di Carlo Musilli

Come nel romanzo di Dumas i tre moschettieri erano Athos, Porthos e Aramis, ma alla fine ha avuto più successo D'Artagnan, così nella corsa a Bankitalia i tre candidati erano Saccomanni, Grilli e Bini Smaghi, ma alla fine è diventato governatore Ignazio Visco. Fra i bookmakers si è diffuso lo stupore. Fra tutti gli altri, il sollievo. La nomina ufficiale è ancora da venire, ma ormai l'iter da sbrigare è pura formalità.

Contro ogni aspettativa, il nome indicato da Silvio Berlusconi sta bene proprio a tutti. Ieri è stato un rutilare di comunicati e dichiarazioni in cui le parole più ricorrenti erano "professionalità", "autonomia" e "indipendenza". Insomma, apprezzamenti trasversali: dalla furibonda Confindustria al mondo delle associazioni, dal più remoto anfratto della politica fino alla vetta Quirinale.

Visco in effetti non ha nulla che non vada. Economista di alto profilo con una carriera decennale in Banca d'Italia che l’ha portato fino alla carica di vice direttore generale, può contare anche su una solida esperienza internazionale come chief economist nientedimeno che dell'Ocse. La domanda però rimane: se si doveva scegliere un candidato interno a via Nazionale, perché non il direttore generale Saccomanni? Perché scegliere il suo pur valoroso vice?

La risposta è nel modo in cui i nostri governanti concepiscono le istituzioni. In sostanza, una logica aziendale, la stessa che nell'era berlusconiana si è soliti applicare anche alle gerarchie dei partiti e della pubblica amministrazione. Uno schema che estende la pratica della lottizzazione anche alle poltrone che nulla hanno a che vedere (o almeno non dovrebbero) con le guerre di fazione.

Per settimane è andata avanti una miseranda battaglia politica intorno al nome da scegliere per il dopo Draghi. Saccomanni, che sarebbe stato il successore naturale di Supermario a voler seguire il cursus honorum, aveva un grosso handicap: era sostenuto da Silvio Berlusconi. Poco importa che dalla sua parte fossero schierati anche il presidente Napolitano e Sua Maestà uscente Mario Draghi. Il sostegno del Cavaliere è stato sufficiente ad attirare sul direttore generale l'antipatia di Giulio Tremonti, che ha subito sponsorizzato il suo prediletto, Vittorio Grilli.

Ora, quella del direttore generale del Tesoro è sempre parsa una candidatura un po' improbabile (se non altro per la sua compromissione politica), forse addirittura strumentale. In molti hanno interpretato l'impuntatura del ministro non tanto come l'aspirazione a piazzare un proprio uomo ai vertici di Palazzo Koch, ma come un buon pretesto per creare l'ennesima frattura nella maggioranza. Una scusa, un alibi per poi poter rassegnare le dimissioni senza perdere la faccia. Forse sarebbe andata effettivamente così se avesse vinto Saccomanni. Ma alla fine anche Tremonti si è ridotto a più miti consigli e ha portato a casa una mezza vittoria con l'elezione di Visco, la sua "seconda scelta".

Quanto a Bini Smaghi, c'è tutto un altro teatrino di cui rendere conto. Lo scorso aprile Berlusconi aveva promesso al presidente francese Nicolas Sarkozy che il posto nel board della Bce attualmente occupato dall'economista fiorentino sarebbe andato a un francese. In cambio, l'Eliseo avrebbe appoggiato l'ascesa di Draghi a timoniere dell'Eurotower, in sostituzione di Jean Claude Trichet. Piccolo problema: nessuno ha il potere di far dimettere Bini Smaghi, che dovrebbe andarsene di propria iniziativa. Peccato che non abbia alcuna intenzione di farlo, se non in cambio di un incarico altrettanto prestigioso.

Conscio di tenere il coltello dalla parte del manico, il fiorentino ha scelto di forzare la mano, rimanendo avvinghiato con le unghie e con i denti alla sua comodissima poltrona di Francoforte. La sua chiara intenzione era di mostrare i muscoli per lucrare una nomina spettacolare, come appunto poteva essere quella di governatore. Ma aveva fatto male i calcoli. L'atteggiamento eccessivamente sicuro, quasi spocchioso, ha finito con l'innervosire il Capo dello Stato, che pare abbia posto una sorta di veto alla sua elezione.

