di Fabrizio Casari

Quella dell’abolizione dell’articolo 18 è ormai l’ossessione dei professori. Il tavolo di concertazione (o di solo reciproco ascolto, par di capire) tra il governo e le parti sociali, continua ad avvitarsi sul mantra del ministro Fornero. Una litanìa, ormai un vero e proprio tormentone dei ministri e di Confindustria, al quale si allinea il codazzo della pubblicistica devota, dice che è che l’articolo 18 “non dev’essere un tabù”. Magari un tabù no, ma una fissazione sì, par di capire.

Eppure i dati che indicano la disoccupazione al suo record storico, con un giovane su tre senza lavoro e le previsioni per l’anno in corso, che parlano di ulteriori 800.000 o un milione di posti di lavoro in meno, letti con puro senso logico e scevri da ogni impostazione ideologica, direbbero che l’emergenza nazionale è la disoccupazione.

Una disoccupazione che ha raggiunto dimensioni spaventose anche in quanto figlia della mancata crescita e delle politiche recessive e che è parente strettissima della giungla contrattuale che ha permesso di concepire un mercato del lavoro a bassissimo tasso di occupazione e di legalità.

I sindacati fanno giustamente rilevare che se l’occupazione e la conseguente crescita interna sono i due pilastri drammaticamente colpiti dalla crisi economica e dalle politiche recessive genialmente studiate per affrontarla (un caso di suicidio assistito, insomma), proprio non c’è nessun bisogno di aiutare ulteriormente le imprese nel favorire l’esodo incontrollato e arbitrario dei lavoratori.

Non occorre essere dei professori, infatti, per capire che non si può invocare maggiore occupazione mentre si eliminano gli strumenti residui per difenderla. Occorre aver studiato da professori per non capire come il progressivo aumento delle disuguaglianze sociali sia nocivo per lo stato dell’economia e di un paese ben più dello spread sui titoli?

L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, giova ricordarlo, non impedisce infatti alle aziende con oltre 15 dipendenti di licenziare, ma impone l’esistenza di una “giusta causa” per farlo. L’elemento fondamentale della norma risiede nella necessità di tutelare i lavoratori dai licenziamenti indiscriminati, arbitrari e vessatori che le aziende italiane - Fiat in primo luogo - hanno storicamente privilegiato per ridurre al silenzio la sindacalizzazione interna. Per rimanere al caso Fiat, va ricordato che da Valletta a Romiti e ora a Marchionne, infatti, l’organizzazione sindacale interna alla Fiat è stata oggetto di numerosissimi licenziamenti politici come rappresaglia per le battaglie sindacali interne sostenute dai lavoratori.

In Italia si licenzia con estrema facilità e i circa 46 tipi di contrattualizzazione diversa sono lo strumento per disporre a piacimento della giungla contrattualistica e, non da ultimo, la sede di un pezzo significativo dell’evasione fiscale perpetrata a danno del Paese.

Gli argomenti che la ministro Fornero e il codazzo propongono sono sostanzialmente due: che l’esistenza dell’articolo 18 nei fatti crea due diversi regimi di tutela per i lavoratori (aziende con meno o con più di 15 dipendenti) e che, a cascata, l’erogazione degli ammortizzatori sociali produce un’ulteriore disparità. Infine, si sostiene che l’esistenza dei vincoli sanciti dall’articolo 18 rappresenta un freno alle possibilità di assumere da parte delle aziende e, dunque, contribuisce indirettamente proprio a quella ridotta occupazione che si vuole combattere.

Ebbene, se si vuole davvero la parità delle tutele per tutti, è sufficiente allargare l’applicazione dell’articolo 18 anche alle imprese con meno di 15 dipendenti. Perché non lo si fa? E se si ritiene che chi è fuori dal mercato del lavoro e non usufruisce della cassa integrazione sia penalizzato (e lo è certamente), si può ampliare il sostegno sociale attraverso il reddito di cittadinanza, erogabile insieme alla formazione professionale utile alla ricollocazione futura.

