di Fabrizio Casari

C’è un grande fermento in casa Pd. Non sul programma politico, tantomeno su come dialogare con la società italiana e i movimenti d’opposizione che, pur in modo spesso frammentario incarnano, per affrontare con decisione e coraggio politico l’agonia del regime berlusconiano. Il fermento riguarda invece i Radicali e la loro scelta di non partecipare al voto sulla mozione di sfiducia al ministro Romano, preferendo innalzare cartelli a favore dell’amnistia, argomento quantomeno nascosto al mainstream.

Bisogna dire che a salvare il ministro Romano non è stata la scelta dei radicali, giacché la differenza numerica nel voto di Montecitorio è stata tale da rendere ininfluente la scelta del manipolo di pannelliani. A salvare Romano è stata invece la saldatura tra PdL e Lega con l’aggiunta dei transfughi di ogni dove che vanno sotto il nome di Responsabili, indicando così l’iniziale ossimoro della loro mesta vicenda di noleggio politico.

Che i Radicali possano essere espulsi dal Pd appare difficile, visto che non ne fanno parte. Sono invece componenti del gruppo parlamentare, il cui capogruppo, Franceschini, ha chiesto però alla direzione del partito di risolvere la grana. Ma, appunto, la direzione del Pd non può fare nulla al riguardo. Difficile trovare due errori in un gesto solo, ma Franceschini c’è riuscito.

Ma al netto delle gaffes del capogruppo Pd, non c’è dubbio che la pattuglia pannelliana ha sbagliato. La scelta dei radicali è apparsa fuori luogo e fuori contesto, giacché l’opposizione aveva bisogno di dimostrarsi coesa nell’occasione. Ma va detto che non ci furono identiche polemiche sul voto per Tedesco.

E soprattutto stupisce che non ci siano state identiche prese di posizione per violazione delle indicazioni politiche nei confronti di Fioroni, per non parlare della Binetti e di Rutelli che, prima di darsi all’Api, gigionescavano nel sabotaggio interno al partito democratico. E stupisce anche che le posizioni di Pietro Ichino sul lavoro non siano mai state oggetto di richiesta di chiarimento, vista la loro abissale distanza dalle posizioni della CGIL che il Pd sostiene di difendere. Poi, per spirito caritatevole, sorvoliamo su Renzi, il sindaco in favore di telecamera ed evitiamo di parlare di Calearo e Colanninno. E la lista degli apostati sarebbe lunga quanto insignificante.

Del resto, la critica ai Radicali nel Pd non è mai arrivata per le posizioni ultraliberiste in tema di economia, men che mai per quelle di politica estera, ma solo per quelle liberali in ordine alle libertà individuali. Liberisti assoluti per le libertà negli affari e libertini assoluti per i comportamenti individuali, i Radicali sono una miscela evidentemente mal tollerata in un partito che, incerto su cosa sia, ha chiarissimo cosa non conviene essere. Se questo fosse il sintomo di una sterzata a sinistra del Pd, si potrebbe cogliere positivamente la querelle, ma é vero tutto il contrario.

Nel caso di specie, infatti, la strumentalizzazione del gesto radicale appare evidente. Intanto andrebbe detto che sul tema dell’amnistia, su cui ha detto parole chiare anche il presidente Napolitano, i Radicali esprimono un convincimento che è difficile da rigettare, se non si vuole mettere la testa sotto la sabbia e, soprattutto, se non si vuole sostenere indirettamente la politica forcaiola del governo, che invoca Law and Order per gli anonimi e libertà assoluta per i famosi. Invece di prendersela con i Radicali, sarebbe meglio discutere di come rendere possibile il rientro del Codice Penale italiano nell’alveo della giurisprudenza europea.

Le condizioni delle carceri italiane sono pressoché simili a quelli dei campi lager destinati agli immigrati. Ritenere i secondi un abuso e tacere però sulle prime evidenzia una schizofrenia che si nutre di ipocrisia e calcolo politico.  Sarebbe bene decidere se un tema come il sovraffollamento carcerario, possa aprire una discussione sulla necessità della depenalizzazione dei reati minori e l’utilizzo di strumenti alternativi alla detenzione nell’erogazione delle pene minime. Non sono temi oggetto d’attenzione per un partito che dice di voler governare e, addirittura, di essere in grado di farlo? O il fatto che chi è fuori vota e chi sta dentro no, basta a definire principi e linee d’intervento?