Inoltre, se alla fine Berlusconi avesse ceduto al ricatto, la nomina del nuovo banchiere centrale sarebbe stata fin troppo smaccatamente drogata dal più deteriore dei do ut des. In sostanza, avremmo eletto il capo di Bankitalia per far piacere al Presidente di un altro Paese. E tutto il mondo se ne sarebbe accorto. Senza contare che dai corridoi di via Nazionale avevano già promesso dimissioni a pioggia nel caso fosse stato nominato Bini Smaghi.

Pericolo scampato, ma la partita nel comitato direttivo della Bce rimane aperta. Sarkozy continua a pretendere il pagamento della cambiale firmata da Berlusconi la scorsa primavera. In verità, non senza qualche ragione: riuscita a immaginare un direttorio della Banca centrale europea in cui due poltrone su sei sono occupate da italiani?

A Parigi no di sicuro, anche perché da quel tavolo rimarrebbero esclusi proprio i francesi, che ad essere onesti hanno un peso a livello continentale ben superiore al nostro. Morale della favola: per evitare di creare un incidente diplomatico grave e di turbare ulteriormente i già precari equilibri della finanza comunitaria, Bini Smaghi dovrà assolutamente lasciare libero quel posto. Resta da vedere quale sarà la contropartita.
 

di Fabrizio Casari

Un riflesso. Condizionato o incondizionato che sia, è certamente un riflesso automatico quello che è scattato nella bocca (e forse anche nella testa) di Antonio Di Pietro quando, in consonanza con Maroni, ha proposto il ripristino della Legge Reale. Sarebbe questa, per il leader dell’IDV, la risposta giusta alle violenze imbecilli e autoreferenziali scatenatesi il 15 ottobre.

Intanto, a beneficio della cultura giuridica di Di Pietro, va ricordato che la legge Reale non è stata del tutto abrogata, giacché alcune delle norme in essa contenuta sono tutt’oggi vigenti. Poi, a beneficio della cultura politica del Di Pietro stesso, va ricordato come quella legge, del 1975, ha rappresentato uno spartiacque decisivo tra la giurisprudenza europea e quella emergenziale italiana, che venne in parte (ma solo in parte) superata dalla riforma del Codice di Procedura Penale, nel 1989, a firma di Vassalli e Pisapia.

La Legge Reale assegnò poteri straordinari alle forze di polizia e agli inquirenti: venne concesso l’uso delle armi da fuoco in piazza, la possibilità di effettuare perquisizioni senza autorizzazione del giudice, di operare arresti anche in assenza di flagranza di reato e di fermare per 48 ore un cittadino senza dover comunicare il fermo all’autorità giudiziaria, la quale, a sua volta, aveva a disposizione altre 48 ore per decidere se convalidare o no il fermo. Offrì tiro libero e fermo di polizia, in offesa ad una giurisprudenza che si voleva equa e garantista. La sua applicazione fu un fallimento totale: non impedì negli anni a seguire scontri durissimi di piazza, né l’insorgere e lo svilupparsi del partito armato; il suo bilancio, nei primi 15 anni, contò 254 morti su un totale di 625 vittime.

La legge Reale fu la rappresentazione più evidente dello scollamento intervenuto tra la legge e le norme liberticide che ad essa si sostituirono e il clima politico nel quale venne calata s’iscriveva più nell’idea che il sistema dominante non era giudicabile (“la DC non si fa processare nelle piazze”) che non alle esigenze di una corretta dialettica politica tra governo e opposizione sociale e politica anche al di fuori del Parlamento.

D’altra parte, in una fase storica nella quale il conflitto sociale e politico era altissimo, scegliere la strada delle leggi speciali non era tanto una “estrema ratio” contro la rappresentazione di piazza di quel conflitto, quanto piuttosto la ricerca dell’innalzamento del livello dello scontro tra il potere e chi vi si opponeva. Proprio quelle norme, infatti, ponevano la protesta davanti ad un bivio: arrendersi e lasciare la piazza o difenderla adeguando il livello a quello, altissimo, dell’ipoteca militare che lo Stato imponeva. L’obiettivo spacciato era la difesa dell’ordine pubblico, quello vero era azzerare le lotte sociali con la minaccia delle armi, piegare il conflitto sotto la paura, ridurre ogni istanza politica di rivolta alla compatibilità del differendo parlamentare. Tutto ciò che da questo esulava, diventava da quel momento una sfida all’ultimo sangue.

