazionale e non risentirebbero di interferenze. Dalla divisione in lotti delle frequenze da assegnare, ai meccanismi per racimolare i punti preziosi per scalare la graduatoria, fino alla scelta del beauty-contest al posto di un’asta competitiva, tutto è organizzato affinché Rai e Mediaset tornino a casa con un multiplex in più rispetto a quelli che già posseggono. Con buona pace dei nuovi soggetti che vorrebbero entrare nel mercato televisivo italiano e che molto probabilmente rimarranno senza una frequenza dove trasmettere i propri programmi.

L’unica realtà in grado di giocarsela alla pari con il duopolio Rai-Set, sia per quanto riguarda l’offerta culturale che come infrastruttura tecnica, è sicuramente Sky Italia. Contro la tv di Tom Mockridge, il ministro Romani aveva ingaggiato una battaglia legale per tenerla fuori dalla partita e c’è voluto un intervento del consiglio di Stato - che lo scorso 10 febbraio ha bollato come “manipolativo” il comportamento dell’esecutivo - per riammettere la televisione satellitare alla corsa per l’assegnazione di un segnale digitale.

Telecom Italia Media, il network che fa capo a La7 e Mtv, aspetta invece il pronunciamento del Tar del Lazio. Lo scorso 8 agosto la società ha infatti impugnato il bando di gara redatto dal Ministero su indicazioni dell’Agcom, reiterando il ricorso presentato la prima volta nell’ottobre 2009: nel merito, si contestava l’equiparazione di TI Media a Rai e Mediaset e si chiedeva un risarcimento di 240 milioni di euro per i mancati introiti derivati dalla perdita delle frequenze.

Difficile infine stabilire i tempi per l’assegnazione dei multiplex, che non potranno essere venduti a terzi per cinque anni dalla data dello switch-off digitale: le procedure per la nomina della Commissione giudicante sono ancora in corso e anche per quanto riguarda chi ricoprirà il ruolo di advisor non ci sono indizi certi. L’unica cosa certa in questa complicata faccenda è che gli italiani, al solito, devono mettersi da parte di fronte agli interessi del cittadino Berlusconi.

 

di Rosa Ana De Santis

La chiamano “Ruby2” la vicenda che inchioda nuovamente il Presidente del Consiglio alle pagine più squallide del gossip e del sesso a pagamento. Tarantini e consorte in carcere, da un lato, e Valter Lavitola, ex direttore dell’Avanti, trattenuto a Sofia da affari con Finmeccanica - come recitano le fonti ufficiali - sono i vertici di un triangolo di estorsione e ricatti. Tra le telefonate intercettate, oltre alle chiacchiere sulle consumazioni carnali e il carnet delle prestazioni, c’è qualcosa di più piccante ancora.

Ad un Lavitola angosciato che vorrebbe chiarire la sua posizione nell’inchiesta avviata dai pm napoletani, Berlusconi avrebbe risposto, in una conversazione del 24 agosto scorso, di rimanere in Bulgaria e di non tornare in Italia: “Resta dove sei”, consiglia il Premier.

E’ arrivata immediatamente la reazione di Ghedini. Una telefonata tutta da verificare, una frase non completa, un premier che semplicemente dimostrerebbe la propria estraneità alla vicenda. Ci pensa Cicchitto, capogruppo del Pdl alla Camera, a smontare la smentita, riproponendo la tesi delle vicende private e il tormentone, quasi divertente, del Grande Fratello dei giudici che controllano la vita personale del premier.

Difficile, questa volta forse più del solito, argomentare la tesi della vita personale del capo di governo come ininfluente sulla credibilità istituzionale. Qui c’è un oltraggio ulteriore e sfacciato. Abbiamo a che fare con un uomo che, venuto a conoscenza di essere indagato dalla procura di Napoli, chiede consiglio al capo del nostro governo (già difficile da capire questa prossimità di contatto e relazione se c’è estraneità) e riceve la benedizione a rimanersene nascosto, a proseguire da latitante per mettere a tacere quel mondo di estorsione in cui Berlusconi sta affondando. Dietro ai suoi vizi indomabili, tra le locuste come il fedele Fede o i faccendieri alla Tarantini e Lavitola.

