di Carlo Musilli

La settimana che si apre oggi potrebbe essere decisiva per il Governo Berlusconi. Il Consiglio dei ministri è chiamato ad approvare il tanto sospirato decreto sviluppo, quel provvedimento per la crescita invocato a gran voce dall'Europa e dalle parti sociali, Confindustria su tutti. Ancora una volta la partita si giocherà sul terreno dello scontro Tremonti-Pdl: il ministro dell'Economia, ormai sfiduciato da due terzi del suo stesso partito, vorrebbe un pacchetto di misure a costo zero, ma il Cavaliere e gli altri pidiellini non sono d'accordo.

Non è da escludere che il varo del decreto porti con sé le dimissioni di Tremonti, ma fin qui il superministro è stato bravissimo a tutelarsi serrando i ranghi con la Lega. Umberto Bossi ha fatto un bel favore al vecchio amico Giulio raffreddando i bollori di chi nel Governo si eccitava al pensiero di un nuovo condono.

Stesso schema di alleanze e opposizioni anche per quanto riguarda il secondo nodo che l'Esecutivo dovrà sciogliere nei prossimi giorni: la nomina del nuovo governatore di Bankitalia. Berlusconi punta sul candidato interno, il direttore generale Fabrizio Saccomanni, prediletto anche da Giorgio Napolitano e Mario Draghi. Il candidato di Tremonti è invece Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro. Rimane possibile la strada del compromesso su un terzo nome, come quello di Lorenzo Bini Smaghi o di Domenico Siniscalco. Ma anche su questo fronte si potrebbe consumare lo strappo finale e a Palazzo Chigi potrebbe arrivare una lettera di dimissioni timbrata via XX Settembre.

Insomma, dopo la rocambolesca fiducia incassata venerdì scorso alla Camera (che è costata la creazione di quattro nuove cariche ministeriali, distribuite ad altrettanti deputati di buona volontà), il Governo deve dimostrare nei fatti di poter ancora prendere delle decisioni senza rischiare di implodere. Esattamente la richiesta arrivata la settimana scorsa dal Quirinale, perché i numeri sono una cosa, la capacità di agire un'altra. L’ha dimostrato l'ultima riunione del Cdm, ad appena un paio d'ore dal voto salvifico di Montecitorio.

Per approvare il Ddl stabilità, che prevedeva circa sei miliardi di tagli ai loro dicasteri, i ministri hanno dato vita all'ennesima bagarre intra-istituzionale. A schiumare di rabbia erano soprattutto Prestigiacomo, Galan, Fazio e La Russa. L'amor di patria e di poltrona ha suggerito una bella soluzione all'italiana: attingendo all'extragettito ottenuto dall'asta per le frequenze (che avrebbe dovuto finanziare un nuovo progetto per la banda larga), i sacrifici per i ministeri sono stati ridimensionati. Certo, a costo di stravolgere e rabberciare la legge all'ultimo secondo, ma il pressappochismo non è mai stato un problema.

Secondo il premier sarebbe questa la maggioranza che arriverà a "chiudere la legislatura nel 2013". Parole ormai divenute un mantra da ripetere ossessivamente, ma a cui davvero non crede più nessuno. Ad oggi lo scenario più gettonato è quello descritto da Gianfranco Fini in un'intervista a La Stampa: Berlusconi "proverà a vivacchiare più o meno fino a Natale - sostiene il Presidente della Camera - e farà di tutto per ottenere l’approvazione di nuove leggi ad personam, indispensabili per trasformare quelli che lo riguardano in processi “pret a porter”, tagliati su misura per garantirgli l’impunità con la prescrizione breve o altri espedienti. Poi andrà alle elezioni. Presto, molto prima di quanto ci si possa aspettare, sarà Bossi a staccare la spina. Andremo alle urne a marzo 2012".

Le leggi cui si riferisce il leader di Futuro e libertà sono quella sul processo breve - che cancellerebbe, tra gli altri, anche il processo Mills, in cui il premier è imputato per corruzione in atti giudiziari - e quella sulle intercettazioni. La prima sarà approvata in via definitiva dal Senato entro la settimana, mentre la seconda è stata spostata sul calendario di novembre. Una mossa tattica, proprio per non interferire col ddl che contiene la prescrizione breve per gli incensurati.

