di Mariavittoria Orsolato

Il nuovo governo Monti, se non ha galvanizzato i mercati come sperato - purtroppo per noi, il tanto temuto spread con i bund tedeschi continua a salire - ha però raccolto ciechi proseliti tra la maggioranza degli italiani che, ormai stremati dal ventennio berlsuconiano, hanno accolto il cambio come un evento salvifico a prescindere. Non è però tutto oro quello che luccica e, nel caso del nuovo esecutivo, a luccicare per ora è il piombo.

Mentre da Palazzo Chigi si chiedono enormi sacrifici agli italiani per recuperare 30 miliardi di euro in un solo biennio, ieri pomeriggio la Commissione Difesa alla Camera ha discusso cinque programmi di acquisto di armamenti militari, la cui spesa preventivata ammonterebbe all’esorbitante cifra di 500 milioni di euro.

Nel dettaglio dovrebbero essere stanziati 198 milioni di euro per 477 “lince” - i veicoli tattici leggeri prodotti da Iveco e utilizzati ultimamente contro i valligiani No Tav - 157 per altri veicoli tattici multiruolo (stavolta di medio calibro) 10 milioni di euro per un numero imprecisato di blindati con cannoni da 120 millimetri e poi “sistemi acustici per la localizzazione delle sorgenti di fuoco”, barriere antisfondamento, veicoli automatici di perlustrazione per altri 56,3 milioni. Senza contare la partita di 121 cacciabombardieri F35 per cui, come già prontamente segnalato nelle proteste studentesche e pacifiste, l’Italia ha preventivato di spendere la bellezza di 16 miliardi di euro.

Tutti soldi che il Paese potrebbe destinare subito ad altri e ben più nobili scopi ma che il nuovo esecutivo pare voglia riservare agli armamenti per una non meglio precisata difesa nazionale e per le missioni all’estero che non ha alcuna intenzione di revocare (un militare alla Difesa non può che essere letto in questo modo). Monti certo non c’entra, ma solo nel 2010 per le spese militari italiane sono stati stanziati 3,4 miliardi di euro in più rispetto all’anno precedente, con un aumento percentuale dell’8,4%. Come ha segnalato Thomas Mackinson su Il Fatto Quotidiano, il conto generale per foraggiare il comparto marziale sale a quota 20.556,9 milioni di euro, corrispondente all’1,283% del Pil e colloca l’Italia all’ottavo posto al mondo per spese militari con il dato record di ben 3 milioni spesi ogni ora solo per gli armamenti.

Da sempre le crisi economiche si provano letteralmente a combattere con le operazioni belliche e l’industria pesante. Pare che anche stavolta non si voglia cambiare registro e gli ultimi report dell’IAEA (l’agenzia internazionale sull’energia atomica) riguardo all’Iran hanno già indicato quello che in tempi non troppo dilatati potrebbe risultare il nuovo ghiottissimo target.

Mettendo da parte il futuribile fantapolitico, i cinque programmi in discussione ieri fanno parte di un più ampio progetto di digitalizzazione delle forze di terra avanzato dal Ministero della Difesa nel 2009 e inserito nel programma pluriennale di spesa. A beneficiarne sarà soprattutto la crème della grande industria nostrana: Iveco, Fiat, Oto Melara, Finmeccanica, Fincantieri e AugustaWestland.

La lista della spesa militare italiana va quindi ben oltre i mezzi di terra: sono ancora in corso i programmi di acquisto relativi al 2010 e ce n’è per tutti i gusti. Solo nell’area interforze è prevista una spesa da 900,5 milioni di euro tra lo sviluppo di nuovi velivoli e l’implementazione del sistema WIMAX per l’accesso a reti di telecomunicazioni a banda larga e senza fili.

Nell’ambito dei programmi navali sono previste spese per 770,3 milioni: quelle più rilevanti riguardano l’acquisizione della nuova nave portaerei Cavour a Fincantieri da 52,7 milioni, di due fregate antiaeree di scorta classe Orizzonte per 95,6 milioni e dei sommergibili di nuova generazione U212 (110,4 milioni), oltre che l’ammodernamento di mezza vita di unità navali che ci costerà 22,7 milioni. Ci sono poi i programmi relativi agli elicotteri per 211 milioni nonché l’acquisizione del sistema missilistico superficie/aria FSAF da 23,7 milioni, mentre nel comparto aeronautico si prevedono investimenti per quasi un miliardo di euro.