A guidare la pattuglia degli intransigenti che chiedono l’espulsione dei Radicali ci sono Franceschini ed altri e, con l’eccezione del mai compianto ex ministro del lavoro Cesare Damiano, si tratta di tutti ex-democristiani. Che si sono detti sdegnati della foto di gruppo con Vendola e Di Pietro, preferendo evidentemente quella con Casini.

Folgorati probabilmente sulla via di Bagnasco e impauriti dalla possibilità di un nuovo Ulivo, cercano di sistemare il Pd sempre più lontano dalla sinistra e sempre più ancorato al centro e trovano che l’espulsione dei Radicali potrebbe favorire il definitivo trapasso del Pd nella nuova armata bianca a disposizione della Cei. Per gli ex-democristiani (e forse non solo per loro) il Pd dovrebbe definitivamente diventare l’habitat naturale dei cattolici, la culla del neoconservatorismo che, mentre prevede la progressiva dismissione dello Stato dall’economia, incita alla sua presenza asfissiante nella vita dei cittadini, configurando così la nuova dottrina, miscela tra liberismo economico e stato teocratico.

Ora, prendere atto che le posizioni politiche di un partito sono a sostegno rispettivamente dei mercati finanziari, delle procure e della Cei, non fornisce un quadro esaltante delle magnifiche sorti e progressive del Pd. Ma scambiare un programma politico con l’adesione ai programmi altrui, è purtroppo l’altra faccia della medaglia di un partito che, incapace di cacciare il despota, si cimenta con la cacciata dei Radicali.

 

 

 

 

di Carlo Musilli

Dopo il teatrino della manovra e i vizietti del premier, veniva da chiedersi come avremmo fatto a screditare ancora di più l'immagine dell'Italia. Ora lo sappiamo: mettendo in piedi l'ennesima bagarre, stavolta per nominare il nuovo governatore di Bankitalia. Mario Draghi lascerà via Nazionale il mese prossimo per andare a guidare la Banca centrale europea e la serietà istituzionale avrebbe imposto di trovare un accordo sul suo successore in tempi utili. Invece, in queste ore, stiamo assistendo a un nuovo scontro fra poteri. Tanto per cambiare, i due contendenti sono Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. La battaglia non si arresta nemmeno di fronte agli appelli del Capo dello Stato, che ha chiesto esplicitamente di evitare “forzature politiche e contrapposizioni personali”.

E dire che la questione sembrava indirizzata verso la soluzione più ovvia. Il trono di Palazzo Koch pareva destinato senza tanti sofismi al "candidato interno" Fabrizio Saccomanni, direttore generale della Banca d'Italia, l'uomo prediletto da sua maestà Draghi, da Napolitano e, di recente, anche dal Cavaliere. Il nome di Saccomanni è sempre stato in pole position, ma in zona Cesarini è tornato in lizza anche direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, sponsorizzato dal superministro dell'Economia.

In realtà, i bookmaker della Capitale danno ancora favorito il primo pretendente. In ogni caso la querelle non sarà di quelle senza fine, perché l'investitura deve necessariamente arrivare al più presto. Ma non è questo il punto. La nomina di un governatore è per sua natura anche un fatto politico: viene disposta per decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del capo del Governo, con una deliberazione del Consiglio dei Ministri e il parere favorevole del Consiglio superiore della Banca d’Italia.

Tuttavia, è vitale tenere a mente che quella del banchiere centrale deve rimanere una carica assolutamente indipendente dalla politica, come i trattati europei esigono. Nella comunità finanziaria internazionale non deve neanche sorgere il sospetto che il governatore possa essere influenzato nel suo lavoro da chi ha fatto pressioni per eleggerlo. E' una questione di credibilità agli occhi del mondo. Per questo era fondamentale che il nuovo numero uno di Bankitalia fosse nominato in fretta, con sicurezza, decisione e sulla base di un ampio consenso. Tanto più in un momento di crisi come questo, in cui gli occhi di tutti i mercati sono puntati sull'Italia.