Tornando a parlare di urne, un altro tema caldo è quello della legge elettorale. Sempre secondo Fini, "si voterà con quella attuale, in modo da rinviare il referendum". Un obiettivo inseguito soprattutto dalla Lega, che vede nel Porcellum l'unico strumento per conservare una rappresentanza parlamentare soddisfacente. Certo sarebbe davvero vergognoso snobbare la volontà referendaria espressa dalle firme di oltre un milione e 200mila italiani.

Quanto al dopo, la nebbia è ancora fitta. Tutti parlano di elezioni, ma nessuno sa dire quali saranno i prossimi candidati a Palazzo Chigi. Berlusconi alimenta la confusione lasciando che si diffondano le voci sul suo ritiro, senza peraltro ufficializzarlo. Intanto intorno a lui si rincorrono manovre e minacce dei cosiddetti "malpancisti". Su tutti Formigoni, Maroni, Pisanu e soprattutto Scajola, che dopo aver votato sì alla fiducia ha lanciato un segnale preciso: :  "Se non si cambia - ha detto - i nomi dei deputati che non voteranno si moltiplicheranno e si andrà a sbattere". E tanto per essere più chiaro ha fatto in modo che due dei suoi, Fabio Gava e Giustina Destro, non appoggiassero la fiducia.

Ma l'incertezza regna sovrana anche nelle opposizioni, sempre più sfilacciate. Sono state loro le più indebolite dal voto di venerdì, che ha fornito la scusa per rompere definitivamente con i Radicali. I cinque deputati di Pannella sono entrati in Aula mandando a monte il tentativo dell'opposizione di far mancare il numero legale alla prima chiama (tentativo che peraltro sarebbe fallito comunque). Un mezzuccio "da consiglio comunale", come l'ha definito Alfano. Ma il punto è che i Radicali hanno disobbedito e "ormai, di fatto, sono fuori dal gruppo", come ha sentenziato Rosi Bindi. Poco prima, fra l'altro, la presidente del Pd aveva snocciolato una sacrosanta verità che varrebbe la pena di apprezzare come assioma generale: i voti sono voti, ma "gli stronzi sono stronzi". 

di Rosa Ana De Santis

Il Rapporto della Caritas e della Fondazione Zancan sarà presentato oggi all’Università Gregoriana in occasione della “Giornata mondiale della povertà”. Le anticipazioni, in linea con i numeri già diffusi dall’Istat, raccontano di un paese che evidentemente non trova soluzioni al numero crescente dei poveri. Si arriva agli 8,3 milioni del 2010 contro i 7,8 del 2007, il 20% dei quali é sotto i 35 anni.

Dati che sono la conseguenza di una crisi economica generale che solo una politica di protezione del welfare avrebbe potuto contenere, ma sarebbe servito un governo alternativo a quello attuale. Il Rapporto lancia soprattutto un monito a non far sparire dai numeri e dalle statistiche l’impoverimento progressivo di larghe fasce della popolazione che, in virtù dello spostamento della soglia riconosciuta di povertà, rischiano di non figurare più perché associate a un diverso valore, dato da una valutazione precedente, non considerando il provabilissimo impoverimento subentrato nel corso del tempo a fronte di zero interventi sull’occupazione e sul costo complessivo della vita.

L’impoverimento infatti va inquadrato attraverso un approccio più complesso che non si esaurisca solamente ai numeri delle entrate economiche per ogni famiglia. Essere poveri oggi in Italia significa molto di più. Innanzitutto accedere sempre meno e con sempre maggiore difficoltà ai diritti fondamentali che prima il sistema paese riusciva a garantire - dalla salute all’istruzione - o spesso di averli con livelli di qualità ed efficienza molto più bassi che in passato.