Il capogruppo Idv in Commissione Difesa, Augusto Di Stanislao, ha presentato una mozione per chiedere di fermare lo “shopping” militare e rivedere i programmi di spesa in scadenza - entro il prossimo 3 dicembre, infatti, quella partita di carri e veicoli leggeri, deve ricevere l’approvazione formale - ma anche nella società civile sono già in moltissimi ad essersi mobilitati per contrastare questo piano di spese folli. Com’é noto, molti paesi - Stati Uniti in testa - hanno ripensato la loro spesa pubblica tagliando in primis quella destinata agli armamenti, e ora che all’Italia viene chiesto un enorme sforzo per far quadrare i conti non si capisce perché non si possano sacrificare queste voci di spesa, ingiustificate in un contesto di non belligeranza come quello in cui - per ora - stiamo vivendo.

di Fabrizio Casari

Dopo alcuni mal di pancia e alcune manovre obbligate di parziale riassetto della coalizione, il partito di proprietà di Silvio Berlusconi ha deciso di sostenere il nuovo governo. Ci sono diverse spiegazioni per questa scelta. Se infatti in una improbabile riconversione democratica della cultura istituzionale urlano al golpe, strepitano contro il commissariamento e ammoniscono contro l’operazione “di palazzo”, votano poi convintamente la fiducia all’Esecutivo. Del resto il PDL non trova nel programma di governo del professore elementi di politica economica così ostili e alcuni degli uomini che compongono il governo, per le idee che professano e gli interessi che rappresentano, sono certamente iscrivibili a un’area antitetica alla sinistra.

Soprattutto pensando ad alcuni neoministri e alla relazione con le gerarchie vaticane, che sostengono con furia e fede il nuovo governo, il PDL trova non pochi agganci con i propri interessi politici e patrimoniali. Vedere perciò il palco del Teatro Manzoni con al centro i tre direttori degli house horgan di famiglia gridare al complotto fa sorridere, soprattutto pensando al fatto che tanta animosità nel quadretto si spiega facilmente: caduto Berlusconi, i loro lauti stipendi sarebbero davvero a rischio. Il Cavaliere, invece, diversamente da Ferrara, Feltri e Belpietro, ragiona e vede lungo, sa cosa significa fare un passo indietro oggi per farne due avanti domani. Certo, qualcosa dovrà sacrificare alla contingenza politica, ma proprio la necessità di evitare le urne nell’immediato ha spinto la destra italiana a far nascere il governo Monti. Perché?

Perché per la prima volta, negli ultimi quindici anni, i sondaggi d’opinione assegnano al Pd, quale che sia la composizione del suo schieramento, la maggioranza relativa. Si potrebbe dire, con non troppa ironia, che forse proprio per questo non si è andati a votare. Certo é per questo che il PDL ha scelto di votare la fiducia a Monti. Giuliano Ferrara pare non essersene accorto, ma le urne da qui a due mesi e mezzo avrebbero rappresentato la definitiva sconfitta per Berlusconi. Il quale, oltre a vedere capitalizzare dalla sinistra il generale ripudio del Paese per il Cavaliere, sarebbe stato additato come l’uomo che, per salvare se stesso, non esita ad affondare il Paese.

Argomento durissimo da affrontare in una campagna elettorale che già si presenta in salita e con problemi di assetto interno non semplici da risolvere. Si aggiunga poi che un’eventuale, pesante sconfitta del Cavaliere avrebbe aperto la strada ad un governo che, sull’onda del mandato popolare, avrebbe forse messo davvero mano ad una serie di norme - dal conflitto d’interessi alla giustizia, dalla riforma fiscale alla normativa anti-trust - che prefigurerebbero una vera e propria debacle per Berlusconi e delle sue aziende.