Ma la questione ancora più odiosa, perché volutamente truffaldina, è quella che imputa all’articolo 18 un freno alle assunzioni, perché queste risulterebbero troppo rigide. Ma se così fosse, se cioè fosse il solo articolo 18 a frenare le assunzioni, come mai le aziende con meno di quindici dipendenti (dove quindi la norma non trova applicazione) non assumono? Sarà perché l’articolo 18 niente, assolutamente niente, c’entra con la capacità di produrre lavoro da parte del mercato?

Ma perché dunque questo attacco continuo all’articolo 18? Perché si vuole una sconfitta ed un arretramento dei sindacati e della sinistra di tipo epocale. Il messaggio, soprattutto indirizzato alle nuove generazioni, è che solo rinunciando ai diritti conquistati dai loro padri e dai loro nonni, solo la rinuncia ad essere rappresentati da sindacati e organismi di rappresentanza, potrà aprire il futuro a nuove opportunità di lavoro e progresso. Il modello che si propone è quello delle “zone franche”, prevale l’ideologia delle maquilladoras più che un’idea di riforma del mercato del lavoro. Ma nessun modello economico e sociale accettabile é mai stato edificato sulle fondamenta della schiavitù e si diventa soggetti di diritti proprio quando si smette di essere oggetto di elemosine.

Sul mercato del lavoro, come sulle liberalizzazioni, il governo Monti mente e sa di farlo: non ha nessuna ricetta che non sia l’ossequio alle banche e alla speculazione finanziaria e non ha nessuna idea di come ricostruire il tessuto sociale ed economico del paese. Esaurito il capitolo delle liberalizzazioni, con il quale ha tentato di spiegare che acquistare un’aspirina al supermercato e avere qualche taxi in più siano gli snodi dello sviluppo del Paese (ma guardandosi bene dal toccare banche ed assicurazioni, mercato energetico e telecomunicazioni) oggi tenta di convincerci che per lavorare di più bisogna farsi licenziare di più.

Nel disegnare la sua politica, inoltre, il governo ultimamente ha imboccato con decisione la strada dello sberleffo. Dapprima il rampollo inutile che definisce “sfigati” tutti coloro che, diversamente da lui, sono stati costretti a studiare per tentare una professione, non avendo padri e amici del padre in grado di allocarlo a piacere con i soldi pubblici. Successivamente è stato lo stesso Monti, ospite in casa Mediaset, a dire che il lavoro fisso è una chimera e per fortuna, dal momento che il lavoro fisso è “monotono”.

Eppure il professor Monti, che detesta la monotonia, si è fatto nominare senatore a vita, non proprio un ruolo a tempo determinato ed una attività adrenalinica. Profumatamente pagato con i soldi nostri, pare ormai voler dismettere gradualmente la supposta sobrietà per calarsi nei panni di un uomo vanitoso e supponente. Oggi sono le sue parole ad essere monotone. Impari una lezione, professore: la sobrietà non è dimostrata dall’apparenza mesta e grigia e dal tono di voce monocorde, ma dal saper farsi carico con serietà e rispetto dei destini delle persone in carne e ossa. Anche di quelle che non siedono nei consigli d’amministrazione.

di Carlo Musilli 

Le sparate leghiste non fanno paura al Pdl, ma continuano ad alzare polvere sulla malandata politica italiana. L'ultimo strale padano contro il Cavaliere è arrivato dall'ex ministro-in-braghe-corte Roberto Calderoli che, vestendo l'abito del profeta, ha indirettamente (involontariamente?) paragonato Mario Monti nientemeno che a Giulio Cesare. "Berlusconi per le idi di marzo farà cadere il governo, ne sono convinto", ha vaticinato Calderoli, sottolineando che se l'ex premier "non vuole fare harakiri, deve staccare la spina al governo, perché è di sinistra (un giudizio significativo del concetto di "sinistra" che circola in Padania, ndr ) e sta colpendo l'elettorato di centrodestra". Se non lo farà, arriveranno annate di vacche magre: "Alle amministrative andremo da soli - conclude drammaticamente l'ex guru delle Semplificazioni -. Le nostre strade si divideranno per sempre".