Seguono poi i disagi dell’occupazione giovanile, la perdita di tutele nel mercato del lavoro, la precarietà come standard della vita occupazionale e quindi anche personale. Oggi è facile ritrovarsi repentinamente in una situazione di povertà anche estrema. Basta perdere il lavoro e non avere una rete familiare di salvataggio, come per tanti anni ha avuto l’Italia. A dircelo, ad esempio, sono i dati sull’utenza italiana in aumento allo sportello di aiuto dell’Help center per i senzatetto. In un grande polo come quello della Stazione Centrale di Roma i senza dimora che prima erano soprattutto stranieri, sono italiani, uomini e giovani tra i 30 e i 49 anni. Spesso padri che hanno perduto il lavoro e che non vivono in casa dopo una separazione.

Il Rapporto accende una luce su una povertà che non vediamo ancora, in modo prevalente, ai margini della società, ma che ha iniziato a trasformare la vita del ceto medio abbassandone progressivamente tutele e garanzie. Il povero è meno visibile, è dentro la società e non ne è estromesso. E’ un povero che deve ancora pienamente prendere coscienza di esserlo diventato, colpa di una negazione che persino dall’alto delle Istituzioni è stata cavalcata come arma d’imbonimento e rassicurazione.

Anche se molti sono gli anziani ridotti al limite della sussistenza, sono i giovani i protagonisti di questa matematica impietosa che non solo rendiconta la crisi, ma pronostica scenari di stallo, privi di dinamicità. Ora, se sarà su questo che il futuribile partito dei cattolici vorrà iniziare a lavorare da subito difficile credere che potrà farlo senza i partiti di sinistra e le piazza dei sindacati come FIOM e CGIL tutta.

Le schermaglie dell’ultima fase del governo Berlusconi, tenuto in piedi da quattro stampelle, e le ipotesi di alleanza lanciate dai partiti di sinistra e di centro rappresentano l’ennesimo colpo di coda di una politichetta che non ha compreso che a cambiare dev’essere il ragionamento politico e non le sue comparse d’occasione. Oltre la crisi c’è un modo nuovo di leggere i beni primari e i diritti, un modo di renderli immuni dal calcolo del profitto; il metodo di risparmio non è la spada dei tagli alla vita delle persone comuni.

E’ lì che ci porta questo bilancio della povertà grazie a chi sa o saprà capire che questi non sono numeri che possono rimanere ancora fuori alle porte delle Chiese o nelle mense del volontariato, ma sono questioni politiche ed etiche che devono finalmente entrare in Parlamento.

di Mariavittoria Orsolato

Una giornata densa. Come il fumo acre dei lacrimogeni, come il fumo nero delle autovetture in fiamme. Roma brucia di nuovo in questo 15 ottobre, data di mobilitazione globale contro le politiche economiche messe in atto da governi e finanza; e assieme alla capitale se ne vanno in fumo anche le buone intenzioni con cui questa scadenza era stata programmata. Le immagini violente proposte dalla tv, gentilmente offerte da forze dell’ordine e da una comunque piccola parte dei 200.000 accorsi da tutta Italia, sono sicuramente eloquenti e denudano il fianco di quello che - il condizionale a questo punto è d’obbligo - avrebbe dovuto essere il debutto del primo movimento italiano interamente anticapitalista.

Mettere a ferro e fuoco il centro di Roma significa inevitabilmente attirarsi le ire dei benpensanti e le critiche di quanti, pur sfilando al tuo fianco, non condividono il nichilismo di certe azioni. Ma c’è anche da dire che la gestione della piazza da parte delle autorità preposte è stata totalmente inadeguata e spesso spropositata nelle reazioni: se la violenza è di per se condannabile allora anche la polizia non deve essere esente da critiche per quanto riguarda la giornata di ieri.