Rimandando invece di qualche mese il voto, Berlusconi coglie due risultati: il primo è quello di riassettare il partito ormai slabrato, il secondo di avere il tempo per riorganizzare idee, persone e mezzi per lanciare una campagna elettorale durissima (cosa nella quale, però, Berlusconi è maestro). E, diversamente da quanto sarebbe stato affermato nel caso del voto immediato, potrà presentarsi in pubblico asserendo di aver fatto un passo indietro per il bene dell’Italia e che la sua uscita è stata determinata da un attacco speculativo sui titoli di Stato e non su una sua crisi di governabilità. Dunque, altro che interessi privati, ma alto senso del dovere e dello Stato l’hanno costretto a rinunciare al potere. Uno statista, no?

C'è ora un anno e mezzo di tempo a disposizione di Berlusconi per far dimenticare il rifiuto popolare nei suoi confronti. Un anno e mezzo dove nulla sarà risparmiato. La campagna elettorale lo vedrà candidato: le presunte nuove facce (Alfano in testa) sono bubbole. La situazione tutt’altro che rosea delle sue aziende lo obbliga a stare in campo con tutti i mezzi necessari; solo una vittoria potrà, come nel 1994, salvare se stesso e le sue proprietà dal mercato e dalle leggi vigenti.

Quanto ai provvedimenti annunciati da Monti, non a caso Berlusconi si è detto favorevole al ripristino dell’ICI ma non alla patrimoniale. Tassa di successione e patrimonio non si toccano, per le ville si può chiudere un occhio, che è persino utile. Potrà dire che lui aveva abolito l’ICI e chi l’ha sostituito l’ha ripristinata. Ad un paese nel quale 16 milioni di italiani posseggono una casa, il messaggio arriva forte e chiaro. La scommessa del cavaliere è quella di sovvertire i sondaggi per salvarsi. In questo senso, la campagna elettorale è già cominciata.

di Carlo Musilli

Ieri il neo premier Mario Monti ha spiegato a noi e al Parlamento quello che intende fare dell'Italia. Il suo è stato un discorso asciutto, tutt'altro che rivoluzionario, soprattutto attento a distinguere il possibile dall'impossibile, considerando i precari equilibri di maggioranza, il filo su cui è costretto a camminare. Dal suo esecutivo ci aspettiamo tutti una sterzata importante, in grado di convincere i mercati e l'Europa che anche per il nostro Paese è possibile cambiare.

Dobbiamo però fare attenzione a non sconfinare nell'immaginario. L'entusiasmo dilagato fra molti per la caduta di Berlusconi non deve farci credere alle favole. Il compito del nuovo governo è essenzialmente di raddrizzare alcune delle storture causate da decenni di mala amministrazione. Ma è più che illusorio fantasticare su una metamorfosi sistemica: sarebbe una missione impossibile per una maggioranza bulgara nel corso di un'intera legislatura, figuriamoci per una squadra di tecnici che nella migliore delle ipotesi avrà a disposizione un anno e mezzo. Insomma, si tratterà di una medicina amara, non di un elisir miracoloso. Non stiamo per trasformarci in un paese scandinavo.

Anche se in campo c'è un team bocconiano, ancora una volta il nodo è politico. E' ragionevole credere che Monti avrà i numeri in Parlamento per far passare alcune riforme importanti, ma queste dovranno necessariamente avere il placet del Pdl. Stante il no a priori della Lega, infatti, se si tratterà di bocciare un Ddl la vecchia maggioranza dimostrerà di essere ancora viva al Senato e anche alla Camera potrebbe trovare il modo di dare il colpo di coda.

In termini davvero strutturali, questo significa che il nuovo governo non avrà problemi a portare a termine la riforma delle pensioni. Il Carroccio è contrario, ma i pidiellini no. Anzi, non vedono l'ora di scaricare il barile. Età pensionabile a 67 anni e abolizione degli assegni d'anzianità sono allo stesso tempo uno dei cambiamenti reclamati con maggior forza da Bruxelles e uno dei più gravi motivi di divisione con i vecchi alleati in camicia verde.