Invece niente, fumata nera. Altra occasione mancata. Ieri mattina il Consiglio superiore di Bankitalia ha atteso invano la fatidica lettera con cui Palazzo Chigi avrebbe dovuto indicare il nuovo nome. Abbiamo invece assistito al solito tran-tran, l'ormai collaudato vai e vieni di potenti impegnati in febbrili consultazioni dell'ultim'ora. Tanto per non smentire la nostra granitica reputazione di pressappochisti.

Fra un incontro e l'altro, a metterci il carico è intervenuto anche Umberto Bossi, che ha pensato bene di alleggerire l'atmosfera schierandosi dalla parte del candidato tremontiano. Forse si è trattato di un colpo di coda per non apparire troppo appiattito sulle scelte del premier, dopo le ultime melanconiche prestazioni offerte in Aula nelle votazioni su Milanese e Romano. Per altro, il Senatùr ha argomentato la sua scelta con la solita dialettica incontrovertibile: "E' meglio Grilli, se non altro perché è di Milano".

Ma l’argutissima constatazione cela probabilmente la sostanza della questione, che è il rinsaldamento del rapporto con Tremonti, anche a monito contro le manovre interne al Pdl che lo vogliono ridotto ai minimi termini.

Intanto anche l'opposizione s'è desta, facendo sentire la propria voce con la solita incisività. Nella fattispecie, Bersani e Casini hanno diffuso un comunicato congiunto in cui fanno notare come la situazione attuale "desti grande preoccupazione". A beneficio di chi non se ne fosse accorto.

E mentre nessuno è in grado di offrire certezze, ecco che viene gettato in pasto alla stampa un trittico di presunti candidati alternativi: dal rettore bocconiano, Guido Tabellini, al membro italiano nel board della Bce, Lorenzo Bini Smaghi, per arrivare al vicedirettore di Bankitalia, Ignazio Visco.

Ma proprio da via Nazionale, alla fine, hanno deciso di alzare la voce per far presente che la nomina del governatore non è questione che interessi solo la logica del Palazzo: "Il parere del Consiglio superiore, quando arriverà l'indicazione del nome dal presidente del Consiglio - ha detto Paolo Blasi, consigliere anziano dell'istituto - sarà espresso nel rigoroso rispetto dell'autonomia della Banca e potrà essere positivo o negativo a seconda della candidatura che verrà presentata".

Tirando le somme, e sorvolando sull'ultima sparata estemporanea di Bossi, sembra proprio che la responsabilità di questo incidente così imbarazzante per il nostro Paese vada ricondotta in gran parte a Tremonti. Per quale motivo ha deciso di impuntarsi? Oltre alla volontà di piazzare un suo uomo di fiducia a Palazzo Koch, in molti sono tornati a evocare la vecchia antipatia (e l'invidia) covata nei confronti di Draghi. Ma forse non basta, si può andare oltre. Un'eventuale sconfitta nella battaglia per Bankitalia potrebbe fornire al ministro una buona scusa per abbandonare la nave senza perdere la faccia.

di Rosa Ana De Santis

Nei giorni in cui Berlusconi ripete ossessivamente che non mollerà le redini dell’esecutivo, nel fragore di una crisi morale e politica senza precedenti, con Alfano che tenta di tenere unita la compagine agitata dei fedelissimi, le parole durissime del cardinale Bagnasco diventano una sorta di eco alla proposta politica che Rosy Bindi, durante la festa degli Enti Locali del Pd, lancia per il futuro del paese.

La presidente del Pd invita riformisti, moderati e progressisti a convenire su quegli intenti di riforma e di credibilità perduta che sono necessari alla ripresa del paese. Nessuna ansia di ribaltone, ma una sorta di atto di disponibilità e maturità verso il Capo dello Stato, l’unico che può traghettare il paese in panne oltre il guado di questa fase che trascorre tra una votazione di fiducia e un'altra per salvare gli inquisiti della maggioranza.

Nonostante l’ammiccamento perpetuo di Casini al centro-destra e l’impossibilità di ripiantare l’Ulivo, la Bindi non abbandona la romantica idea di un larga intesa e considera la segreteria attuale del Pd l’unica legittimata a candidarsi per promuovere e portare avanti questo progetto. Nell’alternanza politica al Pdl si gioca infatti, e la Bindi lo sa bene, una partita tutta interna alle opposizioni che può essere l’ultima occasione utile di rilanciare il ruolo del Partito democratico, sottraendolo al logoramento delle divisioni che non sono mancate nemmeno in casa del centro-sinistra. In questo senso, la proposta della presidente del Pd tenta di stanare chi si nasconde dietro le formule.