Il risultato fu drammatico, giacché da un lato esaltò le peggiori pulsioni autoritarie da parte delle forze dell’ordine (che pure stavano conoscendo una stagione di riforme che smilitarizzarono e democratizzarono - anche se non del tutto - la Polizia) e dall’altro spinse nel baratro militarista pezzi interi di ribellione sociale e politica. Nel giro di pochi anni, quelle norme liberticide diedero il loro contributo alla militarizzazione crescente d’intere aree dell’antagonismo gettandole nel dirupo dello scontro militare con lo Stato.

Con questo non va certo sottovalutata la follia armatista che si alimentava della ”autonomia del politico”, per usare un linguaggio di quei tempi, né le suggestioni emozionali di chi davvero credeva che le lotte di massa per invertire i rapporti di forza nella società fossero meno incisive dei colpi di pistola. Poco sembrò importargli che quei colpi erano sparati da soggetti che, privi di delega alcuna, avevano preso le armi in nome e per conto di chi voleva cambiare la società, ma che con loro niente aveva a che fare, niente condivideva e niente voleva avere a che spartire.

La lista nera delle vittime della Legge Reale cominciò dunque dalla messa in un angolo del sistema di diritti e garanzie e fu il primo di una lunga serie di tasselli che composero il domino di una giurisprudenza emergenzialista e liberticida che arrivò in seguito, solo per fare un esempio, a determinare in ben 11 anni l’ammontare del carcere preventivo possibile in attesa di processo. Caso unico al mondo.

Se è a quello schema giuridico che l’On. Di Pietro s’ispira, lo dica con chiarezza. Nessuno, del resto, potrebbe stupirsi più di tanto leggendo il curriculum professionale e politico del padrone dell’IDV. Ma ai danni fatti con le sue disinvolte candidature non dovrebbero sommarsi quelli derivanti da ancor più disinvolte parole in libertà. Dopo i De Gregorio e Scilipoti non si sente davvero la mancanza della riesumazione di Oronzo Reale.

Rispondere con una pulsione repressiva a quanto accade significa rifiutarsi di capire cosa si muove nel tessuto sociale del paese, rinunciare a interpretare e ad agire con il primato della politica. Se davvero fosse la tutela degli spazi democratici la coperta infeltrita che provano a cucire intorno al divieto, allora le strade sarebbero altre, giacché si dispone di mezzi, uomini e conoscenze per operare in chiave preventiva. Ma non sembrano i manifestanti pacifici l’oggetto delle attenzioni; sembra che più che essere interessati a tutelare l’esercizio del dissenso nelle piazze si sia preoccupati di chiudere le piazze alla protesta. Eppure, non è mai successo che la compressione degli spazi di democrazia abbia ridotto la violenza o aumentato il tasso di partecipazione democratica. Così facendo, si vuole aprire un fossato profondo nel quale far cadere qualche gruppo d’imbecilli per poi poter dire, come già qualcuno biascica, che chiedere la caduta del governo e un cambio radicale di politiche sia sinonimo di eversione?

Che siano gli ex-fascisti (ex?) a lanciarsi con enfasi nella gara a chi chiede più repressione e meno spazi, non è del resto strano. La democrazia, diversamente dalla scarlattina, non si attacca. Pare quindi evidente che si vuole approfittare di quanto esibito da 500 soggetti per marginalizzare o criminalizzare quanti si mobilitano contro questo governo e contro questo quadro politico.

Invece, il dato politico centrale di sabato scorso, sul quale ci si dovrebbe confrontare, sono le cinquecentomila persone giunte da ogni dove a dire che c’è un’Italia che vuole riprendersi la parola e lo spazio per pronunciarla. Non sono possibili equivoci al riguardo.

Se mezzo milione di persone scendono in piazza, se l’indignazione contro la guerra della finanza contro il lavoro diventa la parola d’ordine generalizzata, significa che la nostra scalcinata democrazia ha ancora da qualche parte risorse accantonate. Pur alla ricerca di un suo profilo identitario, nel caos di proposte senza senso rilanciate da becchini che si spacciano per medici, un’immensa massa critica si muove per dire che la pagina strappata della sovranità politica non è l’ultima pagina del libro.