Ma andiamo per ordine. Il corteo parte da piazza Esedra puntuale alle 14, al suo interno tutte le realtà militanti della compagine sociale: ci sono i no-tav, i precari, gli autonomi, i cobas, i collettivi studenteschi. Tutti lì per criticare e respingere la degenerazione di questo capitalismo agonizzante, tutti lì per rispondere con la protesta alla spada di Damocle della precarietà, sia lavorativa che esistenziale, che investe larghissimi comparti della società odierna. Dopo nemmeno 500 metri, il primo degli atti di quelli che per comodo vengono chiamati da alcuni “black bloc”, da altri infiltrati, da altri ancora anarchici ma che alla vista sono solo persone vestite di nero che evidentemente non hanno nulla da perdere: l’Elite Market, un alimentari in via Nazionale, viene preso d’assalto. Alle vetrine sfondate si aggiunge poco dopo una macchina incendiata, svariate banche vandalizzate, cassonetti divelti, un dipartimento del Ministero della Difesa dato alle fiamme e quant’altro purtroppo ricordi la Genova del 2001.

Ad agire sono in pochi e buona parte del lunghissimo serpentone li censura apertamente. Oltrepassato il Colosseo, all’incrocio tra via Merulana e via Labicana il corteo viene spezzato dall’arrivo delle forze dell’ordine: sono quasi le quattro del pomeriggio e, tolti gli elicotteri che ronzano dal mattino,  questa è la loro prima apparizione. Le cariche sono violente, i lacrimogeni volano ad altezza d’uomo e i caroselli delle autoblindo fanno scappare i manifestanti come formiche impazzite. Scene già viste che però non producono effetti diversi. Poco dopo in piazza San Giovanni è guerriglia: volano sanpietrini, un ragazzo viene investito da un blindato dei carabinieri in retromarcia, l’aria è resa irrespirabile da lacrimogeni e fumogeni. Alle 19, dopo gli idranti contro i Cobas e un mezzo dei CC dato alle fiamme, i manifestanti vengono dispersi del tutto ma gli scontri proseguono a macchia lungo il percorso a ritroso.

La giornata di ieri, questo 15 ottobre che per un motivo o per l’altro rimarrà nella storia, è stata portata avanti in altre 962 città del mondo ma solo in Italia la manifestazione è stata così tanto partecipata e così tanto aggressiva. Ed è questo, aldilà delle facili condanne, il punto su cui vale la pena riflettere. Quanti credevano che la manifestazione sarebbe andata diversamente peccano d’ingenuità o hanno la memoria corta: dopo quello che è accaduto lo scorso 14 dicembre, sempre a Roma, l’esito della giornata di oggi era praticamente scontato.

Come ha affermato uno dei membri di Wu Ming, analizzando lucidamente gli scontri di ieri, “non ci sarà mai più una manifestazione nazionale di movimento che non includa quel che abbiamo visto oggi”: nel momento in cui convogliano nello stesso luogo migliaia di giovani e precari delusi, sfiduciati e furibondi è inevitabile che la distruttività prenda il sopravvento. Sono (siamo) quasi due generazioni alle quali un futuro viene esplicitamente negato, prive di qualsivoglia rappresentanza politica o sindacale, schifati dalle istituzioni; in questo contesto la manifestazione collerica, il lancio esasperato di oggetti e l’uso di armi improprie non sono altro che espressioni evidenti di un malessere e di una rabbia sociale ormai impossibili da sedare. In moltissimi sono disposti allo scontro e negarlo non ha senso né è onesto.

Se questo allora è il polso della protesta italiana, invocare grandi scadenze a livello nazionale non può che essere controproducente; ed è proprio questo a determinare l’inevitabile fallimento di una scadenza importante come quella di ieri. Nel resto del mondo le proteste erano più o meno localizzate, le pratiche sono state diversificate e l’unico principio accomunante è stato quello dell’Occupy Everything, essere ovunque e ovunque portare scompiglio a proprio modo. Una protesta composita ma non per questo meno efficace o invasiva che ha il pregio di evitare concentramenti di polizia - a Roma erano in 2500 - e barricate, donando in più una visibilità “politacally correct”, facilmente condivisibile da larghi comparti dell’opinione pubblica con cui, piaccia o meno, è necessario confrontarsi.

Ieri tutto il mondo è andato in quella direzione nel mettere in pratica la prima manifestazione anticapitalistica globale: in Italia, purtroppo, questo afflato di resistenza è stato già assunto e archiviato sotto la voce “guerriglia urbana a Roma”.