Ad aprire le danze con il solito aplomb celtico ci aveva pensato il leader Umberto Bossi, definendo il vecchio amico Silvio "una mezza cartuccia", che "ha sempre paura". Il Senatùr aveva perfino minacciato di far crollare quella torre di Babele che è diventato il Pirellone - dove "Regione Lombardia" fa sempre più rima con "avviso di garanzia" - sfilando la poltrona da sotto le natiche di Roberto Formigoni. Il suo cosiddetto numero due, Roberto Maroni, dal salotto di Daria Bignardi su La7 aveva provato a rincarare la dose: "Berlusconi deve fare chiarezza, non può appoggiare il governo Monti e poi, quando si andrà alle elezioni, chiedere l'alleanza con il Carroccio".

Già, non può. In realtà deve. Sanno tutti benissimo, in Padania come a Roma, che rompere adesso l'alleanza fra Pdl e Lega significherebbe suicidarsi alle amministrative di primavera. E con lo spettro delle politiche che va e viene (ma arriverà al più tardi fra meno di un anno e mezzo) consegnare al centrosinistra le roccaforti storiche del celodurismo in terra veneta e lombarda avrebbe potenzialmente effetti distruttivi. Se le profezie di Tiresia-Calderoli si avverassero, nessuna delle parti se ne gioverebbe, soprattutto guardando ai soldi in busta paga. Il che lascia supporre che si tratti di parole al vento.

E allora, perché mai questo teatrino delle minacce? Ennesimo delirio di onnipotenza in via Bellerio? No. Nel film "Slevin", Bruce Willis la chiamava "mossa Kansas City": loro guardano da una parte, tu vai dall'altra.

Grugnire contro i pidiellini - mai particolarmente amati dai leghisti duri e puri - significa riavvicinarsi allo spirito della base, esasperata da episodi grotteschi come la ciambella di salvataggio gettata a Nicola Cosentino e i rimborsi elettorali investiti in Tanzania. Allo stesso tempo, alzando la voce contro la codardia altrui - immancabile il truce paragone con il capitano Schettino - si distoglie l'attenzione dalle fratture che rischiano di far cadere a pezzi il beneamato Carroccio.

Anche se negli ultimi giorni Bobo ha avuto parole quasi romantiche per il capo carismatico Bossi ("ci conosciamo da trent'anni!"), non è un mistero per nessuno che le macchinazioni per la successione siano iniziate ormai da tempo.

Il progetto maroniano inizierà a prendere corpo con la ripresa dei congressi tanto temuti dal Cerchio magico, ma è bene sottolineare che non prevede alcuna scissione della Lega. E intanto strizza l'occhio a Casini e Alfano.

Problemi forse ancora più seri sono quelli che affliggono il Pdl, a cui la grancassa leghista sta quasi facendo un favore. Sempre secondo la logica della distrazione di massa, il carrozzone berlusconiano ha avuto buon gioco negli ultimi giorni a eclissarsi dalle pagine dei giornali e dagli schermi tv, una volta così pieni di dichiarazioni quotidiane sparate con gli occhi fissi in camera. Il nuovo low profile ha un obiettivo preciso: approfittare della pausa-Monti per riorganizzare le fila del partito, rabberciando a tempo di record una candidatura credibile per Angelino Alfano.

Non è un compito facile. Ora che il re non è più sul trono, la convivenza forzata fra ex democristiani, ex missini e ex socialisti sta rivelando tutta la sua incoerenza. E qui sì che - ormai da tempo - si parla apertamente di scissione. Scajola e Frattini si confermano fra i più intraprendenti, osteggiati in prima linea dagli ex An, con alla guida il condottiero La Russa.

La diaspora sarà scongiurata solo quando Berlusconi deciderà di dare un colpo alle briglie (d'altra parte è così che sopravvive un partito personale). Al momento però il Cavaliere è impegnato a trascinare il processo Mills in prescrizione. Insomma, l'ex premier ha già una lista di problemi abbastanza lunga. Non ha tempo per le velleità leghiste e assicura che "il rapporto con il Carroccio non è finito". Almeno finché non ci sarà un'alternativa.

