di Rosa Ana De Santis

Il taglio degli ultimi tre anni alla cooperazione in Italia è stato, numeri della Farnesina alla mano, del 78%. Un’enormità cui dovrà seguire una contrazione di altri 100 milioni di euro nel prossimo triennio. I tagli, che il governo sostiene siano motivati dalla crisi, si sarebbero potuti evitare risparmiando su altre voci di spesa. Tanto per portare qualche esempio: la rinuncia a costruire 1 solo dei 131 caccia bombardieri F-135, la metà delle spese del voto referendario e amministrativo non accorpato e soli sei mesi di operazioni militari in Libia.

La continua sottrazione di ossigeno all’impegno civile e politico per la cooperazione internazionale risponde ad un preciso orientamento politico del governo che, come nella politica interna, ha polverizzato il welfare e ha colpito le classi più basse, all’esterno non risponde certo a principi di globalizzazione equa e solidale, tutt’altro, preferendo, a differenza di altri paesi europei, non risparmiare sulle spese militari, ma sugli aiuti umanitari. E’ la politica a spiegare questi numeri: le strategie della Difesa, in coda il Ministero degli Esteri, e l’allineamento agli Stati Uniti.

La denuncia di Actionaid è durissima e traccia soprattutto la pesante differenza di numeri e di investimenti nel settore che l’Europa per prima ci rimprovera. L’Unione Europea, nel 2010, ha infatti mancato dello 0,56% l’obiettivo degli investimenti da destinare agli aiuti per i paesi in via di sviluppo e il peso specifico dell’Italia, in questo fallimento, è molto forte. Per questa ragione il Commissario europeo allo sviluppo ha fissato un obiettivo minimo per l'Italia, una “soglia di credibilità'' che dovrà essere pari allo 0,28% del Pil, ovvero 2 miliardi in più l’anno entro il 2015.

L’Italia non ha solo una situazione attuale di inadempienze e uno scenario difficile per il futuro, ma ha anche una serie di morosità passate. Scadenze non onorate per pagamenti di aiuti umanitari (Convenzione di Londra per aiuti alimentari), il Fondo per la lotta all’Aids, la tubercolosi e la malaria. E’ tutto questo che, oltre a mettere sul paese un’ipoteca morale, lo isola nel contesto europeo favorendo un pericoloso scetticismo e soprattutto un’ abitudine a pensare la nostra politica estera in un ruolo marginale, progressivamente sottratto da altri.

La difesa e la strategia militare, le aziende e il business di tanti colossi. E’ proprio la crisi del Nord Africa un teatro interessante da studiare a questo proposito. L’Italia è presente nelle azioni guidate dall’egida statunitense o attraverso la presenza operativa dell’Eni o dell’Unicredit.

Non c’è traccia di una politica estera che non sia quella delle armi o del petrolio. Proprio la Germania, invece, dimostra come supportando aiuti bilaterali si possano riscuotere anche vantaggi sul piano commerciale, rafforzando le relazioni con numerosi paesi partner.

I sondaggi dell’inchiesta Actionaid dicono che soltanto il 3% degli italiani propone la riduzione degli aiuti allo sviluppo: e forse non a caso, visto che il peso dell’aiuto pubblico allo Sviluppo (Aps) (oggi ulteriormente tagliato) ha un’incidenza bassissima sul Pil. Ma ci ha sempre visti, anche in questo, fanalino di coda dell’Europa.

Se con una mano si tolgono aiuti ai paesi in via di sviluppo e con l’altra si respingono gli esodi della fame e della morte, è evidente che l’Italia non possiede un disegno, né una strategia politica nell’approccio al problema del Sud del Mondo. C’è poco altro se non i vertici di carta nei palazzi della solidarietà, presenziati dal Ministro delle cerimonie, il lavoro nero per chi sopravvive ai rimpatri in mare e ai centri di detenzione,  e l’elemosina concessa a qualche ong e a tanta energia di solo e puro volontariato.

Ma la politica degli aiuti è il motore della politica estera, delle relazioni, della diplomazia. Tutta quell’arte che lavora all’impedimento della guerra. Che appare invece l’unica modalità con cui l’Italia sembra saper guardare fuori dal recinto di casa.

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