di Fabrizio Casari

Ovunque si trovi, quale che sia la capitale da dove parla, Monti ripete ossessivamente che rientreremo dal debito in pochi anni e che si deve aumentare la flessibilità del lavoro per rendere l’Italia più appetibile per gli investitori. E giù complimenti, da Obama alla Merkel, da Sarkozy alle comunità finanziarie. Nemmeno più l’ombra della famosa equità minacciata: il vocabolario del professore monocorde si è finalmente liberato di quel concetto decisamente anomalo per lui.

Appare ormai chiaro, infatti, che rientrato in parte il differenziale dello spread, il governo Monti si sta dedicando al tentativo di riscrivere le norme che regolano il welfare, le relazioni industriali e il mercato del lavoro; in una parola, l’organizzazione economica e sociale del paese. E appare altresì chiaro in che direzione e a vantaggio di chi lo sta facendo. L’ossessione contro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha un valore simbolico molto più alto di quello materiale, per questo l’accanimento. La sua abolizione contiene in sé un valore paradigmatico delle relazioni industriali che si vuole imporre ai lavoratori e proporre alle imprese.

A leggere il bilancio degli oltre cento giorni di governo è difficile scorgere elementi di discontinuità. Non ci sono patrimoniale, riduzione delle spese militari e uscita dai conflitti dove siamo impegnati; non ci sono imposizioni o anche solo regolamentazioni al sistema bancario e mancano provvedimenti contro le speculazioni dei cartelli assicurativi; nessun controllo sulle aziende che aggirano le normative con trucchi contabili, non vengono previsti gli stop alle opere pubbliche dispendiose, disastrose ed inutili come la TAV e non c’è la vendita all’asta delle frequenze televisive.

Abbiamo assistito al grande battage mediatico sul contrasto all’evasione, ma il ripristino del reato di falso in bilancio non è alle viste. Meno che mai una legge drastica sul conflitto d’interessi (che d’altronde fatta da questo governo sembrerebbe la metafora del tacchino che si autoinvita alla cena di Natale). Il tutto innaffiato con l’illusione ottica sulle liberalizzazioni: davvero vogliamo credere che un po’ più di licenze di taxi e l’abolizione del tariffario minimo per i professionisti, insieme alla possibilità di acquistare le aspirine nei supermercati faranno ripartire il ciclo della crescita economica?

Questo è Monti, uomo di destra ancorato ai desiderata dei poteri forti che lo sostengono fintanto che il suo lavoro premia i loro interessi. Non è un caso, infatti, che il sostegno più vigoroso alla politica di un governo che non tocca i privilegi e si scatena contro i diritti venga dalle file del centrodestra. La continuità del governo Monti con quello Berlusconi, del resto, la ricorda quotidianamente l’attuale Presidente del Consiglio e il fatto che non organizzi festini a luci rosse risulta solo essere indicativo di differenze di etica ed estetica, pur apprezzabili con il suo predecessore.

Ma è indubbio che le scelte di politica economica siano integralmente nel solco del paradigma berlusconiano e, cosa ancora peggiore, nella continuità con la tutela degli interessi di cui l’ex-premier é portatore. Bastino solo, a titolo esemplificativo, lo strangolamento della Rai e il beauty contest sull’assegnazione delle frequenze del digitale terrestre.

Questo è Monti, dicevamo. Ci si può però domandare come mai il PD, in tutte le sue componenti, non riesca a profferire verbo, ad elaborare critica, a proporre una diversa impostazione da una linea che rischia di farci precipitare verso la Grecia piuttosto che arrampicarci verso la Germania. E, in conseguenza, come possa accomodarsi nel ruolo di spettatore pagante davanti al film della realizzazione del berlusconismo senza Berlusconi.

Nessuna dichiarazione proveniente dal Partito Democratico ha tenuto a precisare come il sostegno del centrosinistra al governo Monti sarà riconfermato solo in presenza di una discontinuità con il regime berlusconiano. Non vorremmo che la strenua opposizione al cavaliere fosse stata in fondo di natura personale, estetica; ritenendolo cioè inadatto a governare non in quanto portatore di una linea economica iniqua ma in forza dei suoi comportamenti personali, certamente lesivi del buon gusto e del bon ton istituzionale.