Ovunque nel mondo, e anche in Italia, una nuova leva di donne e uomini cerca spazio e rappresentanza; non si riconosce in nessuno ma vuol essere riconosciuta da tutti. Non ha altre ricette se non quella dell’abbandono delle vecchie ricette. Non ha altri poteri se non quello di opporre un rifiuto, non ha altri mezzi se non quello della protesta. Sarà bene costruire un ambito di tutela per questo diritto alla protesta, sia dall’interno che dall’esterno; ma nessuno deve pensare che per eliminare la follia si elimini tout-court il diritto alla pubblica parola. In gioco non c’è la salvaguardia di un’innocenza ormai perduta, semmai la consapevolezza che quando la parola torna ad essere proprietà di tutti, siamo tutti noi che ne beneficiamo.

 

 

di Carlo Musilli

La settimana che si apre oggi potrebbe essere decisiva per il Governo Berlusconi. Il Consiglio dei ministri è chiamato ad approvare il tanto sospirato decreto sviluppo, quel provvedimento per la crescita invocato a gran voce dall'Europa e dalle parti sociali, Confindustria su tutti. Ancora una volta la partita si giocherà sul terreno dello scontro Tremonti-Pdl: il ministro dell'Economia, ormai sfiduciato da due terzi del suo stesso partito, vorrebbe un pacchetto di misure a costo zero, ma il Cavaliere e gli altri pidiellini non sono d'accordo.

Non è da escludere che il varo del decreto porti con sé le dimissioni di Tremonti, ma fin qui il superministro è stato bravissimo a tutelarsi serrando i ranghi con la Lega. Umberto Bossi ha fatto un bel favore al vecchio amico Giulio raffreddando i bollori di chi nel Governo si eccitava al pensiero di un nuovo condono.

Stesso schema di alleanze e opposizioni anche per quanto riguarda il secondo nodo che l'Esecutivo dovrà sciogliere nei prossimi giorni: la nomina del nuovo governatore di Bankitalia. Berlusconi punta sul candidato interno, il direttore generale Fabrizio Saccomanni, prediletto anche da Giorgio Napolitano e Mario Draghi. Il candidato di Tremonti è invece Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro. Rimane possibile la strada del compromesso su un terzo nome, come quello di Lorenzo Bini Smaghi o di Domenico Siniscalco. Ma anche su questo fronte si potrebbe consumare lo strappo finale e a Palazzo Chigi potrebbe arrivare una lettera di dimissioni timbrata via XX Settembre.

Insomma, dopo la rocambolesca fiducia incassata venerdì scorso alla Camera (che è costata la creazione di quattro nuove cariche ministeriali, distribuite ad altrettanti deputati di buona volontà), il Governo deve dimostrare nei fatti di poter ancora prendere delle decisioni senza rischiare di implodere. Esattamente la richiesta arrivata la settimana scorsa dal Quirinale, perché i numeri sono una cosa, la capacità di agire un'altra. L’ha dimostrato l'ultima riunione del Cdm, ad appena un paio d'ore dal voto salvifico di Montecitorio.

Per approvare il Ddl stabilità, che prevedeva circa sei miliardi di tagli ai loro dicasteri, i ministri hanno dato vita all'ennesima bagarre intra-istituzionale. A schiumare di rabbia erano soprattutto Prestigiacomo, Galan, Fazio e La Russa. L'amor di patria e di poltrona ha suggerito una bella soluzione all'italiana: attingendo all'extragettito ottenuto dall'asta per le frequenze (che avrebbe dovuto finanziare un nuovo progetto per la banda larga), i sacrifici per i ministeri sono stati ridimensionati. Certo, a costo di stravolgere e rabberciare la legge all'ultimo secondo, ma il pressappochismo non è mai stato un problema.

Secondo il premier sarebbe questa la maggioranza che arriverà a "chiudere la legislatura nel 2013". Parole ormai divenute un mantra da ripetere ossessivamente, ma a cui davvero non crede più nessuno. Ad oggi lo scenario più gettonato è quello descritto da Gianfranco Fini in un'intervista a La Stampa: Berlusconi "proverà a vivacchiare più o meno fino a Natale - sostiene il Presidente della Camera - e farà di tutto per ottenere l’approvazione di nuove leggi ad personam, indispensabili per trasformare quelli che lo riguardano in processi “pret a porter”, tagliati su misura per garantirgli l’impunità con la prescrizione breve o altri espedienti. Poi andrà alle elezioni. Presto, molto prima di quanto ci si possa aspettare, sarà Bossi a staccare la spina. Andremo alle urne a marzo 2012".