Altra misura accettabile dovrebbe essere la reintroduzione dell'Ici sulla prima casa (Vaticano escluso, naturalmente, a giudicare dal ripieno cattolico che farcisce il nuovo esecutivo). Anche il Pdl sa benissimo che non c'è motivo per opporsi a una tassa benaccetta più o meno ovunque, ma non avrebbe mai potuto riproporla sua sponte per non perdere la faccia, essendo stato questo uno dei punti centrali che gli ha consentito di vincere le ultime elezioni. Non dovrebbero esserci problemi anche per altri provvedimenti già previsti - seppur in modo più che fumoso - nelle ultime manovre estive, come l'inserimento dell'obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione e il piano di dismissioni degli immobili statali.

Passiamo ora a quello che il nuovo esecutivo con ogni probabilità non potrà fare. In primis, la riforma che più vorrebbero dall'opposizione, quella elettorale. Berlusconi ha già detto ai suoi che non se ne parla: "Va cambiata, ma non da questo governo". Lo stesso discorso vale per l'ipotesi patrimoniale: anche su questo punto il Cavaliere è stato chiarissimo con Monti, ancor prima di cedergli il posto. Quanto agli eterni romantici che ancora sperano in una legge contro il conflitto d'interesse, è facile rispondere che, se non se ne sono mai occupati i governi con maggioranza di centrosinistra, non si può davvero pretendere da quello che oggi tiene le redini.

Il capitolo finanza merita invece un discorso a parte. Stavolta non sono in gioco solo gli equilibri parlamentari, ma la composizione stessa del Cdm. E' verosimile chiedere a questo esecutivo interventi pur auspicabili come la Tobin Tax (tassa sulle transazioni finanziarie), la riforma del sistema bancario o l'introduzione di nuovi argini alla speculazione? La risposta  non è difficile. Non serve nemmeno andare a studiarsi i rapporti fra i nuovi ministri e i vari istituti di credito. Basta considerare che l'effettivo numero due di Monti (con potere su due dicasteri: Sviluppo economico, Infrastrutture e trasporti) è Corrado Passera, fino a ieri ad di Intesa Sanpaolo, la più grande banca italiana.

Non voliamo troppo lontano con la fantasia, facciamo un passo alla volta. Auguriamoci che Monti duri abbastanza da contenere l'incendio che da mesi sta massacrando i nostri titoli di Stato. E magari riesca anche a ricucire i rapporti internazionali straziati da Berlusconi. Intanto, anche se non sembra, sarà sempre il Cavaliere a tenere in mano (quasi tutti) i fili. Perché alla fine quello che nasce dalla politica nella politica muore. E il Professore potrebbe trasformarsi senza volerlo nella manna dal cielo per la destra. Se raggiungerà la meta, l'onda emotiva del suo successo andrà a beneficio dell'Udc (non per niente Casini ha già tracciato un filo rosso, segnalando lo spirito democristiano che anima i nuovi governanti). Se invece fallirà, a soffrirne sarà il Pd, a lui collegato nella mente degli elettori dalla contrapposizione al Cavaliere. Intanto il Pdl si sarà riorganizzato. E che il prossimo candidato sarà davvero Angelino Alfano è ancora da dimostrare. 

 

di Mariavittoria Orsolato

Tanti furono gli studenti che, il 17 novembre 1939 a Praga, trasformarono il funerale di un loro compagno in una grande mobilitazione studentesca contro l'occupazione nazista e tanti, circa 1200 di loro, furono arrestati e deportati nei campi di concentramento. Tanti, furono gli studenti del Politecnico di Atene che il 17 Novembre 1973 resisterono fieramente ai blindati dei colonnelli, creando i presupposti per la caduta della dittatura militare in Grecia.

Tanti furono i giovani che, nel Forum Mondiale Sociale di Bombay, nel 2004, chiesero di considerare il 17 Novembre come il Primo Maggio studentesco. E tanti, veramente tanti, i giovani che ieri, 17 Novembre 2011, sono scesi in piazza assieme ai lavoratori appartenenti alle forze sindacali di base per rispondere alla chiamata nella Giornata Mondiale dello Studente.