Può sembrare una forzatura, ma a ben guardare non lo è poi tanto. Quello che ormai distingue il PD è, infatti, una linea che somiglia molto a una resa incondizionata e il sostanziale isolamento della Cgil nello scontro con il governo racconta meglio di ogni altro dettaglio la crisi profonda, strutturale, dell’ammucchiata di ex che compone il partito di Via del Nazareno.

Una domanda appare ineludibile: cosa guadagna il PD dal sostegno a Monti? Oltre alla considerazione delle cancellerie occidentali, cosa porta a casa il PD dal dissanguamento del Paese? Cosa del suo ipotetico programma di governo trova accoglimento nell’attuale Esecutivo? E soprattutto: cosa condivide del suo operare al punto che lo riproporrebbe una volta al governo?

Fino ad ora le risposte, su questi e altri temi, non sono arrivate. O, peggio ancora, quando ci sono state sono risultate pericolosamente simili a quelle fornite dalla destra. Davvero è difficile da capire dove risiedano le differenze tra il programma delle banche e dal governo che da esse dipende e gli obiettivi di chi, da sempre, si dice rappresentante del mondo del lavoro.

Nello scorrere delle giornate, si resta in attesa di un colpo d’ala, di una presa di posizione che vada oltre la battuta per i tg. Di un’idea, di un ragionamento che, pur senza l’ardire di una tesi, faccia intravvedere un disegno di politica economica diverso da quello propinato. Una discontinuità politica, questo è quello di cui si sente il bisogno.

Ma vogliamo fotografare, pur grossolanamente, la situazione all’oggi? Vendola e Di Pietro, ai quali pure diversi meriti vanno riconosciuti, affermano con forza la necessità dell’unità con il PD, riproponendo la foto di Vasto come soluzione alla proposta politica. Difficile dargli torto. Nel contempo però, il PD ricorda che il legame con il centro è inevitabile, mentre Casini rammenta ogni giorno che questo governo è l’aspirazione del passaggio storico verso la rinascita del partito unico dei moderati (e certo non pensa al PD quando lo cita).

Dunque lo scenario è questo: Ferrero insegue Vendola e di Pietro, mentre Vendola e Di Pietro inseguono Bersani; Bersani però insegue Casini, ma Casini insegue Monti e quest’ultimo s’ispira a Berlusconi che, nel frattempo, invita Passera a guidare il PDL futuro. Non è una puntata degli sgommati, è il disegno del tragicomico quadro politico italiano.

Rifletta il PD: senza un disegno diverso, senza l’aspirazione al cambiamento, senza un progetto futuro per un’altra Italia, restano solo l’inciucio e l’equivoco tra il governo e l’amministrazione dell’esistente. E mai come in questo momento nel quale il Paese è piegato, incerto, e non vede prospettive di crescita ed equità, la ricerca di una nuova identità politica e culturale vengono avvertite come indispensabili. Galleggiare nel vuoto dimostra solo che l’inutilità dell’oggi sarà sostituita da quella del domani. Conviene saperlo: non solo nessuno ha votato per Monti, ma nessuno a sinistra voterà per chi lo insegue.

 

di Rosa Ana De Santis

Nel pieno del dibattito sulla crisi del lavoro, nell’ossessiva riflessione sull’articolo 18 venduto come unica questione politica, quando invece ci si trova di fronte ai licenziamenti, alla precarietà e alla mancanza di crescita, destano ancora più scalpore le storie dei figli. Quelli dei papà illustri di quello stesso governo che incoraggia i giovani ad amare la flessibilità e a non ribellarsi di fronte allo smantellamento progressivo dei diritti, con deroga per i propri pargoli per i quali valgono le regole del noioso posto fisso (e ben pagato) di una volta.

Dalla Fornero alla Cancellieri, da Passera a Profumo, da Catricalà alla Severino, per non parlare dello stesso Monti, i pargoli sono sistemati in incarichi ben remunerati e prestigiosi. Niente, proprio niente, li lega al mondo del precariato e dell’incertezza. Ma le vicende dei figli di papà e mammà del governo dei professori non rappresentano una novità nelle vicende penose di questo scalcinato paese. Non desta meraviglia che i figli di papà riescano a collocarsi meglio e più in fretta.