 

di Mariavittoria Orsolato

Lo scorso 27 giugno il terreno regolarmente acquistato dagli attivisti del movimento No Tav presso la località Maddalena di Chiomonte, viene letteralmente preso d’assalto da 2000 agenti delle forze dell’ordine con l’intento di sgomberarlo, militarizzarlo e permettere così alle imprese che hanno ottenuto l’appalto di iniziare i lavori di messa in opera del cantiere per l’Alta Velocità. Fedele al suo spirito di resistenza, il movimento No Tav non demorde e indice una manifestazione nazionale per il 3 luglio successivo, raccogliendo adesioni entusiastiche da ogni parte d’Italia.

Quel giorno il corteo culminò in una vera e propria battaglia, combattuta da una parte con i lacrimogeni proibiti Cs e dall’altra con le pietre della montagna: il bilancio fu di centinaia di feriti da entrambi gli schieramenti ed ora lo Stato ha presentato il conto.

All’alba di ieri mattina un’imponente operazione di polizia, coordinata dalla procura di Torino, ha portato all’arresto di 26 militanti No Tav e a misure restrittive nei confronti di altri 15 attivisti, cui vanno aggiunte diverse perquisizioni ai danni di privati cittadini e di spazi occupati e autogestiti. Gli arresti - a Torino, Asti, Milano, Trento, Palermo, Roma, Padova, Genova, Pistoia, Cremona, Macerata, Biella, Bergamo, Parma e Modena e persino in Francia - sono stati eseguiti dalla polizia su ordinanze emesse dal Gip di Torino, Federica Bompieri, su richiesta del Procuratore aggiunto Andrea Beconi, nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla Questura.

Le accuse sono le generiche lesioni, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale e la versione che Giancarlo Caselli si é affrettato a fornire ai media mainstream è che con questa operazione si sia fatto fondamentalmente un favore al movimento. “Sbaglia - ha detto il Procuratore capo di Torino - chi vuole leggere in questa indagine qualcosa contro la Valle, il movimento No Tav e le legittime manifestazioni di dissenso che restano nei limiti della legge”.

Messa in questo modo, l’intenzione di Caselli sembra piuttosto essere quella di dividere il movimento, delegittimandone gli intenti agli occhi dell’opinione pubblica: da un lato i bravi valligiani pacifisti e pacifici, che esprimono un legittimo dissenso e dall'altro i cattivi black bloc calati dall'esterno, i professionisti della violenza. Un espediente decisamente inflazionato nell’era dell’attento web 2.0 e che i valsusini per primi rifiutano, rivendicando invece la diversità delle pratiche di lotta messe in campo ed esprimendo solidarietà a tutti gli arrestati e gli inquisiti, sempre e comunque. In questo caso a finire dietro le sbarre sono stati due "ex terroristi", un giovane ventenne, tre minorenni, una ragazza incinta al settimo mese, un consigliere comunale (a cui sono state sequestrate addirittura le stampelle), gli immancabili anarco-insurrezionalisti e antagonisti.

Un’operazione “chirurgica” - come l’ha definita la stessa Procura torinese - e allo stesso tempo trasversale, così come trasversale è stata l’adesione ad una protesta che ormai va oltre la semplice opposizione al treno. In oltre vent’anni di storia il movimento No Tav ha finito per catalizzare le istanze e le simpatie dell’eterogenea galassia del dissenso politico e la sua lotta - sempre a volto scoperto - è diventata la lotta di chi vede nella speculazione indiscriminata, e nella corruzione che la permette, il problema fondamentale del sistema Italia.