A meno di una settimana dall’ultima mobilitazione, i ragazzi delle scuole e delle università italiane sono tornati a manifestare in più di 60 città italiane sotto l’egida dell’Occupy Everything per dare il loro benvenuto al neonato esecutivo Monti. Perché, come scrivono in uno dei loro comunicati, “non ci fidiamo di chi elogia le Gelmini e Marchionne come ha fatto Mario Monti in passato, non ci fidiamo di chi propone nella lista dei ministri docenti e rettori delle università private. Non ci fidiamo di un Governo fatto dalla Crui, non ci fidiamo di chi chiede sacrifici a una generazione cui viene rubato il futuro”.

Gli studenti - non tutti ovviamente, ma una buona parte, visti i numeri delle recenti manifestazioni - si sono informati bene e sanno che anche se ora Monti promette “crescita ed equità sociale” in passato ha spiegato molto chiaramente quali siano le sue idee in materia. In un editoriale del Corriere della Sera del gennaio 2011 Monti ha infatti lodato l'azione di due personaggi universalmente noti per la loro propensione al dialogo nei confronti di coloro che vivranno sulla propria pelle le innovazioni da loro proposte: Mariastella Gelmini e Sergio Marchionne.

I ragazzi poi non hanno assolutamente gradito i nomi dei “tecnici” messi a capo dei principali dicasteri, quello dell’Istruzione ovviamente in primis. Pur essendo rettore dello statalissimo Politecnico di Torino, Francesco Profumo è consigliere di amministrazione di Bankitalia ed è a capo del CNR; e dal momento che questo risponde in esclusiva proprio al ministero dell’Istruzione, il possibile conflitto d’interessi è dietro l’angolo. Temendo quindi un’ulteriore aziendalizzazione dei saperi sul modello delle università private rispetto a quella già decisa dall’ex ministro Gelmini, i manifestanti di ieri hanno quindi stigmatizzato l’eccesiva presenza nell’esecutivo di illustri ex alumni o docenti di Bocconi, Cattolica e Luiss.

A Milano, sede delle prime due, non a caso si sono registrati i primi isolati scontri tra gli studenti e le forze dell’ordine: quando il lungo corteo ha provato a deviare dal percorso per dirigersi verso l’università di cui è presidente il nuovo premier, è stato immediatamente caricato dagli agenti in tenuta antisommossa. Stesso copione a Torino, in questo caso per il tentato assedio alla sede piemontese di Bankitalia. A Roma invece i manifestanti hanno nuovamente sfilato in spregio all’ordinanza Alemanno e sono riusciti ad arrivare sotto Palazzo Madama, dove il nuovo governo Monti era intento a chiedere la fiducia, lanciando ortaggi al grido “Studenti unica opposizione”.

Per il resto le manifestazioni nelle altre città si sono svolte senza incidenti tra assemblee, discussioni e nuove occupazioni di facoltà e istituti superiori. Perché le proposte alternative per uscire dalla crisi e rilanciare uno stato sociale con strutture gratuite per tutti ci sono, sono ben articolate e assolutamente realiste. Dall’introduzione di una patrimoniale sui grandi patrimoni e di una moratoria sugli interessi sul debito alla vendita del tesoro della Banca d’Italia che potrebbe fruttare circa 100 milioni di euro. C’è poi l’ormai mitica lotta all’evasione fiscale, suffragata però da quella alla corruzione, al lavoro nero e agli infortuni sul lavoro che potrebbero, secondo i calcoli del sindacato di base, 400 milioni di euro all’anno.

A gran voce si chiede di cancellare l’acquisto dei nuovi cacciabombardieri F35 (costo per lo Stato, 16 miliardi di euro) e di eliminare le spese militari legate alle cosiddette missione di pace in Medio Oriente. Propongono di accantonare le faraoniche quanto inutili spese delle “grandi opere” e di cancellare immediatamente la a norma capestro contenuta nella legge 122 /2010 che ha privato 45.000 lavoratori del diritto alla mobilità e alla pensione.

Nella giornata di ieri le nuove istituzioni, Profumo in testa, si sono definite disposte al dialogo con le parti sociali in mobilitazione ma a guardar bene il primo discorso di Monti al Senato le intenzioni paiono inconciliabili con i fatti. A partire dal richiamo all’austerità, funzionale a rassicurare i mercati tanto vituperati, per arrivare al project financing sulle opere pubbliche, che sottende generose donazioni ai costruttori e ai palazzinari; dall’obbligatorietà dei test INVALSI nelle scuole per dare il contentino a Comunione e Liberazione e al partito delle scuole paritarie, al progetto non troppo implicito di continuare le missioni militari all’estero: tutte concessioni al progetto squisitamente politico dell’Europa Unita che dovrebbero dimostrare come i governi tecnici “tecnicamente” non esistano. Gli studenti ne sono consapevoli, attendiamo con ansia che anche il sedicente centrosinistra se ne accorga.