 

di Fabrizio Casari

Volendo ricapitolare le notti dei lunghi coltelli in casa Pdl si potrebbero prendere in esame le mosse di Formigoni e Scajola da un lato, sostenuti da Pisanu e (pur con un ruolo diverso, Fini) e Alfano e Cicchitto dall’altro: i primi a chiedere "un passo indietro" al premier, i secondi a riaffermare che il premier non si tocca. Terzo incomodo Verdini, che recita il ruolo di chi prende il tavolo per le gambe in attesa di decidere se stabilizzarlo o farlo volare, a seconda di quali saranno le portate apparecchiate. Vanno in onda così le prove generali del regicidio. Ovviamente, tutti smentiscono e nessuno conferma, ma pare che una possibile mediazione sarebbe quella di riconoscere a Scajola e Pisanu un ruolo importante nel Pdl, cosicché Alfano dovrà trattare e cedere quote di sovranità che però non sono nelle sue mani. Ma é fuffa o quasi.

Apparentemente lo scontro é sulla gestione del partito, con Verdini e Scajola che, non a caso, incrociano le lame. Partito leggero o pesante? Sono due definizioni che avrebbero avuto senso diverso tempo fa. Ora, infatti, a dare per morto il partito è stato il suo fondatore e proprietario, mentre a dare per scaduto il suo stesso tempo sembrano essere i suoi "infedeli". O almeno tali sarebbero, a dar retta agli adulatori del boss, giornali di famiglia in testa, che li definisce sobriamente un drappello d’ingrati che tramano alle spalle del re cui tutto o quasi devono.

Diverso scenario, invece, a leggere quanto filtra delle interviste dei "frondisti" alla stampa avversaria: sarebbe in corso un tentativo di rilancio del centrodestra che certo, in assenza di garanzie sulla non ripresentazione del caudillo, lo vedrebbe divenire l’oggetto principale della contesa. Piuttosto chiare le dichiarazioni di Saro, vicino a Pisanu: "Si prepara una raccolta di firme su un documento che dovrà essere preso nella giusta considerazione. Se, invece, prevarranno coloro che minimizzano e rassicurano, si andrà avanti al buio e l'incidente sarà dietro l'angolo". Tradotto: abbiamo all'incirca 35 parlamentari e il governo si regge su otto o nove.. I gattoni sono diventati gattopardi.

La fronda é un segnale d'insofferenza? Più che altro sembra un'adunata. Berlusconi, infatti, resisteva ogni oltre decenza fino a quando alternava dichiarazioni di stampo opposto circa la sua ricandidatura, ma la sua dichiarata intenzione di cambiare nome al partito e quindi di ripresentarsi ha inevitabilmente accellerato le dinamiche interne. Perché è proprio su Berlusconi e la sua eredità politica che le nuove correnti del retrobottega democristiano si riorganizzano. E dunque via alle cene, agli incontri segreti annunciati sui giornali, alle conte più o meno affidabili e ai messaggi trasversali, criptati o in chiaro dipende solo dal grado di democristianicità del messaggero di turno. La fine del tocco magico di un premier divenuto ormai un re Mida alla rovescia è insieme il fondo e lo sfondo della contesa.

La trasformazione della soluzione di ieri nel problema di oggi, nasce non solo dalla crisi politica che investe il governo, quanto dalla necessità urgente di evitare il crollo del fronte conservatore: che i filistei debbano per forza seguire Sansone, insomma, é tutto da stabilire. Porre un argine alla caduta di credibilità dei conservatori par essere la recita che anima il proscenio. In questo senso, la chiamata alle armi di Bagnasco ha rappresentato lo start-up vero e proprio della ripresa d’iniziativa politica dei centristi cattolici ovunque e comunque collocati.

Non è la paura della crisi economica e sociale, della perdita d’identità e d’immagine internazionale dell’Italia che muove i congiurati, né lo sono il debito pubblico alle stelle e la disoccupazione oltre ogni record storico; e non è nemmeno il tentativo di riportare il nostro sgangherato paese nell’alveo dei paesi europei, pur con le sue ataviche, pessime particolarità. A muovere le truppe c’è la consapevolezza della crisi mortale di un sistema di potere durato un ventennio e la pericolosa incertezza circa il prossimo futuro politico del paese, che non potrà non essere disegnato nelle urne.