Non è la velocità delle scorciatoie a suscitare scandalo nel paese delle raccomandazioni o segnalazioni, come vuole chiamarle un certo linguaggio perbene. Stupisce e indigna, semmai, l’ostentata facciata moraleggiante che questo governo si è autoassegnato, ma che ha già perso di fronte ad un paese che - peraltro - non l’ha mai autorizzato a governare dalle urne, come si conviene in una democrazia.

L’auto investitura quasi savonarolesca dei professori convocati per ridare credibilità all’Italia che veniva dai festini di palazzo è già roba per soli estimatori; se non a Bruxelles, almeno in casa. I titoli di scena venduti per edulcorare la disperata condizione dei giovani, soprattutto quelli talentuosi e preparati, non hanno credibilità né valore quando i rampolli di casa, oltre a non avere problemi di collocazione e stipendio, mandano in giro mamma e papà con un duplice incarico: il primo è sistemare loro ben benino, il secondo è di raccontare agli altri quanto è bello perdere un lavoro per l’ebbrezza di cercarne un altro; quando è stimolante non guadagnare mai abbastanza per cadere nella noiosa routine; quanto “fa giovane”  pagare tutto il prezzo della crisi più nera.

Ovviamente i rampolli, ignari della difficoltà di andar via da casa pagando un affitto spesso d’identico importo della borsa di studio o dello stipendio, non si sono mai nemmeno domandati cosa significhi non avere un posto fisso. Nelle chiacchiere tra i risottini e i cognac nei salotti sabaudi l’argomento non viene proprio previsto.

Fossero stati tra noi, invece che nelle boiserie, i ciarlieri professori avrebbero potuto chiedere al collega Passera cosa significhi non avere un posto fisso quando ci si reca in banca per chiedere un mutuo o anche solo un prestito personale, passaggi obbligati per chi non ha case in eredità dai munifici genitori.

Vivere nella bambagia della casa paterna, studiare nella libreria di famiglia, vedersi aprire le porte da esaminatori colleghi dei propri genitori e ricevere chiamate da istituti dove gli stessi genitori hanno ruoli importanti, non favorisce quello sviluppo “in cattività” che si consiglia ai comuni mortali come esercizio per la tempra e il superamento delle avversità.

Forse a forza di puntare il dito sulla casta dei politici, ci siamo dimenticati di prendere in esame quella dei docenti e dei consulenti delle impomatate famiglie della borghesia sabauda e meneghina, come pure di quella romana e quella di discendenza borbonica, che pesano meno ma non sfigurano nel confronto.

La borghesia protegge i suoi figli, li coccola e li nutre, da sempre. Ma solo da poco ha imparato l’arte della sfacciataggine nell’indicare agli altri come affrontare le difficoltà del vivere. La casta dei salotti, alla fine, si dimostra peggiore di quella dei politici, giacché dispone e comanda, si arricchisce e gode, senza nemmeno aver subito il “disturbo” di presentarsi in pubblico e farsi votare. Il consenso serve agli altri, a loro basta il censo.

 

 

di Fabrizio Casari

Quella dell’abolizione dell’articolo 18 è ormai l’ossessione dei professori. Il tavolo di concertazione (o di solo reciproco ascolto, par di capire) tra il governo e le parti sociali, continua ad avvitarsi sul mantra del ministro Fornero. Una litanìa, ormai un vero e proprio tormentone dei ministri e di Confindustria, al quale si allinea il codazzo della pubblicistica devota, dice che è che l’articolo 18 “non dev’essere un tabù”. Magari un tabù no, ma una fissazione sì, par di capire.

Eppure i dati che indicano la disoccupazione al suo record storico, con un giovane su tre senza lavoro e le previsioni per l’anno in corso, che parlano di ulteriori 800.000 o un milione di posti di lavoro in meno, letti con puro senso logico e scevri da ogni impostazione ideologica, direbbero che l’emergenza nazionale è la disoccupazione.