Le leggi cui si riferisce il leader di Futuro e libertà sono quella sul processo breve - che cancellerebbe, tra gli altri, anche il processo Mills, in cui il premier è imputato per corruzione in atti giudiziari - e quella sulle intercettazioni. La prima sarà approvata in via definitiva dal Senato entro la settimana, mentre la seconda è stata spostata sul calendario di novembre. Una mossa tattica, proprio per non interferire col ddl che contiene la prescrizione breve per gli incensurati.

Tornando a parlare di urne, un altro tema caldo è quello della legge elettorale. Sempre secondo Fini, "si voterà con quella attuale, in modo da rinviare il referendum". Un obiettivo inseguito soprattutto dalla Lega, che vede nel Porcellum l'unico strumento per conservare una rappresentanza parlamentare soddisfacente. Certo sarebbe davvero vergognoso snobbare la volontà referendaria espressa dalle firme di oltre un milione e 200mila italiani.

Quanto al dopo, la nebbia è ancora fitta. Tutti parlano di elezioni, ma nessuno sa dire quali saranno i prossimi candidati a Palazzo Chigi. Berlusconi alimenta la confusione lasciando che si diffondano le voci sul suo ritiro, senza peraltro ufficializzarlo. Intanto intorno a lui si rincorrono manovre e minacce dei cosiddetti "malpancisti". Su tutti Formigoni, Maroni, Pisanu e soprattutto Scajola, che dopo aver votato sì alla fiducia ha lanciato un segnale preciso: :  "Se non si cambia - ha detto - i nomi dei deputati che non voteranno si moltiplicheranno e si andrà a sbattere". E tanto per essere più chiaro ha fatto in modo che due dei suoi, Fabio Gava e Giustina Destro, non appoggiassero la fiducia.

Ma l'incertezza regna sovrana anche nelle opposizioni, sempre più sfilacciate. Sono state loro le più indebolite dal voto di venerdì, che ha fornito la scusa per rompere definitivamente con i Radicali. I cinque deputati di Pannella sono entrati in Aula mandando a monte il tentativo dell'opposizione di far mancare il numero legale alla prima chiama (tentativo che peraltro sarebbe fallito comunque). Un mezzuccio "da consiglio comunale", come l'ha definito Alfano. Ma il punto è che i Radicali hanno disobbedito e "ormai, di fatto, sono fuori dal gruppo", come ha sentenziato Rosi Bindi. Poco prima, fra l'altro, la presidente del Pd aveva snocciolato una sacrosanta verità che varrebbe la pena di apprezzare come assioma generale: i voti sono voti, ma "gli stronzi sono stronzi". 

di Rosa Ana De Santis

Il Rapporto della Caritas e della Fondazione Zancan sarà presentato oggi all’Università Gregoriana in occasione della “Giornata mondiale della povertà”. Le anticipazioni, in linea con i numeri già diffusi dall’Istat, raccontano di un paese che evidentemente non trova soluzioni al numero crescente dei poveri. Si arriva agli 8,3 milioni del 2010 contro i 7,8 del 2007, il 20% dei quali é sotto i 35 anni.

Dati che sono la conseguenza di una crisi economica generale che solo una politica di protezione del welfare avrebbe potuto contenere, ma sarebbe servito un governo alternativo a quello attuale. Il Rapporto lancia soprattutto un monito a non far sparire dai numeri e dalle statistiche l’impoverimento progressivo di larghe fasce della popolazione che, in virtù dello spostamento della soglia riconosciuta di povertà, rischiano di non figurare più perché associate a un diverso valore, dato da una valutazione precedente, non considerando il provabilissimo impoverimento subentrato nel corso del tempo a fronte di zero interventi sull’occupazione e sul costo complessivo della vita.