Casini sembra reagire bene alla proposta di un’alleanza di “solidarietà nazionale” ma mette da subito paletti per la sinistra di Vendola, che sarebbe poco gradita e affine a quell’elettorato conservatore e di destra cui lui, come tanta parte del Pdl, si rivolge. Prima ancora di partire l’Esecutivo di emergenza conterebbe già le sue prime esclusioni. La sinistra (che dovrebbe esser servita in cambio dei voti del terzo polo), l’Italia dei Valori che non è certamente incline all’assemblaggio di un governicchio da prima repubblica e tanti dello stesso Pd, poco inclini a credere che una miscela unita solo dall’antiberlusconismo sia la chiave per sollevare il paese. E non molto tempo fa proprio Rosy Bindi aveva visto persino in Futuro e Libertà un alleato possibile, suscitando asprissime critiche da D’Alema e dalla sua corrente.

Un governo del Presidente, una nuova riedizione dell’unità nazionale pare il cammino che tutti vogliono, ritenendolo l’unico possibile per far cadere il tiranno. Se è vero che la difesa di una Costituzione in pericolo vale qualsiasi pastrocchio straordinario, è vero però anche che la proposta della Bindi può avere solo un valore a tempo determinato. Quello cioè necessario a tamponare l’emorragia di credibilità in seno al’Europa e a ristabilire le regole democratiche del voto, azzerando la porcata di Calderoli, e non oltre. Lo scopo é avere una nuova legge elettorale per restituire alle urne la definitiva, vera sconfitta del Cavaliere. E qui dovrà stagliarsi il profilo della sinistra alternativa al berlusconismo, oltre che a Berlusconi. Quella sinistra che non cerca l’antileader accattonando consensi precari e di convenienza centrista, più comoda e più pronta all’uso nella politica italiana che bipolare non lo è diventata mai.

Il futuro dovrebbe riservarci l’alternativa di un partito di sinistra che non ha bisogno di distinguersi da quella più radicale. Magari così non sarà e l’equivoco, che è soprattutto un gioco di blocchi per evitare la rinascita della sinistra, potrà contare ancora sulla commedia degli equivoci di Via del Nazareno. E allora il compito principale che spetterà agli elettori progressisti sarà spannare il vetro dell’opacità politica delle rispettive rendite di posizione. Spiegando nelle urne che i giochi di Casini hanno stancato tutti tranne lui e che i democristiani, ovunque allocati, devono compiere scelte definitive, perché l'Italia non può più aspettare. Sarebbe infatti una beffa liberarsi del Cavaliere e ritrovarsi con la stessa Dc di un tempo che solo ora, in questo postribolo delle Istituzioni, può sembrare un po’ a tutti, più tollerabile.

 

di Carlo Musilli

Di Romano ha solo il nome, ma ce n'è abbastanza perché alle camicie verdi si rivolti lo stomaco. Il buon Francesco Saverio, ministro dell'Agricoltura, non solo è ancora più "terùn" dei tanto odiati capitolini (luogo di nascita Palermo), ma ha anche origini democristiane. Trasformiste, per la verità, visto prima di fondare il beneamato gruppo dei "Responsabili" (ora "Popolo e territorio") di partiti e partitini ne ha girati parecchi, a cominciare dall'Udc di Casini. Come se non bastasse, la poltrona attualmente occupata da Romano è sempre stata nelle mire dei leghisti e all'inizio della legislatura sembrava dovesse toccare a Luca Zaia.

Insomma, Francesco Saverio è il prototipo del politico che il Carroccio ha sempre detestato. E proprio lui sta per trasformarsi nella prova vivente di quello che Lega è diventata: un partito supino agli ordini del Palazzo, sempre più lontano da quella base territoriale che ne ha sempre costituito la forza.

Mercoledì la Camera voterà la mozione di sfiducia sollevata da Pd, Idv e Fli nei confronti del ministro dell'Agricoltura, indagato dalla procura palermitana per corruzione e concorso in associazione mafiosa. Dopo nemmeno una settimana dal salvataggio di Marco Milanese, alla Lega toccherà mandar giù anche questo rospo. L'exploit compiuto su Alfonso Papa, finito in carcere proprio per il disallineamento dei deputati padani, è ormai irripetibile.