Una disoccupazione che ha raggiunto dimensioni spaventose anche in quanto figlia della mancata crescita e delle politiche recessive e che è parente strettissima della giungla contrattuale che ha permesso di concepire un mercato del lavoro a bassissimo tasso di occupazione e di legalità.

I sindacati fanno giustamente rilevare che se l’occupazione e la conseguente crescita interna sono i due pilastri drammaticamente colpiti dalla crisi economica e dalle politiche recessive genialmente studiate per affrontarla (un caso di suicidio assistito, insomma), proprio non c’è nessun bisogno di aiutare ulteriormente le imprese nel favorire l’esodo incontrollato e arbitrario dei lavoratori.

Non occorre essere dei professori, infatti, per capire che non si può invocare maggiore occupazione mentre si eliminano gli strumenti residui per difenderla. Occorre aver studiato da professori per non capire come il progressivo aumento delle disuguaglianze sociali sia nocivo per lo stato dell’economia e di un paese ben più dello spread sui titoli?

L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, giova ricordarlo, non impedisce infatti alle aziende con oltre 15 dipendenti di licenziare, ma impone l’esistenza di una “giusta causa” per farlo. L’elemento fondamentale della norma risiede nella necessità di tutelare i lavoratori dai licenziamenti indiscriminati, arbitrari e vessatori che le aziende italiane - Fiat in primo luogo - hanno storicamente privilegiato per ridurre al silenzio la sindacalizzazione interna. Per rimanere al caso Fiat, va ricordato che da Valletta a Romiti e ora a Marchionne, infatti, l’organizzazione sindacale interna alla Fiat è stata oggetto di numerosissimi licenziamenti politici come rappresaglia per le battaglie sindacali interne sostenute dai lavoratori.

In Italia si licenzia con estrema facilità e i circa 46 tipi di contrattualizzazione diversa sono lo strumento per disporre a piacimento della giungla contrattualistica e, non da ultimo, la sede di un pezzo significativo dell’evasione fiscale perpetrata a danno del Paese.

Gli argomenti che la ministro Fornero e il codazzo propongono sono sostanzialmente due: che l’esistenza dell’articolo 18 nei fatti crea due diversi regimi di tutela per i lavoratori (aziende con meno o con più di 15 dipendenti) e che, a cascata, l’erogazione degli ammortizzatori sociali produce un’ulteriore disparità. Infine, si sostiene che l’esistenza dei vincoli sanciti dall’articolo 18 rappresenta un freno alle possibilità di assumere da parte delle aziende e, dunque, contribuisce indirettamente proprio a quella ridotta occupazione che si vuole combattere.

Ebbene, se si vuole davvero la parità delle tutele per tutti, è sufficiente allargare l’applicazione dell’articolo 18 anche alle imprese con meno di 15 dipendenti. Perché non lo si fa? E se si ritiene che chi è fuori dal mercato del lavoro e non usufruisce della cassa integrazione sia penalizzato (e lo è certamente), si può ampliare il sostegno sociale attraverso il reddito di cittadinanza, erogabile insieme alla formazione professionale utile alla ricollocazione futura.

Ma la questione ancora più odiosa, perché volutamente truffaldina, è quella che imputa all’articolo 18 un freno alle assunzioni, perché queste risulterebbero troppo rigide. Ma se così fosse, se cioè fosse il solo articolo 18 a frenare le assunzioni, come mai le aziende con meno di quindici dipendenti (dove quindi la norma non trova applicazione) non assumono? Sarà perché l’articolo 18 niente, assolutamente niente, c’entra con la capacità di produrre lavoro da parte del mercato?

Ma perché dunque questo attacco continuo all’articolo 18? Perché si vuole una sconfitta ed un arretramento dei sindacati e della sinistra di tipo epocale. Il messaggio, soprattutto indirizzato alle nuove generazioni, è che solo rinunciando ai diritti conquistati dai loro padri e dai loro nonni, solo la rinuncia ad essere rappresentati da sindacati e organismi di rappresentanza, potrà aprire il futuro a nuove opportunità di lavoro e progresso. Il modello che si propone è quello delle “zone franche”, prevale l’ideologia delle maquilladoras più che un’idea di riforma del mercato del lavoro. Ma nessun modello economico e sociale accettabile é mai stato edificato sulle fondamenta della schiavitù e si diventa soggetti di diritti proprio quando si smette di essere oggetto di elemosine.