L’impoverimento infatti va inquadrato attraverso un approccio più complesso che non si esaurisca solamente ai numeri delle entrate economiche per ogni famiglia. Essere poveri oggi in Italia significa molto di più. Innanzitutto accedere sempre meno e con sempre maggiore difficoltà ai diritti fondamentali che prima il sistema paese riusciva a garantire - dalla salute all’istruzione - o spesso di averli con livelli di qualità ed efficienza molto più bassi che in passato.

Seguono poi i disagi dell’occupazione giovanile, la perdita di tutele nel mercato del lavoro, la precarietà come standard della vita occupazionale e quindi anche personale. Oggi è facile ritrovarsi repentinamente in una situazione di povertà anche estrema. Basta perdere il lavoro e non avere una rete familiare di salvataggio, come per tanti anni ha avuto l’Italia. A dircelo, ad esempio, sono i dati sull’utenza italiana in aumento allo sportello di aiuto dell’Help center per i senzatetto. In un grande polo come quello della Stazione Centrale di Roma i senza dimora che prima erano soprattutto stranieri, sono italiani, uomini e giovani tra i 30 e i 49 anni. Spesso padri che hanno perduto il lavoro e che non vivono in casa dopo una separazione.

Il Rapporto accende una luce su una povertà che non vediamo ancora, in modo prevalente, ai margini della società, ma che ha iniziato a trasformare la vita del ceto medio abbassandone progressivamente tutele e garanzie. Il povero è meno visibile, è dentro la società e non ne è estromesso. E’ un povero che deve ancora pienamente prendere coscienza di esserlo diventato, colpa di una negazione che persino dall’alto delle Istituzioni è stata cavalcata come arma d’imbonimento e rassicurazione.

Anche se molti sono gli anziani ridotti al limite della sussistenza, sono i giovani i protagonisti di questa matematica impietosa che non solo rendiconta la crisi, ma pronostica scenari di stallo, privi di dinamicità. Ora, se sarà su questo che il futuribile partito dei cattolici vorrà iniziare a lavorare da subito difficile credere che potrà farlo senza i partiti di sinistra e le piazza dei sindacati come FIOM e CGIL tutta.

Le schermaglie dell’ultima fase del governo Berlusconi, tenuto in piedi da quattro stampelle, e le ipotesi di alleanza lanciate dai partiti di sinistra e di centro rappresentano l’ennesimo colpo di coda di una politichetta che non ha compreso che a cambiare dev’essere il ragionamento politico e non le sue comparse d’occasione. Oltre la crisi c’è un modo nuovo di leggere i beni primari e i diritti, un modo di renderli immuni dal calcolo del profitto; il metodo di risparmio non è la spada dei tagli alla vita delle persone comuni.

E’ lì che ci porta questo bilancio della povertà grazie a chi sa o saprà capire che questi non sono numeri che possono rimanere ancora fuori alle porte delle Chiese o nelle mense del volontariato, ma sono questioni politiche ed etiche che devono finalmente entrare in Parlamento.

di Mariavittoria Orsolato

Una giornata densa. Come il fumo acre dei lacrimogeni, come il fumo nero delle autovetture in fiamme. Roma brucia di nuovo in questo 15 ottobre, data di mobilitazione globale contro le politiche economiche messe in atto da governi e finanza; e assieme alla capitale se ne vanno in fumo anche le buone intenzioni con cui questa scadenza era stata programmata. Le immagini violente proposte dalla tv, gentilmente offerte da forze dell’ordine e da una comunque piccola parte dei 200.000 accorsi da tutta Italia, sono sicuramente eloquenti e denudano il fianco di quello che - il condizionale a questo punto è d’obbligo - avrebbe dovuto essere il debutto del primo movimento italiano interamente anticapitalista.

Mettere a ferro e fuoco il centro di Roma significa inevitabilmente attirarsi le ire dei benpensanti e le critiche di quanti, pur sfilando al tuo fianco, non condividono il nichilismo di certe azioni. Ma c’è anche da dire che la gestione della piazza da parte delle autorità preposte è stata totalmente inadeguata e spesso spropositata nelle reazioni: se la violenza è di per se condannabile allora anche la polizia non deve essere esente da critiche per quanto riguarda la giornata di ieri.

Ma andiamo per ordine. Il corteo parte da piazza Esedra puntuale alle 14, al suo interno tutte le realtà militanti della compagine sociale: ci sono i no-tav, i precari, gli autonomi, i cobas, i collettivi studenteschi. Tutti lì per criticare e respingere la degenerazione di questo capitalismo agonizzante, tutti lì per rispondere con la protesta alla spada di Damocle della precarietà, sia lavorativa che esistenziale, che investe larghissimi comparti della società odierna. Dopo nemmeno 500 metri, il primo degli atti di quelli che per comodo vengono chiamati da alcuni “black bloc”, da altri infiltrati, da altri ancora anarchici ma che alla vista sono solo persone vestite di nero che evidentemente non hanno nulla da perdere: l’Elite Market, un alimentari in via Nazionale, viene preso d’assalto. Alle vetrine sfondate si aggiunge poco dopo una macchina incendiata, svariate banche vandalizzate, cassonetti divelti, un dipartimento del Ministero della Difesa dato alle fiamme e quant’altro purtroppo ricordi la Genova del 2001.

Ad agire sono in pochi e buona parte del lunghissimo serpentone li censura apertamente. Oltrepassato il Colosseo, all’incrocio tra via Merulana e via Labicana il corteo viene spezzato dall’arrivo delle forze dell’ordine: sono quasi le quattro del pomeriggio e, tolti gli elicotteri che ronzano dal mattino,  questa è la loro prima apparizione. Le cariche sono violente, i lacrimogeni volano ad altezza d’uomo e i caroselli delle autoblindo fanno scappare i manifestanti come formiche impazzite. Scene già viste che però non producono effetti diversi. Poco dopo in piazza San Giovanni è guerriglia: volano sanpietrini, un ragazzo viene investito da un blindato dei carabinieri in retromarcia, l’aria è resa irrespirabile da lacrimogeni e fumogeni. Alle 19, dopo gli idranti contro i Cobas e un mezzo dei CC dato alle fiamme, i manifestanti vengono dispersi del tutto ma gli scontri proseguono a macchia lungo il percorso a ritroso.

La giornata di ieri, questo 15 ottobre che per un motivo o per l’altro rimarrà nella storia, è stata portata avanti in altre 962 città del mondo ma solo in Italia la manifestazione è stata così tanto partecipata e così tanto aggressiva. Ed è questo, aldilà delle facili condanne, il punto su cui vale la pena riflettere. Quanti credevano che la manifestazione sarebbe andata diversamente peccano d’ingenuità o hanno la memoria corta: dopo quello che è accaduto lo scorso 14 dicembre, sempre a Roma, l’esito della giornata di oggi era praticamente scontato.

Come ha affermato uno dei membri di Wu Ming, analizzando lucidamente gli scontri di ieri, “non ci sarà mai più una manifestazione nazionale di movimento che non includa quel che abbiamo visto oggi”: nel momento in cui convogliano nello stesso luogo migliaia di giovani e precari delusi, sfiduciati e furibondi è inevitabile che la distruttività prenda il sopravvento. Sono (siamo) quasi due generazioni alle quali un futuro viene esplicitamente negato, prive di qualsivoglia rappresentanza politica o sindacale, schifati dalle istituzioni; in questo contesto la manifestazione collerica, il lancio esasperato di oggetti e l’uso di armi improprie non sono altro che espressioni evidenti di un malessere e di una rabbia sociale ormai impossibili da sedare. In moltissimi sono disposti allo scontro e negarlo non ha senso né è onesto.

Se questo allora è il polso della protesta italiana, invocare grandi scadenze a livello nazionale non può che essere controproducente; ed è proprio questo a determinare l’inevitabile fallimento di una scadenza importante come quella di ieri. Nel resto del mondo le proteste erano più o meno localizzate, le pratiche sono state diversificate e l’unico principio accomunante è stato quello dell’Occupy Everything, essere ovunque e ovunque portare scompiglio a proprio modo. Una protesta composita ma non per questo meno efficace o invasiva che ha il pregio di evitare concentramenti di polizia - a Roma erano in 2500 - e barricate, donando in più una visibilità “politacally correct”, facilmente condivisibile da larghi comparti dell’opinione pubblica con cui, piaccia o meno, è necessario confrontarsi.

Ieri tutto il mondo è andato in quella direzione nel mettere in pratica la prima manifestazione anticapitalistica globale: in Italia, purtroppo, questo afflato di resistenza è stato già assunto e archiviato sotto la voce “guerriglia urbana a Roma”.

 


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