A confermarlo è il ministro degli Interni, Roberto Maroni, leader di quella corrente anti-bossiana più vicina alla base che vorrebbe smarcarsi da Berlusconi per poter sopravvivere alla caduta del sovrano. Ma ancora non è tempo. Sulla testa di Romano - ha precisato il numero uno del Viminale - pende "una mozione di sfiducia presentata dall'opposizione. Ne sono state presentate altre in passato, ma sono sempre state respinte. Non vedo francamente perché non si debba fare la stessa cosa".

Maroni sorvola con leggerezza sulla gravità delle accuse mosse al ministro Romano. Mercoledì sarà respinta una sfiducia ben diversa da quella presentata in passato, ad esempio, contro Sandro Bondi. Allora si parlava d’incompetenza, stavolta di rapporti con la mafia. L'equazione non regge. Ma ormai il Carroccio si è trasformato nell'apoteosi del garantismo: "Voteremo no - ha spiegato il capogruppo alla Camera, Marco Reguzzoni - perché se passasse il principio che uno si deve dimettere in base ad un avviso di garanzia, consegneremmo a qualsiasi pm il potere di licenziare un ministro".

In realtà la ritrovata (o simulata) compattezza della Lega serve soltanto a proteggere il Pdl da se stesso, disarmando quei falchi tiratori (ben sette) che la settimana scorsa stavano per fare un bello scherzetto al Governo sul caso Milanese. Il tutto per tenere in piedi un Esecutivo che altrimenti sarebbe costretto subito a fare le valige.

In proposito Romano è stato chiarissimo, le sue minacce sono impossibili da equivocare: " Io sono il leader di un partito politico che sostiene il Governo - ha avvertito ostentando sicurezza - e con numeri diversi cambierebbe la maggioranza". Anche lui, con ovvia tendenza auto-assolutoria, sembra considerare i rapporti con la mafia come un peccato veniale per un ministro della Repubblica: "Devo rispondere non per fatti inerenti a un’attività politica, ma alla mia qualità di persona. E parliamo di vicende che risalgono a otto anni fa e che non possono inficiare l'attività svolta".

Ormai è diventato un ritornello stantio quello che ci racconta di una Lega in posizione di dominio sul Cavaliere e su tutto il Pdl. Se consideriamo quanto avvenuto nelle ultime settimane, la verità sembra essere esattamente il contrario. Il voto su Milanese aveva dimostrato la subalternità del Carroccio ai berluscones. E il nuovo salvataggio di Romano non farà che confermarla. Segni di una leadership che non c'è più, quella di Bossi, e di una che rischia di azzopparsi ancor prima di cominciare, quella di Maroni.

 

di Mariavittoria Orsolato

Dopo l’annuncio dello scorso 15 settembre, alcuni attivisti appartenenti alla comunità Lgbt hanno dato seguito alla promessa di pubblicare online la lista con i nomi delle personalità politiche pubblicamente omofobe ma privatamente omosessuali. “Questa iniziativa - spiegavano in un messaggio gli attivisti sul loro sito - nasce per riportare un po’ di giustizia in un paese dove ci sono persone che non hanno alcun tipo di difesa rispetto agli insulti e gli attacchi quotidiani da parte di una classe politica ipocrita e cattiva”.

Puntuale, alle 10 di ieri mattina, il blog listaouting.wordpress.com ha reso noti i primi 10 nomi di quanti, tra gli scranni del centrodestra nasconderebbero la loro identità sessuale dietro posizioni del tutto contrarie al riconoscimento dei diritti e della dignità omosex, in questo caso quelli che hanno votato contro l’ultima legge sull’omofobia promossa dalla deputata Pd Paola Concia. Tra i nomi che compaiono in quello che verrà ricordato come il primo web outing della storia italiana, un ministro, un presidente di regione e un portavoce istituzionale: molti insospettabili, altri - a voler essere onesti - no.

Gli autori della lista, tutti rigorosamente anonimi e accreditati su una piattaforma estera, non hanno fornito alcun tipo di prova o dimostrazione a suffragio della loro tesi ed è più che probabile che a questa azione dimostrativa segua a ruota un’azione penale. Di fatto la privacy di 10 persone è stata violata e nonostante l’intento fosse proprio quello di smascherare l’ipocrisia di certa politica, anche dalla comunità Lgbt si sono levate voci di perplessità e dissenso, prima tra tutte quelle del presidente dell’Arcigay Paolo Patanè.