Sul mercato del lavoro, come sulle liberalizzazioni, il governo Monti mente e sa di farlo: non ha nessuna ricetta che non sia l’ossequio alle banche e alla speculazione finanziaria e non ha nessuna idea di come ricostruire il tessuto sociale ed economico del paese. Esaurito il capitolo delle liberalizzazioni, con il quale ha tentato di spiegare che acquistare un’aspirina al supermercato e avere qualche taxi in più siano gli snodi dello sviluppo del Paese (ma guardandosi bene dal toccare banche ed assicurazioni, mercato energetico e telecomunicazioni) oggi tenta di convincerci che per lavorare di più bisogna farsi licenziare di più.

Nel disegnare la sua politica, inoltre, il governo ultimamente ha imboccato con decisione la strada dello sberleffo. Dapprima il rampollo inutile che definisce “sfigati” tutti coloro che, diversamente da lui, sono stati costretti a studiare per tentare una professione, non avendo padri e amici del padre in grado di allocarlo a piacere con i soldi pubblici. Successivamente è stato lo stesso Monti, ospite in casa Mediaset, a dire che il lavoro fisso è una chimera e per fortuna, dal momento che il lavoro fisso è “monotono”.

Eppure il professor Monti, che detesta la monotonia, si è fatto nominare senatore a vita, non proprio un ruolo a tempo determinato ed una attività adrenalinica. Profumatamente pagato con i soldi nostri, pare ormai voler dismettere gradualmente la supposta sobrietà per calarsi nei panni di un uomo vanitoso e supponente. Oggi sono le sue parole ad essere monotone. Impari una lezione, professore: la sobrietà non è dimostrata dall’apparenza mesta e grigia e dal tono di voce monocorde, ma dal saper farsi carico con serietà e rispetto dei destini delle persone in carne e ossa. Anche di quelle che non siedono nei consigli d’amministrazione.

di Carlo Musilli 

Le sparate leghiste non fanno paura al Pdl, ma continuano ad alzare polvere sulla malandata politica italiana. L'ultimo strale padano contro il Cavaliere è arrivato dall'ex ministro-in-braghe-corte Roberto Calderoli che, vestendo l'abito del profeta, ha indirettamente (involontariamente?) paragonato Mario Monti nientemeno che a Giulio Cesare. "Berlusconi per le idi di marzo farà cadere il governo, ne sono convinto", ha vaticinato Calderoli, sottolineando che se l'ex premier "non vuole fare harakiri, deve staccare la spina al governo, perché è di sinistra (un giudizio significativo del concetto di "sinistra" che circola in Padania, ndr ) e sta colpendo l'elettorato di centrodestra". Se non lo farà, arriveranno annate di vacche magre: "Alle amministrative andremo da soli - conclude drammaticamente l'ex guru delle Semplificazioni -. Le nostre strade si divideranno per sempre".

Ad aprire le danze con il solito aplomb celtico ci aveva pensato il leader Umberto Bossi, definendo il vecchio amico Silvio "una mezza cartuccia", che "ha sempre paura". Il Senatùr aveva perfino minacciato di far crollare quella torre di Babele che è diventato il Pirellone - dove "Regione Lombardia" fa sempre più rima con "avviso di garanzia" - sfilando la poltrona da sotto le natiche di Roberto Formigoni. Il suo cosiddetto numero due, Roberto Maroni, dal salotto di Daria Bignardi su La7 aveva provato a rincarare la dose: "Berlusconi deve fare chiarezza, non può appoggiare il governo Monti e poi, quando si andrà alle elezioni, chiedere l'alleanza con il Carroccio".

Già, non può. In realtà deve. Sanno tutti benissimo, in Padania come a Roma, che rompere adesso l'alleanza fra Pdl e Lega significherebbe suicidarsi alle amministrative di primavera. E con lo spettro delle politiche che va e viene (ma arriverà al più tardi fra meno di un anno e mezzo) consegnare al centrosinistra le roccaforti storiche del celodurismo in terra veneta e lombarda avrebbe potenzialmente effetti distruttivi. Se le profezie di Tiresia-Calderoli si avverassero, nessuna delle parti se ne gioverebbe, soprattutto guardando ai soldi in busta paga. Il che lascia supporre che si tratti di parole al vento.