Denunciando che la sola occupazione militare costa 90.000 euro al giorno e che i costi complessivi per la “grande opera”  - ancora in embrione ma già in perdita, dato il calo drastico del traffico merci su quella tratta - arriveranno a 22 miliardi di euro, gli abitanti della Val Susa non fanno altro che sbugiardare le velleità di crescita imposteci da una politica sempre più aliena al cittadino: un progresso posticcio, costoso in termini economici e democratici, buono solo a foraggiare un capitale vampiresco.

Per questo, perché il fronte di resistenza è appunto sentito come comune, in numerose città d’Italia si sono attivati presidi di solidarietà agli arrestati del movimento, alcuni dei quali sfociati in blocchi del traffico e occupazioni spontanee, mentre dal’assemblea permanente di Vaie, nel cuore della valle, è arrivato l’invito per una manifestazione che raccolga “tutte le resistenze” - come ha affermato il leader putativo dei No Tav Alberto Perino - da fissarsi entro la metà di febbraio.

Se questo blitz doveva quindi servire a scoraggiare il movimento, possiamo dire che già dalle prime ore ha ottenuto esattamente l’effetto contrario. Gli espedienti a disposizione della questura e degli esigui Si Tav sembrano aver raggiunto l’extrema ratio: dopo la mossa della carcerazione preventiva non restano molte carte in mano. Come sottolineano su notav.info “a breve ci sarà il tentativo di allargamento del cantiere per provare il reale inizio dei lavori, lì si vedranno i risultati”. Già da ieri, il movimento ha rilanciato nella direzione della resistenza, perché e nel cantiere di Chiomonte che si giocherà gran parte di questa lotta, ed è lì che i No Tav ritorneranno ancora una volta, nonostante gli arresti.

 

 

di Carlo Musilli 

C'è il partito del "meglio che niente" e quello del "si poteva fare di più". Poi c'è la posizione di chi ritiene in senso lato che liberalizzare sia dannoso per l'economia. Ma a prescindere dal giudizio di merito, il decreto varato venerdì sera dal governo Monti ci racconta anche una storia politica. Ci dà qualche dettaglio in più per capire di chi è l'Italia oggi e di chi probabilmente continuerà a essere nel prossimo futuro.

Gli aspetti fondamentali sono due: il rapporto dell'Esecutivo con il Pdl e i conflitti d'interesse che zavorrano la squadra del Professore. Sul primo versante, è evidente come il pacchetto di liberalizzazioni non danneggi in modo sostanziale l'establishment berlusconiano, la sua politica e la sua visione della società. Anzi, spuntando la pallottola del decreto, i pidiellini hanno limitato i danni al minimo proprio sul versante che li vedeva più vulnerabili. Evidentemente le pressioni di Gianni Letta sul sottosegretario Antonia Catricalà hanno funzionato. E chissà se il Pd troverà il modo di uscire altrettanto indenne dalla riforma del lavoro, ormai alle porte.

L'unica vera sconfitta per Silvio Berlusconi è arrivata sul campo delle frequenze televisive. Con una mossa chirurgica, da politicante consumato più che da banchiere, il ministro Corrado Passera ha deciso di congelare per tre mesi - ma non di revocare - il beauty contest varato dal Cavaliere (la procedura che avrebbe di fatto regalato i nuovi canali digitali a Mediaset, Rai e Telecom Italia). In questo modo Passera si è attribuito il ruolo di mediatore fra le parti, lasciando pendere una spada di Damocle hi-tech sulle teste del Pdl.

Tenere in sospeso la vicenda vuol dire mantenere alta la tensione fra i berluscones - che fra il Parlamento e l'azienda del padrone non avranno dubbi su cosa scegliere - e intanto far passare il tempo. E' probabile che alla fine l'Agcom troverà una soluzione di compromesso (asta a pagamento più generoso contentino al Biscione), ma quando ciò avverrà i decreti più controversi saranno già diventati legge. E sarà ormai troppo tardi per andare alle elezioni anticipate.

Il secondo punto fondamentale è quello che riguarda le dinamiche interne al drappello dei tecnici. Quando si tratta di legiferare è prassi che i governanti cedano alle pressioni delle lobby di turno. Ed essendo questo un governo di banchieri, non stupisce che le mancanze più gravi dell'ultimo decreto riguardino proprio le banche e le loro cugine, le assicurazioni.