Questi ha apertamente condannato l’iniziativa degli hacker anonimi, arrivando a identificarla con quella “macchina del fango” che ammorba la vita politica italiana e la comunicazione. Difficile dargli torto. Stando infatti a quello che è il vocabolario omosex, l’outing è cosa ben diversa dal coming out: se quest’ultimo risponde ad una volontaria dichiarazione del proprio orientamento sessuale, il primo è invece un atto forzoso, uno svelamento che avviene contro la volontà del diretto interessato.

Certo l’idea di mettere a nudo l’incoerenza tra atti pubblici e comportamenti privati dei nostri politici è un’azione sacrosanta di informazione e, in un certo senso, di pubblico servizio: un cittadino/elettore ha tutto il diritto di sapere se il suo voto è destinato ad una persona degna di fiducia o meno. Purtroppo però, quella messa in atto dagli attivisti di “listaouting” non può definirsi un’operazione trasparenza con tutti i crismi. Se infatti l’anonimato è in questo caso condizione necessaria alla propria tutela legale - in base alla legge italiana l’outing è configurabile come reato di diffmazione e gli avvocati, si sa, costano - il fatto di non citare fonti o produrre prove a riscontro di quanto affermato rischia di inficiare le buone intenzioni con cui questa azione è stata comunque pensata e portata avanti.

La stessa Paola Concia ha definito "metodo estremo" la pubblicazione della lista, che certo non ha trovato estimatori. Stilando una lista di nomi e pubblicandola così, nuda e cruda, si rischia inevitabilmente di diventare epigoni di quei Feltri o Belpietro che pubblicano lenzuolate di battute basate su aria fritta. Che questi 10 politici si siano macchiati di grave incoerenza, rinnegando la loro intima natura, è cosa che, evidentemente, sanno solo gli attivisti responsabili di aver compilato la lista; vuoi perché testimoni oculari di certi comportamenti, vuoi perché in ambienti “ristretti” le voci girano sempre. A conferma di quanto da loro affermato non c’è infatti nulla: non una fonte, non una citazione, nemmeno una nota di polizia che affermi come i soggetti siano stati “attenzionati” per i loro comportamenti privati. E questo purtoppo non è informare correttamente.

C’è però da dire che, in un certo senso, questi attivisti anonimi si sono semplicemente adeguati a quelle che sono le tecniche più in voga al momento nella complessa scena politio/sociale: detto in parole povere, lo sputtanamento dell’avversario. Di fatto questa è diventata la dinamica più praticata nel confronto tra parti e in fin dei conti sbirciare nella camera da letto per poi divulgarne i contenuti ha sempre pagato. Che qui in Italia esista una persona che ancora pare esserne immune è un altro paio di maniche.

Se questa azione, alla prova dei fatti, risulterà risultare controproducente in visione del riconoscimento dei diritti e della dignità omosessuale, lo dirà solo la soglia di tolleranza che gli italiani hanno raggiunto nei confronti dei cosiddetti “scandali sessuali”. Quelli lanciati da “listaouting” sono, alla fine dei conti, attacchi personali e, nell’economia spiccia delle battaglie per i diritti civili, risultano abbastanza inutili, dal momento che non si tratta di spostare voti o di creare consenso ma semplicemente di sovvertire con i numeri una realtà conclamata e assolutamente ingiusta.

Nel XXI° secolo, tronfi di scienza e con bagagli di conoscenze e strumenti impensabili solo 50 anni fa, non è infatti più accettabile che esistano cittadini di serie B, discriminati nelle opportunità solo in ragione del loro orientamento sessuale. E questo è sempre bene tenerlo a mente.

Quello di oggi è comunque solo un antipasto: gli autori del blog annunciano che l’elenco di personalità incoerenti con le loro prese di posizioni pubbliche è destinata ad allungarsi a breve e che tra quelli destinati alla lettera scarlatta saranno presenti anche i nomi di molti sacerdoti. La curiosità certo non manca, gli strascichi di polemiche che inevitabilmente seguiranno nemmeno. Lo stesso dicasi per il buon gusto, se il "metodo Boffo" fa proseliti tra le sue vittime.

 

 


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