Una sorta di replay del consiglio dato tempo addietro a Ruby, quello di definirsi la nipote di Mubarak? La sensazione è che questo sia indifendibile anche per quei compari del Pdl che finora si sono prestati alle giustificazioni più basse. Ci ha pensato per ora il PD a chiedere una smentita e un intervento del Capo dello Stato. Un capo di governo che consiglia un latitante su come evitare la legge è l’apice della storia politica di Berlusconi e del paese che l’ha votato. Forse non il fatto più grave, ma certamente il più insultante, ammesso che sia possibile stilare una classifica delle nefandezze cui ci ha abituati il cavaliere.

Uno schiaffo dato a un paese che, in un’altra amena conversazione privata, direbbe Cicchitto, Berlusconi aveva definito di “merda”. I tempi degli spot patinati, quelli televisivi e quelli a Palazzo Chigi, finti, ma almeno decenti, sono passati. Questo è tutto il peggio dei reality.

 

 

di Rosa Ana De Santis

La protesta invade tutto il paese e i numeri ne sono la testimonianza. Ventimila manifestanti a Roma, 10.000 a Milano ed altrettanti a Bologna: 5.000 a Napoli e a Firenze, 2.000 a Torino, 1.000 a Lecce. Nelle piazze dell’Emilia-Romagna si è arrivati a 120 mila persone. Adesione media allo sciopero del 58%: è indubbiamente la Cgil la madrina dell’indignazione.

Il corteo dei sindacati di base si è invece trasformato in un presidio permanente a Piazza Navona. Il discorso conclusivo del segretario Cgil, Camusso, ha colpito duramente i cugini “Cisl e Uil”, il Ministro Sacconi e ha condannato in modo particolare l’articolo 8 della manovra che cancella di fatto l’art.18 e lo Statuto dei lavoratori,  che prevede la licenziabilità in deroga ai contratti nazionali se c'è intesa con le organizzazioni sindacali aziendali.

In tempo di crisi anche la scelta dello sciopero diventa difficile, ma rinunciarvi, come i sindacati governativi (Bonanni lo aveva definito “demenziale”) e l’Udc avevano suggerito, equivale ad abdicare completamente alla difesa dei propri diritti, dandoli in pasto ad una manovra che ci mette in coda a tutta l’Europa e che colpisce proprio il mondo del lavoro.

La presenza massiccia dei lavoratori della “conoscenza”, di tante famiglie comuni, di giovani, operai e stranieri, esprime con forza un disagio che è oltre la conflittualità politica che mai invece, come nella giornata dello sciopero generale, si percepiva distante. La sensazione diffusa è quella di una stanchezza ormai cronica della società ad una crisi che è stata prima negata e poi scaricata sulle spalle del mondo del lavoro, iniziando con un modello FIAT che, dalla piazza di Palermo, il segretario della FIOM Landini continua a denunciare come l’inganno di tutta la filosofia di questa manovra.

L’irresponsabilità del governo di fronte all’impoverimento del Paese, la cassa estorta dalle pensioni, dal soffocamento dei diritti dei giovani e non dai privilegi, è l’apice di un esecutivo che ha dei piani chiari, ma che non ha più consenso popolare. La manovra che cambia di giorno in giorno ha peraltro mostrato gli altarini delle divisioni interne alla maggioranza, lasciando alla Lega, pensa un po’, il compito di far finta di difendere enti locali e società.

Non sono mancati momenti di tensione con le forze dell’ordine. Fumogeni, uova e vernice il prontuario solito. Otto poliziotti feriti a Napoli per il lancio di petardi. A qualcuno sarebbe piaciuto titolare di saccheggi e violenza, ma non è successo. Soprattutto giovani quelli che lamentavano lungo il percorso del corteo l’incapacità quasi storica degli italiani a ribellarsi, ad essere “indignati” come lo sono i ragazzi in tanti altri paesi d’Europa. Un vizio storico e una letargia della vera passione politica.

Alle 18, mentre i pullman portano i manifestanti a casa, mentre il traffico e i mezzi pubblici stanno tornando alla normalità, una seduta urgente del Consiglio dei Ministri annuncia gli ennesimi due cambiamenti della manovra. Aumento dell’IVA al 21% e supertassa per i ricchi, ma solo sopra i 500mila euro. Ci si prepara così alla fiducia. Lasciando intatto il resto e lasciando soli i lavoratori nelle loro aziende. Gli stessi che oggi erano in piazza. Tanti, tantissimi, ma soli di fronte alla crisi e al superpotere di chi può toglier loro ogni diritto con il ricatto del bisogno. La giornata della grande protesta è finita con un successo, in beffa ai numeri sottostimati della questura e ai profeti dei media. O forse, come i più ottimisti annunciano e i più giovani sognano, deve ancora arrivare. 

 


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