E allora, perché mai questo teatrino delle minacce? Ennesimo delirio di onnipotenza in via Bellerio? No. Nel film "Slevin", Bruce Willis la chiamava "mossa Kansas City": loro guardano da una parte, tu vai dall'altra.

Grugnire contro i pidiellini - mai particolarmente amati dai leghisti duri e puri - significa riavvicinarsi allo spirito della base, esasperata da episodi grotteschi come la ciambella di salvataggio gettata a Nicola Cosentino e i rimborsi elettorali investiti in Tanzania. Allo stesso tempo, alzando la voce contro la codardia altrui - immancabile il truce paragone con il capitano Schettino - si distoglie l'attenzione dalle fratture che rischiano di far cadere a pezzi il beneamato Carroccio.

Anche se negli ultimi giorni Bobo ha avuto parole quasi romantiche per il capo carismatico Bossi ("ci conosciamo da trent'anni!"), non è un mistero per nessuno che le macchinazioni per la successione siano iniziate ormai da tempo.

Il progetto maroniano inizierà a prendere corpo con la ripresa dei congressi tanto temuti dal Cerchio magico, ma è bene sottolineare che non prevede alcuna scissione della Lega. E intanto strizza l'occhio a Casini e Alfano.

Problemi forse ancora più seri sono quelli che affliggono il Pdl, a cui la grancassa leghista sta quasi facendo un favore. Sempre secondo la logica della distrazione di massa, il carrozzone berlusconiano ha avuto buon gioco negli ultimi giorni a eclissarsi dalle pagine dei giornali e dagli schermi tv, una volta così pieni di dichiarazioni quotidiane sparate con gli occhi fissi in camera. Il nuovo low profile ha un obiettivo preciso: approfittare della pausa-Monti per riorganizzare le fila del partito, rabberciando a tempo di record una candidatura credibile per Angelino Alfano.

Non è un compito facile. Ora che il re non è più sul trono, la convivenza forzata fra ex democristiani, ex missini e ex socialisti sta rivelando tutta la sua incoerenza. E qui sì che - ormai da tempo - si parla apertamente di scissione. Scajola e Frattini si confermano fra i più intraprendenti, osteggiati in prima linea dagli ex An, con alla guida il condottiero La Russa.

La diaspora sarà scongiurata solo quando Berlusconi deciderà di dare un colpo alle briglie (d'altra parte è così che sopravvive un partito personale). Al momento però il Cavaliere è impegnato a trascinare il processo Mills in prescrizione. Insomma, l'ex premier ha già una lista di problemi abbastanza lunga. Non ha tempo per le velleità leghiste e assicura che "il rapporto con il Carroccio non è finito". Almeno finché non ci sarà un'alternativa.

 

di Mariavittoria Orsolato

Lo scorso 27 giugno il terreno regolarmente acquistato dagli attivisti del movimento No Tav presso la località Maddalena di Chiomonte, viene letteralmente preso d’assalto da 2000 agenti delle forze dell’ordine con l’intento di sgomberarlo, militarizzarlo e permettere così alle imprese che hanno ottenuto l’appalto di iniziare i lavori di messa in opera del cantiere per l’Alta Velocità. Fedele al suo spirito di resistenza, il movimento No Tav non demorde e indice una manifestazione nazionale per il 3 luglio successivo, raccogliendo adesioni entusiastiche da ogni parte d’Italia.

Quel giorno il corteo culminò in una vera e propria battaglia, combattuta da una parte con i lacrimogeni proibiti Cs e dall’altra con le pietre della montagna: il bilancio fu di centinaia di feriti da entrambi gli schieramenti ed ora lo Stato ha presentato il conto.

