di Rosa Ana De Santis

La Corte Europea ha condannato il nostro paese sulla vicenda dei respingimenti in mare verso la Libia. La violazione riguarda specificatamente l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, quello relativo ai trattamenti degradanti, alla tortura e al divieto del respingimento collettivo e indiscriminato, ma la sentenza mette sotto accusa l'intera politica italiana nei confronti dell'immigrazione.

I fatti riportati in sentenza risalgono al tempo dell’amicizia tra il Colonnello Gheddafi e l'allora premier Berlusconi, quando 200 persone furono rimandate in Libia contro la propria volontà e senza alcuna procedura di identificazione che consentisse di studiare i singoli casi e di accogliere, ad esempio, i numerosi rifugiati politici presenti. Stessa sorte di rimpatrio coatto toccò alle numerose donne presenti, quelle in gravidanza comprese, e ai bambini.

L’Italia dovrà versare un risarcimento di 15 mila euro a 22 delle 24 vittime e la sentenza dovrà produrre senza dubbio una svolta importante nella condotta del nostro Paese sulla questioni dei respingimenti in mare. Significa non soltanto che il governo Monti dovrà riprendere in mano il trattato con la Libia, ma che tutta la questione dei respingimenti al confine va ripensata e affrontata con strumenti migliori e con un diverso approccio politico. Non è più questione di sentimento né di sola moralità, ma di chiaro obbligo di legge, oltre che di lungimiranza politica.

Al caso Hirsi, al barcone del primo respingimento, ne seguirono molti altri per una stima complessiva, secondo l’UNCHR, di circa mille persone rimandate a casa senza alcun accertamento sulla condizione del loro caso e delle possibili persecuzioni che li avrebbero attesi in un paese che soltanto più tardi l’Italia ha scoperto come "illiberale". La prigioni libiche da una parte e i cosiddetti centri di d'accoglienza temporanea italiani dall'altra, erano parte non solo degli accordi di cooperazione tra Italia e Libia, ma soprattutto rappresentavano i due momenti diversi di un'unica politica.

Che prevedeva, con ogni mezzo possibile, per quanto inumano, la riduzione ai minimi dei flussi d'immigrazione. Al di sotto di ogni legge e indifferenti a tutte le norme internazionali vigenti, le prigioni libiche soprattutto, ma anche i centri in Italia, si rivelavano una micidiale tenaglia per i migranti.

La condanna che allora arrivò contro il governo che pubblicizzava le espulsioni di massa sembrava fosse soltanto quella dei cattolici, del mondo del volontariato, di un’opposizione che si voleva per forza buonista, devota all’accoglienza per romantico spirito di fratellanza, invece che espressione di una cultura costruita sul piano giuridico nel solco europeo e in quello sociale nel rispetto dei diritti umani.

La sentenza di Strasburgo rimette in asse il giudizio politico sulla difficile questione dei migranti e ribadisce non soltanto l’orrore morale che la propaganda produce, ma la necessità di affrontare politicamente il problema senza scorciatoie poliziesche.

Soccorso, accoglienza, identificazione, vaglio del diritto d’asilo sono parti di un processo che non può saltare se non si vogliono resuscitare i peggiori mostri giuridici di un passato nemmeno troppo lontano e se si vuole continuare a parlare dell’Europa liberale con coerenza e credibilità.

Al governo più europeista che abbiamo mai avuto non sfuggirà l’urgenza di intervenire sul problema. La bocciatura dell’Europa non può fare meno paura dello spread in picchiata, anche perché il senso del ridicolo vuole - vale la pena ricordarlo - che si continuino a tenere in piedi costosi teatri operativi sparsi per il mondo, che caro costano alle tasche dei contribuenti, per portare in giro la nostra civiltà del diritto, mentre basta spingersi a pochi chilometri da Lampedusa per violarli tutti, con tanto di uniforme e sigillo di governo.

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