Partiamo dagli istituti di credito. Nella versione finale del provvedimento troviamo una brutta sorpresa per quanto riguarda il nuovo conto corrente di base (quello a costi ridotti, pensato ad esempio per gli anziani, che dovranno aprirlo per legge se vogliono incassare pensioni superiori a mille euro). Il funzionamento del nuovo tipo di conto non sarà stabilito dal governo - com'era scritto nelle bozze precedenti - ma da un'intesa fra banche, Poste e Banca d'Italia. Vale a dire i diretti interessati. Non basta: anche la riduzione delle commissioni sull'utilizzo della moneta elettronica è affidata a un accordo fra le parti in causa (Associazione bancaria, consorzio bancomat e Associazione dei prestatori di servizi a pagamento).

Un altro aspetto riguarda le polizze vita che le banche obbligano a stipulare per accendere un mutuo. Di solito la compagnia assicuratrice è legata alla banca stessa, che così incrementa i profitti. L'Antitrust aveva suggerito di abolire il binomio obbligatorio polizza-mutuo, ma il governo si è limitato a imporre agli istituti di credito di presentare al cliente i preventivi di almeno due diverse compagnie. C'è da scommettere che le banche sapranno indirizzare a dovere i loro clienti.

Un regalino molto simile è stato pensato anche per le compagnie d'assicurazione. Dal punto di vista dei cittadini, la scelta più vantaggiosa sarebbe stata di sostituire i cosiddetti agenti monomandatari con i broker assicurativi. Si trattava di rimpiazzare le figure legate ai singoli gruppi (di cui vendono i prodotti) con dei professionisti pagati direttamente dai clienti e quindi interessati a suggerire di volta in volta le soluzioni più convenienti per i consumatori piuttosto che per le compagnie. Anche in questo caso niente da fare. Il decreto - che peraltro parla solo dell'RC auto - obbliga gli agenti ad informare i clienti sulle proposte di almeno tre compagnie. Ma secondo voi vi consiglieranno la loro polizza o quella della concorrenza?

Fra le altre posizioni di potere che non sono state intaccate, spicca quella di Trenitalia. Dal decreto sono scomparse in corso d'opera almeno due misure fondamentali: la scissione fra la holding Fs e la rete ferroviaria Rfi (rinviata a una decisione della nuova Autorità dei Trasporti) e l'obbligo di gara per la concessione del trasporto regionale da parte delle Regioni. Per non parlare poi dell'inchino fatto all'Unione Petrolifera, che ha portato a ridurre drasticamente le liberalizzazioni in materia di carburanti.
Ci sono infine le querelle legate a quelle categorie che, pur avendo un impatto economico minore, suscitano inspiegabilmente un'attenzione mediatica senza pari. Vale la pena di rifletterci, altrimenti si rischia di perdere contatto col quadro generale. E si finisce col pensare che il rilancio del Pil dipenda solo dai taxi. 

  

di Mariavittoria Orsolato

Nove milioni di processi da smaltire tra civile e penale, migliaia di procedimenti per errore giudiziario o ingiusta detenzione e una valanga di richieste d’indennizzo per le cause che invecchiano con i querelanti. Che la giustizia italiana fosse un colabrodo lo si sapeva da un bel po’ e l’altro ieri , nella sua relazione a Montecitorio, la ministra Paola Severino ha snocciolato impietosa i numeri di quell’inefficienza che, nei termini di produttività tanto cari al governo tecnocratico, ci starebbe costando l’!% del Pil.

Il ministro ha esordito sottolineando innanzitutto l'esplosione di richieste di indennizzo per i processi troppo lenti, passate dalle 3.580 del 2003 alle 49.596 del 2010. Nel solo 2011, infatti,  lo Stato ha dovuto spendere ben 84 milioni di euro per risarcire i cittadini che si sono appellati alla cosiddetta legge Pinto, che disciplina il ricorso straordinario in appello qualora un procedimento giudiziario ecceda i termine di durata ragionevole di un processo secondo i criteri fissati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

E, sempre nel 2011, lo Stato ha elargito risarcimenti per 46 milioni di euro a quanti hanno intentato causa, a ragione, per ingiusta detenzione o errore giudiziario, col risultato che solo per i rimborsi dell’anno appena trascorso se ne sono andati in fumo 130 milioni di euro. Tutto perché, secondo i dati elaborati da via Arenula, in Italia i processi da smaltire sono un’infinità e prima che questi vengano conclusi possono passare oltre sette anni per il civile e quasi cinque nel penale.

Il sistema carcerario poi, se possibile, va anche peggio: "Sento fortissima - ha detto il ministro - la necessità di agire in via prioritaria e senza tentennamenti per garantire un concreto miglioramento delle condizioni dei detenuti". Aldilà dei dati numerici comunque aberranti -sono 66.897 i detenuti che soffrono modalità di custodia francamente inaccettabili per un paese come l'Italia - secondo il Guardasigilli "siamo di fronte a un'emergenza che rischia di travolgere il senso stesso della nostra civiltà giuridica, poiché il detenuto è privato delle libertà soltanto per scontare la sua pena e non può essergli negata la sua dignità di persona umana". Ma di amnistia o revisione di leggi affolla carcere come la Bossi-Fini o la Fini-Giovanardi, non se ne parla proprio.

Fatti i conti del “disastro giustizia” e assolto il suo dovere di esimia tecnocrate, Paola Severino è comunque riuscita nel miracolo di mettere d’accordo Pd, Pdl e Terzo Polo: un avvenimento che, per quanto riguarda il tema della giustizia, non si verificava da quasi 18 anni e con 424 sì, 58 no e 45 astenuti la Camera ha approvato la risoluzione unitaria presentata dai tre partiti che fino a tre mesi fa si scannavano sui processi e che oggi, di fatto, costituiscono la maggioranza del governo Monti. E il segreto del successo della Guardasigilli sta proprio nell’aver eliminato dal piatto tutti i possibili punti di attrito politico.

Nella relazione della Severino mancano infatti le leggi ad personam berlusconiane - cancellazione del falso in bilancio e prescrizione breve tra tutte - e gli effetti catastrofici che hanno avuto sulla macchina della giustizia, così come non c’è il minimo accenno a riforme delle norme sulle intercettazioni o sul funzionamento dei processi, a interventi per allungare o accorciare i tempi della prescrizione, alle tensioni tra toghe e politici, alla terzietà del giudice o alla riforma della professione forense.

Il suo è stato solo un lungo excursus sulle deficienze del settore, sulle carenze del sistema e sulle difficoltà che si possono incontrare nel difficile rapporto cittadino-tribunale: la fiera dell’ovvio, una mera constatazione del fatto che, allo stato attuale, le cose così non vanno.

Quello scarno “visto, si approvi” in calce alla mozione unitaria di Pd, Pdl e Terzo Polo, non può dunque significare altro che la precisa volontà di non dividersi, di non spaccare una maggioranza tanto composita quanto assolutamente di facciata e di certo funzionale più al centrodestra di Berlusconi che al centrosinistra di Bersani.

Perché a voler scrivere un documento, anche breve, ecco che il Pdl chiederebbe di infilarci dentro le intercettazioni, il processo breve e quello lungo mentre, dall’altra parte, il Pd si vedrebbe costretto a chiedere che non solo non si parli d’intercettazioni ma, come ha detto Donatella Ferranti in aula, che si dica che proprio per colpa di quelle leggi adesso “le carceri esplodono”.

Che il mandato della Severino non darà avvio alla stagione delle grandi riforme sulla giustizia lo sanno anche i muri, così come è ormai pacifico che gli obbrobri legislativi escogitati per mettere Berlusconi al riparo dai giudici rimarranno al loro posto. Dire che questa è “l’ennesima occasione mancata”, comincia a diventare il ridondante refrain dell’esecutivo Monti.

 


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