 

di Rosa Ana De Santis

Le linee guida approvate in gran silenzio dall’ex Sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, rappresentano l’ennesimo, sonante schiaffo di una politica, impreparata e prepotente, alla vita dei cittadini italiani. Non a tutti, ma in particolar modo a quelli più svantaggiati e provati da deficit fisici. In aperta sfida al dettame della Corte Costituzionale e al conseguente deliberato dei tribunali, la legge 40 si ritrova provvista di un sistema di veti, il più pesante dei quali prevede l’esclusione delle coppie fertili portatrici di malattie genetiche, anche gravi, dalla legge imponendo loro il veto alla diagnosi pre-impianto sull’embrione che la legge invece, in alcun passaggio, proibisce espressamente. Lo stesso divieto vale per tutte quelle donne che fossero portatrici di patologie virali anche gravi.

Una sorta di penalizzazione a norma di legge per quanti già la natura, il caso o il fato ha svantaggiato. Eppure il sistema della legge e il significato profondo di quanti non credono alla teoria dello “stato minimo”, ma al valore imprescindibile del welfare dovrebbe essere proprio quello di colmare le differenze discriminanti che la casualità, senza ragione o meriti di sorta, ha assegnato alle persone.

Oltre a questo veto, che rappresenta certamente la traccia di una misura eugenetica (proprio quello spauracchio utilizzato in tanto dibattito retorico), finalizzata però a tutelare chi ha migliori condizioni fisiche e genetiche a scapito degli altri, si passa alla creazione di una sorta di registro di quanti accedono alla fecondazione assistita. Una schedatura dei pazienti che può rappresentare, soprattutto in questo clima culturale, una pericolosa minaccia alla privacy.

 L’ultimo colpo di coda di un governo in caduta libera è stata quella di sfidare la parola della Corte Costituzionale e quanto già era stato stabilito per tantissime coppie. Il limbo che ne ricaviamo oggi, come hanno già iniziato a denunciare moltissime associazioni - “Luca Coscioni” in testa - è quello di una legge che si ritrova a penalizzare le coppie portatrici di malattie come la fibrosi cistica o la talassemia, condannandole ad andare fuori dal paese, ma che nello stesso tempo può prevedere il non impianto simultaneo di tutti e tre gli embrioni fecondati.

E’ questa forse la prova più evidente che la mossa della Roccella è stata una prova di forza e non di ragionamento politico. La causa di un’incoerenza interna alla norma che rappresenta il degno prodotto di una politica che cerca di superare la legge, di piegarla ai propri fini, di sfidarla lasciando ai cittadini tutto l’onere dell’interpretazione o semplicemente tutta la disperazione di rinunciare o espatriare.

Il risultato immediato dell’eufemismo linguistico utilizzato per vanificare sostanzialmente la diagnosi pre-impianto è quella di negare qualsiasi atto possa impedire lo sviluppo dell’embrione. Un giro di parole per imporre l’orrore di impiantare un embrione malato per poi, magari, poter ricorrere alla legge 194 nei primi tre mesi o anche dopo, secondo la fattispecie dell’aborto terapeutico. Il veto della Roccella avrebbe più senso se in Italia non ci fosse la legge sull’aborto. Data questa condizione, infatti, qual è il senso morale, e in secondo ordine, economico, di imporre ad una donna questo percorso? Un accanimento emotivo e fisico oltre che uno spreco di denaro pubblico.

Se il Consiglio Superiore di Sanità approverà queste linee guida l’Italia sarà sempre più fuori dalle procedure del resto d’Europa con una discriminazione pesantissima dei cittadini portatori di malattie.
L’odiosità di un paese che infligge per legge una pena che la natura nemmeno sa di aver assegnato.

 


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