Non è quindi questione di mera eredità della leadership, se toccherà insomma a Formigoni o a Scajola, a Pisanu o a Fini; generali, colonnelli o sergenti che siano delle truppe ribelli, ritengono essenziale che il patrimonio elettorale della destra non vada perduto, bensì recuperato attraverso il ritorno ad un modello politico imperniato sul partito e sulla parrocchia, che rimetta in pista una classe dirigente reazionaria e cattolica in grado d’impedire che la nausea generalizzata per l’operato del governo Berlusconi-Bossi-Scilipoti diventi l’elemento decisivo per la prossima vittoria del centro-sinistra.

Insomma, magari a scorrere i giornali sembrerebbe di essere tornati ai fasti e ai riti della prima Repubblica, ma così non é; non c'é la grandezza, non c'é lo spessore, non c'é nemmeno la politica a poterli assimilare. La DC per cambiare governi almeno si degnava di convocare un congresso dove le correnti si posizionavano, se le davano di santa ragione e, chi vinceva, entrava a Palazzo Chigi, mentre chi perdeva si accontentava di limitare i danni con sottosegretariati ed enti. La sostanziale differenza con quanto accade oggi è che nella Prima Repubblica i democristiani si combattevano in nome e per conto d’interessi che, di volta in volta, riguardavano le priorità dell’agenda politica. Si cambiavano i governi, ma non c’era la fine di un regime alle porte.

Qui invece siamo al complotto di Palazzo, alla libera uscita (pur se dalla porta di servizio) da una crisi che è di regime, non di governo. Sono in gioco la fine di Berlusconi e l’eredità del berlusconismo. E non è un caso che il terremoto nel partito-azienda coinvolga anche il cosiddetto “Terzo polo”, il quale non ha come destinazione d’uso la sua unica rendita di posizione, come alcuni sono propensi a credere. Il ruolo di Casini e Fini, il loro possibile arruolamento nella nuova armata bianca (su cui gli schieramenti interni al PDL si contano e si scontrano) è molto più che un tatticismo e ben altro che la ricerca di sangue fresco da pompare nelle vene esauste del governicchio in carica. E' progetto politico a tutto tondo.

L’allargamento della destra al centro destra o l’arroccamento dell’asse PDL-Lega comporta due letture diverse tra loro sulle prospettive politiche della destra italiana. L'obiettivo dei gattopardi democristiani é quello di azzerare il duo Berlusconi-Bossi per poter rimescolare le carte, simmetricamente all'affossamento del mai nato bipolarismo e della resurrezione del ruolo dei partiti come portatori di progetti politici e sociali. D'altra parte anche la Lega non scoppia di salute e Bossi, che nel gestire la Lega dimostra d'ispirarsi a Kim-il-sung, dovrà affrontare le critiche crescenti da ogni dove del "popolo padano". Maroni é seduto sogghignante sulla sponda del Po, mentre per il senatur si profila all'orizzonte l'autunno del patriarca.

L’obiettivo finale dei dissidenti democristiani è la conservazione di un regime e lo sbarramento delle porte al ricambio dello stesso: in questo, le assonanze con la vecchia Dc ci sono. Ma la partita è tutta da giocare e gli esiti sono imprevedibili. Non sono più i tempi del mare aperto dove regnava sovrana la balena bianca. Ci si trova semmai in uno stagno, dove un caimano balla un ultimo disperato valzer in compagnia di una trota adulta.

di Carlo Musilli

Come Edimburgo sta alla Scozia, come Cardiff sta al Galles, così Varese sta alla Padania. Proprio qui, nel cuore pulsante del regno leghista, si è consumata la deposizione del sovrano in camicia verde. Non è stato un bardo celtico a raccontare questa storia, ma qualche centinaio di delegati locali. La morale è che tutto passa: anche il carisma, anche la leadership. Umberto Bossi non è più la guida del Carroccio.