All’alba di ieri mattina un’imponente operazione di polizia, coordinata dalla procura di Torino, ha portato all’arresto di 26 militanti No Tav e a misure restrittive nei confronti di altri 15 attivisti, cui vanno aggiunte diverse perquisizioni ai danni di privati cittadini e di spazi occupati e autogestiti. Gli arresti - a Torino, Asti, Milano, Trento, Palermo, Roma, Padova, Genova, Pistoia, Cremona, Macerata, Biella, Bergamo, Parma e Modena e persino in Francia - sono stati eseguiti dalla polizia su ordinanze emesse dal Gip di Torino, Federica Bompieri, su richiesta del Procuratore aggiunto Andrea Beconi, nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla Questura.

Le accuse sono le generiche lesioni, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale e la versione che Giancarlo Caselli si é affrettato a fornire ai media mainstream è che con questa operazione si sia fatto fondamentalmente un favore al movimento. “Sbaglia - ha detto il Procuratore capo di Torino - chi vuole leggere in questa indagine qualcosa contro la Valle, il movimento No Tav e le legittime manifestazioni di dissenso che restano nei limiti della legge”.

Messa in questo modo, l’intenzione di Caselli sembra piuttosto essere quella di dividere il movimento, delegittimandone gli intenti agli occhi dell’opinione pubblica: da un lato i bravi valligiani pacifisti e pacifici, che esprimono un legittimo dissenso e dall'altro i cattivi black bloc calati dall'esterno, i professionisti della violenza. Un espediente decisamente inflazionato nell’era dell’attento web 2.0 e che i valsusini per primi rifiutano, rivendicando invece la diversità delle pratiche di lotta messe in campo ed esprimendo solidarietà a tutti gli arrestati e gli inquisiti, sempre e comunque. In questo caso a finire dietro le sbarre sono stati due "ex terroristi", un giovane ventenne, tre minorenni, una ragazza incinta al settimo mese, un consigliere comunale (a cui sono state sequestrate addirittura le stampelle), gli immancabili anarco-insurrezionalisti e antagonisti.

Un’operazione “chirurgica” - come l’ha definita la stessa Procura torinese - e allo stesso tempo trasversale, così come trasversale è stata l’adesione ad una protesta che ormai va oltre la semplice opposizione al treno. In oltre vent’anni di storia il movimento No Tav ha finito per catalizzare le istanze e le simpatie dell’eterogenea galassia del dissenso politico e la sua lotta - sempre a volto scoperto - è diventata la lotta di chi vede nella speculazione indiscriminata, e nella corruzione che la permette, il problema fondamentale del sistema Italia.

Denunciando che la sola occupazione militare costa 90.000 euro al giorno e che i costi complessivi per la “grande opera”  - ancora in embrione ma già in perdita, dato il calo drastico del traffico merci su quella tratta - arriveranno a 22 miliardi di euro, gli abitanti della Val Susa non fanno altro che sbugiardare le velleità di crescita imposteci da una politica sempre più aliena al cittadino: un progresso posticcio, costoso in termini economici e democratici, buono solo a foraggiare un capitale vampiresco.

Per questo, perché il fronte di resistenza è appunto sentito come comune, in numerose città d’Italia si sono attivati presidi di solidarietà agli arrestati del movimento, alcuni dei quali sfociati in blocchi del traffico e occupazioni spontanee, mentre dal’assemblea permanente di Vaie, nel cuore della valle, è arrivato l’invito per una manifestazione che raccolga “tutte le resistenze” - come ha affermato il leader putativo dei No Tav Alberto Perino - da fissarsi entro la metà di febbraio.

Se questo blitz doveva quindi servire a scoraggiare il movimento, possiamo dire che già dalle prime ore ha ottenuto esattamente l’effetto contrario. Gli espedienti a disposizione della questura e degli esigui Si Tav sembrano aver raggiunto l’extrema ratio: dopo la mossa della carcerazione preventiva non restano molte carte in mano. Come sottolineano su notav.info “a breve ci sarà il tentativo di allargamento del cantiere per provare il reale inizio dei lavori, lì si vedranno i risultati”. Già da ieri, il movimento ha rilanciato nella direzione della resistenza, perché e nel cantiere di Chiomonte che si giocherà gran parte di questa lotta, ed è lì che i No Tav ritorneranno ancora una volta, nonostante gli arresti.

 

 


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy