di Fabrizio Casari

No, non è innocente. Ci si arrampichi pure sulle interpretazioni della sentenza di Milano, ma Berlusconi é prescritto, non innocente. Tanto è vero che, codice alla mano, i giudici avrebbero potuto assolverlo e non l’hanno fatto, mentre non potevano proseguire con il dibattimento perché è intervenuta la prescrizione. Dopo cinque anni di processo e dieci d’indagine, il tribunale ha infatti deciso il non poter procedere proprio per intervenuta prescrizione, ai sensi dell’articolo 531 del Codice di procedura penale.

Hanno annunciato ricorso sia gli avvocati del cavaliere che la Procura, ma non è detto che Ghedini mantenga quello che promette. Perché il tribunale ha respinto comunque la richiesta di assoluzione e limitandosi a registrare l’impossibilità di procedere, sembra riconoscere implicitamente fondatezza alle tesi dell’accusa, ormai destinate al prossimo processo.

La legge Cirielli, voluta da Berlusconi stesso proprio per garantirsi l’impunità, ha dunque ottenuto il suo scopo fondativo: impedire che i reati civili e penali commessi dalll'ex Premier prima della sua scesa in campo, divenissero oggetto di condanna nei tribunali della Repubblica.

E’ chiaro così quanto già si sapeva: le schiere di avvocati, più o meno competenti, sono l’espressione obbligata per la vicenda giudiziaria in senso tecnico, così come la propaganda dei suoi funzionari travestiti da giornalisti è funzionale alla creazione dell’immagine del liberale perseguitato dai magistrati oscurantisti.

Gli avvocati in toga hanno solo dovuto allungare a dismisura i tempi del dibattimento (grazie a lodi e legittimi impedimenti ad hoc) così da permettere alla Cirielli di trovare vigenza, niente di più. E’ invece confermato come sia la serie incessante di leggi ad personam il vero collegio di difesa del cavaliere; è l’utilizzo a suo esclusivo vantaggio di ogni modifica legislativa votata dalla sua maggioranza in Parlamento a rappresentare la garanzia della sua impunità. Grazie alle numerose leggi e leggine, è evidente che in Italia esiste ormai un Codice di procedura penale per lui e uno per chiunque altro.

L’indignazione generale che ha seguito la sentenza è comprensibile e condivisibile, ma la vicenda va riportata nel contesto generale della storia personale di Silvio Berlusconi. I reati di cui Berlusconi è stato accusato e prescritto, nel processo Mills come in altri, sono stati infatti un aspetto non secondario e una costante della carriera imprenditoriale del cavaliere: in qualche misura hanno costituito un modo di fare impresa.

La storiella raccontata dai suoi organi d’informazione che dipingono la nascita, lo sviluppo e la successiva centralità del potere economico berlusconiano come espressione della genialità dell’uomo (che pure in qualche misura non si può negare) è una lettura agiografica e propagandistica, funzionale all’illusione di massa che ha caratterizzato il berlusconismo.

Certo, quello illegittimo e illegale è un modo di procedere piuttosto diffuso nella storia dell’imprenditoria italiana e l’alterazione delle regole del mercato é lungi dall’essere una prerogativa esclusiva dell’ex-premier; tuttavia, proprio nella vicenda imprenditoriale di Berlusconi, quei sistemi hanno avuto un ruolo determinante nella costruzione dell’impero economico che ha consentito la scalata al sistema politico.

In questo senso, dunque, più che circostanziali le operazioni finanziarie sostenute al di fuori delle regole e in disprezzo delle leggi hanno avuto una ricaduta strategica, che le rende decisamente diverse da quelle risapute di tanti altri gruppi industriali italiani.

La particolarità di Berlusconi è stata questa: utilizzare la politica per costruire un impero fino a quando la politica è stata in grado di tutelarlo. Quando questa non lo è più stata, quando cioè il corto circuito tra i suoi interessi e la politica si é interrotto per il venir meno degli interlocutori politici, egli stesso si é sganciato da quel legame ed é passato alla difesa diretta dei suoi interessi scendendo in politica.

In questo sta la differenza tra lui e il resto dell’imprenditoria assistita: l’impossibilità di vincere sul mercato per lui si risolve con l’assalto - riuscito - al mercato della politica. Istituzioni, Parlamento per primo, sono divenute un ramo d'azienda funzionale al core business del Biscione. E' grazie a questo che il corto circuito tra i suoi interessi e quelli della politica si é risolto piegando la seconda ai primi. E’ così che sono nati i Cirielli, ed è così che é morta la giustizia.

di Rosa Ana De Santis

La Corte Europea ha condannato il nostro paese sulla vicenda dei respingimenti in mare verso la Libia. La violazione riguarda specificatamente l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, quello relativo ai trattamenti degradanti, alla tortura e al divieto del respingimento collettivo e indiscriminato, ma la sentenza mette sotto accusa l'intera politica italiana nei confronti dell'immigrazione.

I fatti riportati in sentenza risalgono al tempo dell’amicizia tra il Colonnello Gheddafi e l'allora premier Berlusconi, quando 200 persone furono rimandate in Libia contro la propria volontà e senza alcuna procedura di identificazione che consentisse di studiare i singoli casi e di accogliere, ad esempio, i numerosi rifugiati politici presenti. Stessa sorte di rimpatrio coatto toccò alle numerose donne presenti, quelle in gravidanza comprese, e ai bambini.

L’Italia dovrà versare un risarcimento di 15 mila euro a 22 delle 24 vittime e la sentenza dovrà produrre senza dubbio una svolta importante nella condotta del nostro Paese sulla questioni dei respingimenti in mare. Significa non soltanto che il governo Monti dovrà riprendere in mano il trattato con la Libia, ma che tutta la questione dei respingimenti al confine va ripensata e affrontata con strumenti migliori e con un diverso approccio politico. Non è più questione di sentimento né di sola moralità, ma di chiaro obbligo di legge, oltre che di lungimiranza politica.

Al caso Hirsi, al barcone del primo respingimento, ne seguirono molti altri per una stima complessiva, secondo l’UNCHR, di circa mille persone rimandate a casa senza alcun accertamento sulla condizione del loro caso e delle possibili persecuzioni che li avrebbero attesi in un paese che soltanto più tardi l’Italia ha scoperto come "illiberale". La prigioni libiche da una parte e i cosiddetti centri di d'accoglienza temporanea italiani dall'altra, erano parte non solo degli accordi di cooperazione tra Italia e Libia, ma soprattutto rappresentavano i due momenti diversi di un'unica politica.

Che prevedeva, con ogni mezzo possibile, per quanto inumano, la riduzione ai minimi dei flussi d'immigrazione. Al di sotto di ogni legge e indifferenti a tutte le norme internazionali vigenti, le prigioni libiche soprattutto, ma anche i centri in Italia, si rivelavano una micidiale tenaglia per i migranti.

La condanna che allora arrivò contro il governo che pubblicizzava le espulsioni di massa sembrava fosse soltanto quella dei cattolici, del mondo del volontariato, di un’opposizione che si voleva per forza buonista, devota all’accoglienza per romantico spirito di fratellanza, invece che espressione di una cultura costruita sul piano giuridico nel solco europeo e in quello sociale nel rispetto dei diritti umani.

La sentenza di Strasburgo rimette in asse il giudizio politico sulla difficile questione dei migranti e ribadisce non soltanto l’orrore morale che la propaganda produce, ma la necessità di affrontare politicamente il problema senza scorciatoie poliziesche.

Soccorso, accoglienza, identificazione, vaglio del diritto d’asilo sono parti di un processo che non può saltare se non si vogliono resuscitare i peggiori mostri giuridici di un passato nemmeno troppo lontano e se si vuole continuare a parlare dell’Europa liberale con coerenza e credibilità.

Al governo più europeista che abbiamo mai avuto non sfuggirà l’urgenza di intervenire sul problema. La bocciatura dell’Europa non può fare meno paura dello spread in picchiata, anche perché il senso del ridicolo vuole - vale la pena ricordarlo - che si continuino a tenere in piedi costosi teatri operativi sparsi per il mondo, che caro costano alle tasche dei contribuenti, per portare in giro la nostra civiltà del diritto, mentre basta spingersi a pochi chilometri da Lampedusa per violarli tutti, con tanto di uniforme e sigillo di governo.

di Rosa Ana De Santis

Siamo partiti qualche giorno fa con le foto della rianimazione a terra di un paziente nel Pronto Soccorso del San Camillo, per poi passare alla donna in coma legata alla barella nel Policlinico Umberto I sempre di Roma. La visita del senatore Marino nello stile di un autentico blitz, ha portato sulle pagine dei giornali quanto numerosi cittadini patiscono ogni giorno sulla propria pelle. Attese in barella stipati l’uno sull’alto, non importa la gravità della patologia o del codice, personale sanitario costretto a lavorare in situazioni di degrado, file interminabili con una gestione del DEA che suscita più dubbi che rassicurazioni.

La governatrice della Regione Lazio, mentre convoca tutti i direttori sanitari dei nosocomi che hanno un DEA al proprio interno, si affretta a dichiarare che i pazienti al centro dello scandalo hanno tutti avuto adeguata assistenza sanitaria. Intende forse dire la Presidente che è in linea con la qualità del servizio sanitario che una persona in coma sia lasciata su una barella, in attesa di ricovero, legata perché non cada?

Prosegue dunque l’ispezione dei NAS negli ospedali romani, fortemente voluta dal Ministro della Salute, Balduzzi. Si dimostra almeno l'intenzione del governo di intervenire con urgenza nel buco nero della sanità e che anticipa una riorganizzazione globale di alcune prestazioni sanitarie, in primis l’Intra Moenia finora rimasta marginale, nonostante la legge del 2007 parli chiaro, per inadeguata organizzazione dei nosocomi e quindi spesso spostata negli studi medici privati.

La questione appena citata, che sta già scaldando i camici bianchi e il rischio di avere meno libertà per prendere lo stipendio del pubblico mentre si passano giornate intere negli studi privati, racconta solo una parte della storia degli ultimi dieci anni di sanità pubblica italiana. Vessata dai tagli, convertita alla logica deteriore dell’aziendalizzazione e del profitto che male si associa ad un’attività che non potrà mai diventare motore di business, se non attentando alla salute delle persone come tanti scandali raccontano molto bene. Basta ricordare l’orrore della clinica milanese S. Rita e la macelleria chirurgica pianificata a tavolino per fare cassa.

Quello che accade a Roma, e non da una manciata di giorni, come la politica dall’alto vorrebbe far credere, non è più uno scandalo per nessuno e il modello laziale, in stato di commissariamento e di pesante debito che rischia di far mettere i sigilli ad un policlinico come il Gemelli, tanto per fare un esempio, è speculare a quello che accade nella Lombardia con il sistema Formigoni. I due sistemi si somigliano: ammiccamenti alle strutture in convenzione, mentre si procede a tagli con l’accetta per il sistema pubblico, che minano il diritto alla salute di migliaia di cittadini come la chiusura indiscriminata dei pronto soccorso del territorio voluta dal Piano Polverini ha generato, intasando gli ospedali capitolini per far tornare i conti e lasciando a piedi cittadini, paesi e comunità.

Se è vero che l’intasamento dei pronto soccorso genera le scene che abbiamo visto in tv, è vero anche che questo accade per l’assenza di strutture di accoglienza ad hoc sul territorio. Il sistema sanitario nazionale è ufficialmente al collasso, eccezion fatta per alcune regioni virtuose (Toscana, Marche, Emilia, Umbria), con alcune situazioni di allarme, come quella del Lazio, che non ha visto mai significativi cambi di rotta, nonostante l’alternanza del colore politico, da quando il liet motiv della compatibilità aziendale è divenuto il principio e la fine della prestazione d’opera dovuta. Ma, va detto, il livello vergognoso raggiunto con la giunta Polverini e i suoi commissari politici non ha precedenti.