La defenestrazione avviene nell'Ata Hotel varesino, dove c'è da eleggere il nuovo segretario provinciale della Lega. Sembra facile, soprattutto perché è rimasto in lizza un solo candidato: Maurilio Canton, uomo vicino alla famiglia Bossi e sponsorizzato dal capogruppo alla Camera, Marco Reguzzoni. Gli altri due candidati si sono lasciati convincere a dare forfait appena due giorni prima. Il ragionamento è semplice: a Varese non vogliamo problemi, la strada deve essere spianata. Ma avevano fatto male i conti.

Problema: Canton non è stato eletto, bensì nominato dall'alto. Investito direttamente da sua maestà Bossi, che per l'occasione è presente in sala. Il colpo di mano, però, fa andare su tutte le furie i dirigenti locali del partito, che danno vita a uno spettacolo inusitato in oltre 20 anni di storia leghista: la contestazione diretta del capo. E nell'Ata Hotel è il delirio. Qualcuno rumoreggia fischietto alla bocca, qualcun altro tira spintoni, i più strillano frasi come "vogliamo votare", "questo è un soviet", fino al grido di William Wallace: "Libertà!". Il giorno dopo compare perfino uno striscione beffa fuori dalla sede di via Magenta: "Canton segretario di chi? Di nessuno!!!".

Ora, le divisioni all'interno della Lega non sono certo una novità, eppure stavolta qualcosa è cambiato. Per spiegare i fatti di Varese non basta il vecchio schema che vede contrapposti il cerchio magico dei bossiani agli eretici maroniani, tanto più che il ministro degli Interni aveva esplicitamente chiesto ai suoi di non scaldarsi per una bega di provincia. La novità è che la contestazione al grande capo per la prima volta si è spostata dal Palazzo alla base territoriale, da sempre spina dorsale e ragion d'essere del Carroccio, suo principio ed energia vitale. Di verde vestiti, tessera alla mano, i delegati ormai urlano in faccia al Senatùr la loro insofferenza. A placarli non bastano più i velleitari richiami all'isteria collettiva della secessione.

Gli sciacquettii delle ampolle nel Po non commuovono più nessuno e crociate inutili come quella per i ministeri al nord non sono sufficienti a ricompattare le fila. Il fondatore della Lega fa quasi tenerezza quando, alla fine di una giornata da incubo, sostiene di aver visto fra le prime di contestatori dei fascisti, gente dell'Msi che ha "organizzato tutto". Tanto valeva prendersela con gli ectoplasmatici bolscevichi che - stando al Presidente del Consiglio - tramano nell'ombra contro il Paese.

La realtà è che i leghisti veri, quelli sparsi nella pianura nebbiosa, non riconoscono più l'autorità del loro antico condottiero. Ormai è troppo vecchio, scarsamente capace di verbalizzare e soprattutto eccessivamente appiattito sulle posizioni berlusconiane. Nella pur fondata convinzione che senza il Cavaliere le camicie verdi non vedrebbero più nemmeno col binocolo i banchi della maggioranza, Bossi si è scordato di lavorare per quei privilegi che tanto stanno a cuore alla sua gente. O forse semplicemente non ha potuto, impegnato ora a salvare dal carcere deputati e ministri del Pdl, ora a votare manovre economiche che stroncano sul nascere ogni possibile velleità di federalismo, opera eternamente incompiuta dell'epopea leghista.

Nemmeno l'impuntatura di quest'estate sulle pensioni d'anzianità ha convinto nessuno. E' vero, quelle non sono state toccate, ma tutto il resto sì. E ormai sembra troppo tardi per tornare indietro. Da qualche settimana il Senatùr sta cercando di prendere le distanze dal premier, almeno formalmente. In questa direzione vanno l'altrimenti inspiegabile sostegno al candidato tremontiano per la guida di Bankitalia, Vittorio Grilli, e la più recente opposizione all'ennesimo condono. Berlusconi per adesso lascia fare, occupato da problemi interni ben più preoccupanti. Sa che, al momento del bisogno, i voti padani non mancheranno. 

 


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