E’ forse arrivato il momento che la politica torni ad essere responsabile di quello che accade negli ospedali di un paese che vuole essere annoverato nel consesso degli stati più sviluppati. Le ispezioni che hanno acceso soltanto ora tutti i riflettori devono diventare un tribunale costante sul lavoro dei sanitari e sulla vita dei pazienti. Urge riconsegnare al mandato costituzionale la sanità pubblica: è il solo modo affinché scorciatoie, liste d’attesa interminabili, macchinari spenti e ambulatori deserti diventino il problema da affrontare e superare.

Serve un’indicazione sul futuro e può arrivare solo dalla messa in soffitta della cultura mercatista della salute, che - come da modello privatistico statunitense - tratta la sanità come un affare e i malati come un costo. I risultati eccellenti della Regione Toscana, che offre servizi di primo livello e contabilità positiva, dimostrano che la cultura politica che ispira quella sanitaria fa la differenza nell'erogazione del servizio. Cominciare dunque a curare il paese dai danni del mercatismo è il primo passo per ricominciare ad occuparsi della sanità pubblica con le risorse e l’attenzione che i suoi malati meritano.


di Fabrizio Casari

Ovunque si trovi, quale che sia la capitale da dove parla, Monti ripete ossessivamente che rientreremo dal debito in pochi anni e che si deve aumentare la flessibilità del lavoro per rendere l’Italia più appetibile per gli investitori. E giù complimenti, da Obama alla Merkel, da Sarkozy alle comunità finanziarie. Nemmeno più l’ombra della famosa equità minacciata: il vocabolario del professore monocorde si è finalmente liberato di quel concetto decisamente anomalo per lui.

Appare ormai chiaro, infatti, che rientrato in parte il differenziale dello spread, il governo Monti si sta dedicando al tentativo di riscrivere le norme che regolano il welfare, le relazioni industriali e il mercato del lavoro; in una parola, l’organizzazione economica e sociale del paese. E appare altresì chiaro in che direzione e a vantaggio di chi lo sta facendo. L’ossessione contro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha un valore simbolico molto più alto di quello materiale, per questo l’accanimento. La sua abolizione contiene in sé un valore paradigmatico delle relazioni industriali che si vuole imporre ai lavoratori e proporre alle imprese.

A leggere il bilancio degli oltre cento giorni di governo è difficile scorgere elementi di discontinuità. Non ci sono patrimoniale, riduzione delle spese militari e uscita dai conflitti dove siamo impegnati; non ci sono imposizioni o anche solo regolamentazioni al sistema bancario e mancano provvedimenti contro le speculazioni dei cartelli assicurativi; nessun controllo sulle aziende che aggirano le normative con trucchi contabili, non vengono previsti gli stop alle opere pubbliche dispendiose, disastrose ed inutili come la TAV e non c’è la vendita all’asta delle frequenze televisive.

Abbiamo assistito al grande battage mediatico sul contrasto all’evasione, ma il ripristino del reato di falso in bilancio non è alle viste. Meno che mai una legge drastica sul conflitto d’interessi (che d’altronde fatta da questo governo sembrerebbe la metafora del tacchino che si autoinvita alla cena di Natale). Il tutto innaffiato con l’illusione ottica sulle liberalizzazioni: davvero vogliamo credere che un po’ più di licenze di taxi e l’abolizione del tariffario minimo per i professionisti, insieme alla possibilità di acquistare le aspirine nei supermercati faranno ripartire il ciclo della crescita economica?

Questo è Monti, uomo di destra ancorato ai desiderata dei poteri forti che lo sostengono fintanto che il suo lavoro premia i loro interessi. Non è un caso, infatti, che il sostegno più vigoroso alla politica di un governo che non tocca i privilegi e si scatena contro i diritti venga dalle file del centrodestra. La continuità del governo Monti con quello Berlusconi, del resto, la ricorda quotidianamente l’attuale Presidente del Consiglio e il fatto che non organizzi festini a luci rosse risulta solo essere indicativo di differenze di etica ed estetica, pur apprezzabili con il suo predecessore.

Ma è indubbio che le scelte di politica economica siano integralmente nel solco del paradigma berlusconiano e, cosa ancora peggiore, nella continuità con la tutela degli interessi di cui l’ex-premier é portatore. Bastino solo, a titolo esemplificativo, lo strangolamento della Rai e il beauty contest sull’assegnazione delle frequenze del digitale terrestre.

Questo è Monti, dicevamo. Ci si può però domandare come mai il PD, in tutte le sue componenti, non riesca a profferire verbo, ad elaborare critica, a proporre una diversa impostazione da una linea che rischia di farci precipitare verso la Grecia piuttosto che arrampicarci verso la Germania. E, in conseguenza, come possa accomodarsi nel ruolo di spettatore pagante davanti al film della realizzazione del berlusconismo senza Berlusconi.

Nessuna dichiarazione proveniente dal Partito Democratico ha tenuto a precisare come il sostegno del centrosinistra al governo Monti sarà riconfermato solo in presenza di una discontinuità con il regime berlusconiano. Non vorremmo che la strenua opposizione al cavaliere fosse stata in fondo di natura personale, estetica; ritenendolo cioè inadatto a governare non in quanto portatore di una linea economica iniqua ma in forza dei suoi comportamenti personali, certamente lesivi del buon gusto e del bon ton istituzionale.

Può sembrare una forzatura, ma a ben guardare non lo è poi tanto. Quello che ormai distingue il PD è, infatti, una linea che somiglia molto a una resa incondizionata e il sostanziale isolamento della Cgil nello scontro con il governo racconta meglio di ogni altro dettaglio la crisi profonda, strutturale, dell’ammucchiata di ex che compone il partito di Via del Nazareno.

Una domanda appare ineludibile: cosa guadagna il PD dal sostegno a Monti? Oltre alla considerazione delle cancellerie occidentali, cosa porta a casa il PD dal dissanguamento del Paese? Cosa del suo ipotetico programma di governo trova accoglimento nell’attuale Esecutivo? E soprattutto: cosa condivide del suo operare al punto che lo riproporrebbe una volta al governo?

Fino ad ora le risposte, su questi e altri temi, non sono arrivate. O, peggio ancora, quando ci sono state sono risultate pericolosamente simili a quelle fornite dalla destra. Davvero è difficile da capire dove risiedano le differenze tra il programma delle banche e dal governo che da esse dipende e gli obiettivi di chi, da sempre, si dice rappresentante del mondo del lavoro.

Nello scorrere delle giornate, si resta in attesa di un colpo d’ala, di una presa di posizione che vada oltre la battuta per i tg. Di un’idea, di un ragionamento che, pur senza l’ardire di una tesi, faccia intravvedere un disegno di politica economica diverso da quello propinato. Una discontinuità politica, questo è quello di cui si sente il bisogno.

Ma vogliamo fotografare, pur grossolanamente, la situazione all’oggi? Vendola e Di Pietro, ai quali pure diversi meriti vanno riconosciuti, affermano con forza la necessità dell’unità con il PD, riproponendo la foto di Vasto come soluzione alla proposta politica. Difficile dargli torto. Nel contempo però, il PD ricorda che il legame con il centro è inevitabile, mentre Casini rammenta ogni giorno che questo governo è l’aspirazione del passaggio storico verso la rinascita del partito unico dei moderati (e certo non pensa al PD quando lo cita).

Dunque lo scenario è questo: Ferrero insegue Vendola e di Pietro, mentre Vendola e Di Pietro inseguono Bersani; Bersani però insegue Casini, ma Casini insegue Monti e quest’ultimo s’ispira a Berlusconi che, nel frattempo, invita Passera a guidare il PDL futuro. Non è una puntata degli sgommati, è il disegno del tragicomico quadro politico italiano.

Rifletta il PD: senza un disegno diverso, senza l’aspirazione al cambiamento, senza un progetto futuro per un’altra Italia, restano solo l’inciucio e l’equivoco tra il governo e l’amministrazione dell’esistente. E mai come in questo momento nel quale il Paese è piegato, incerto, e non vede prospettive di crescita ed equità, la ricerca di una nuova identità politica e culturale vengono avvertite come indispensabili. Galleggiare nel vuoto dimostra solo che l’inutilità dell’oggi sarà sostituita da quella del domani. Conviene saperlo: non solo nessuno ha votato per Monti, ma nessuno a sinistra voterà per chi lo insegue.

 

di Rosa Ana De Santis

Nel pieno del dibattito sulla crisi del lavoro, nell’ossessiva riflessione sull’articolo 18 venduto come unica questione politica, quando invece ci si trova di fronte ai licenziamenti, alla precarietà e alla mancanza di crescita, destano ancora più scalpore le storie dei figli. Quelli dei papà illustri di quello stesso governo che incoraggia i giovani ad amare la flessibilità e a non ribellarsi di fronte allo smantellamento progressivo dei diritti, con deroga per i propri pargoli per i quali valgono le regole del noioso posto fisso (e ben pagato) di una volta.

Dalla Fornero alla Cancellieri, da Passera a Profumo, da Catricalà alla Severino, per non parlare dello stesso Monti, i pargoli sono sistemati in incarichi ben remunerati e prestigiosi. Niente, proprio niente, li lega al mondo del precariato e dell’incertezza. Ma le vicende dei figli di papà e mammà del governo dei professori non rappresentano una novità nelle vicende penose di questo scalcinato paese. Non desta meraviglia che i figli di papà riescano a collocarsi meglio e più in fretta.

Non è la velocità delle scorciatoie a suscitare scandalo nel paese delle raccomandazioni o segnalazioni, come vuole chiamarle un certo linguaggio perbene. Stupisce e indigna, semmai, l’ostentata facciata moraleggiante che questo governo si è autoassegnato, ma che ha già perso di fronte ad un paese che - peraltro - non l’ha mai autorizzato a governare dalle urne, come si conviene in una democrazia.

L’auto investitura quasi savonarolesca dei professori convocati per ridare credibilità all’Italia che veniva dai festini di palazzo è già roba per soli estimatori; se non a Bruxelles, almeno in casa. I titoli di scena venduti per edulcorare la disperata condizione dei giovani, soprattutto quelli talentuosi e preparati, non hanno credibilità né valore quando i rampolli di casa, oltre a non avere problemi di collocazione e stipendio, mandano in giro mamma e papà con un duplice incarico: il primo è sistemare loro ben benino, il secondo è di raccontare agli altri quanto è bello perdere un lavoro per l’ebbrezza di cercarne un altro; quando è stimolante non guadagnare mai abbastanza per cadere nella noiosa routine; quanto “fa giovane”  pagare tutto il prezzo della crisi più nera.

Ovviamente i rampolli, ignari della difficoltà di andar via da casa pagando un affitto spesso d’identico importo della borsa di studio o dello stipendio, non si sono mai nemmeno domandati cosa significhi non avere un posto fisso. Nelle chiacchiere tra i risottini e i cognac nei salotti sabaudi l’argomento non viene proprio previsto.

Fossero stati tra noi, invece che nelle boiserie, i ciarlieri professori avrebbero potuto chiedere al collega Passera cosa significhi non avere un posto fisso quando ci si reca in banca per chiedere un mutuo o anche solo un prestito personale, passaggi obbligati per chi non ha case in eredità dai munifici genitori.

Vivere nella bambagia della casa paterna, studiare nella libreria di famiglia, vedersi aprire le porte da esaminatori colleghi dei propri genitori e ricevere chiamate da istituti dove gli stessi genitori hanno ruoli importanti, non favorisce quello sviluppo “in cattività” che si consiglia ai comuni mortali come esercizio per la tempra e il superamento delle avversità.

Forse a forza di puntare il dito sulla casta dei politici, ci siamo dimenticati di prendere in esame quella dei docenti e dei consulenti delle impomatate famiglie della borghesia sabauda e meneghina, come pure di quella romana e quella di discendenza borbonica, che pesano meno ma non sfigurano nel confronto.

La borghesia protegge i suoi figli, li coccola e li nutre, da sempre. Ma solo da poco ha imparato l’arte della sfacciataggine nell’indicare agli altri come affrontare le difficoltà del vivere. La casta dei salotti, alla fine, si dimostra peggiore di quella dei politici, giacché dispone e comanda, si arricchisce e gode, senza nemmeno aver subito il “disturbo” di presentarsi in pubblico e farsi votare. Il consenso serve agli altri, a loro basta il censo.

 

 


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy