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di Mariavittoria Orsolato
Lo scorso 2 marzo il Governo ha detto chiaro e tondo che la TAV s'ha da fare ad ogni costo. Contravvenendo al titolo di “tecnico” di cui si effigia, al momento della conferenza stampa Monti non aveva presentato alcuna evidenza a suffragio dell'indispensabilità dell'Alta Velocità/Capacità e si era limitato a ripetere slogan sullo sviluppo e sulla creazione di lavoro per i giovani, promettendo però che i documenti con le ragioni del “si” sarebbero stati presto disponibili.
A distanza di una settimana l'esecutivo ha quindi frettolosamente pubblicato - anche di fronte alle imponenti manifestazioni di dissenso messe in atto dai No Tav - un breve documento di 9 pagine dal titolo “TAV Torino-Lione: Domande e Risposte”. Un imbarazzante ask&tell, evidentemente messo su alla bell'e meglio in mancanza di argomentazioni serie e circostanziate, che buona parte della comunità scientifica definirebbe ridicolo per il solo fatto che manca di fonti e studi verificabili a suo supporto.
Oltre ai dati sulla sostenibilità dell'opera e sulla effettiva utilità per il trasporto di merci e passeggeri (tutti già ampiamente confutati), al punto 5 del documento viene messa nero su bianco la cifra che il Governo dovrà investire in quelli che dovrebbero essere gli indennizzi agli abitanti della Valsusa. “Come segno di attenzione nei confronti delle comunità locali coinvolte dal progetto - si legge in calce al paragrafo - il prossimo CIPE stanziera? 20 milioni di euro, che rappresentano la prima tranche di 300 milioni di euro relativi all’intesa quadro tra Governo nazionale e Regione Piemonte, che dà corpo all’Accordo di Pracatinat. Inoltre, sono previsti 135 milioni di euro di opere compensative per il territorio”.
Nel testo dell'accordo siglato il 28 giugno del 2008 dal famoso Osservatorio (di cui è presidente lo stesso Mario Virano che oggi è commissario di Governo per la Tav) non si accenna minimamente a questi 450 milioni ma si fa riferimento a generiche opere d’implementazione per il trasporto su rotaia di merci e passeggeri.
Per quanto riguarda dati e proposte sugli indennizzi, che giuridicamente spettano ai valsusini a titolo di compensazione per la perdita degli immobili di proprietà e i disagi conseguenti alla messa in opera del cantiere, nulla è stato ancora ufficializzato e, ad oggi, l'unico documento disponibile è quello che RFI ha prodotto nel 2010 per mappare le aree e gli immobili di tredici comuni interessati dal progetto e valutarne gli oneri di esproprio.
Premesso che in Francia hanno deciso di indennizzare tutti gli immobili situati entro 150 metri dalla linea ferroviaria, comprandoli dai proprietari a prezzo di mercato, mentre in Italia invece gli acquisti sono limitati agli edifici da abbattere o immediatamente contigui, è comunque possibile farsi un'idea dell'enorme impatto ambientale e sociale che i lavori della TAV avranno sui territori.
Stando alla documentazione messa assieme dalle Ferrovie dello Stato, l'area complessiva da espropriare si stima attorno a 1.530.000 metri quadri, dei quali 630.000 serviranno a fare spazio al nuovo tracciato ferroviario e 900.000 saranno adibiti ad ospitare le famose opere compensative. A queste aree si devono però aggiungere anche 200.000 metri quadri la cui agibilità verrà fortemente limitata a causa degli scavi nel sottosuolo ed altri 650.000 metri quadri che verranno “temporaneamente” occupati - la stima ottimistica dice per 15 anni, ma si sa che da noi il tempo è relativo - per le esigenze provvisionali.
Ci sono poi altri 1.400.000 metri quadri che verranno utilizzati come deposito per il materiale di risulta degli scavi: queste aree corrispondono alle ex cave utilizzate durante i lavori per l'autostrada Torino-Milano ma, stando sempre al testo di RFI, dal momento che su questi terreni non è stata dichiarata la pubblica utilità non ci sono progetti d'indennizzo né di eventuali interventi pubblici di compensazione.
Tutte le altre aree interessate dai lavori per la TAV sono invece state dichiarate di pubblica utilità e per le sue stime RFI si è basata sul decreto presidenziale 327/200, meglio conosciuto come Testo Unico sulle espropriazioni per pubblica utilità. In particolare il DPR specifica che le somme d'indennizzo devono risultare dalla combinazione di 4 fattori: il valore di mercato, il coacervo delle aree edificabili, il valore agricolo medio del terreno (VAM) e, solo per le aree agricole, le maggiorazioni sul mancato indotto.
Nei criteri di stima delle Ferrovie dello Stato, le aree agricole dovrebbero essere indennizzate in base al solo VAM, le aree urbane edificabili in base al 100% del valore commerciale mentre per quelle edificate verrà corrisposto solo il 10% del valore commerciale. Immediatamente dopo viene specificato che l'indennizzo per i fabbricati abitativi e industriali “fa riferimento al valore commerciale del nuovo desunto da una sommaria indagine in loco e dai valori desunti dalle pubblicazioni si settore differenziati con l'applicazione dei correttivi che considerano l'effettivo stato ed uso” ma se si considera che una proprietà immobile è giocoforza all'interno di un'area urbana edificata - in Italia si costruirà certo ovunque, ma si è pur sempre sotto un comune - è facile individuare la contraddizione.
Se i dati di RFI sono ancora a livello di proiezione è però possibile già da ora figurarsi le esternalità negative che si abbatteranno sul mercato immobiliare della valle, sia che gli immobili vengano espropriati sia che restino ai loro proprietari. La valle di Susa é stata infatti per 40 anni oggetto di cantieri per grandi opere: la diga internazionale del Moncenisio, il raddoppio della ferrovia e dei tunnel ferroviari, il tunnel autostradale e l’autostrada del Frejus, poi l’impianto e la centrale idroelettrica di Pont Ventoux, una delle più grandi d’Italia e il raddoppio del maxi elettrodotto.
Il sovraccarico di opere di attraversamento e di cantieri in aree residenziali produce necessariamente il cosiddetto “effetto Bronx”, dal nome del noto quartiere di New York che, tra le due guerre, è passato da zona urbana con i più ampi parchi della città, a luogo simbolo del degrado. Quando rumori e disturbo superano una certa soglia, la popolazione originaria non accetta più il costo dell’affitto e si sposta, facendosi sostituire da una che accetta il disturbo perchè può pagare di meno. Questo si riflette nella manutenzione ed innesca una spirale che riduce sempre di più la qualità abitativa, facendo crollare parallelamente il valore di mercato degli immobili e dei terreni, a chiaro vantaggio dei promotori egli espropri.
Per adesso dunque non ci è dato sapere quanto verrà corrisposto esattamente ai valsusini espropriati delle loro abitazioni e dei loro terreni. I proprietari dei terreni oggetto dell'ampliamento del cantiere della Maddalena sono stati convocati per l’esecuzione dei decreti di occupazione e per il verbale sulla consistenza dei beni l’11 aprile alle 9. Ma nel frattempo i terreni prospicienti al cantiere sono stati comunque interdetti alla popolazione e agli stessi proprietari.
Come Luca Abbà - il No Tav che per difendere la sua terra si è arrampicato su un traliccio dell'alta tensione ferendosi gravemente - sono in tanti a vivere di quello che produce il loro terreno e tra le reti della TAV sono rimasti impigliati decine di coltivatori diretti a marchio DOP e imprenditori, costretti ad esibire documentazioni e permessi degni del Muro di Berlino, solo per poter calpestare la terra che è di loro proprietà. Di questi costi, squisitamente sociali, il Governo attuale e quelli che l'anno preceduto non si sono minimamente interessati se non nella misura fumosa delle “opere compensative”. Ed è anche per questo che la Torino-Lione rischia seriamente di diventare l'ennesima inutile cattedrale nel deserto.
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di Fabrizio Casari
L’assalto dilettantesco operato dalle SBS britanniche in collaborazione con la polizia nigeriana è costato la vita ai due ostaggi. L’Italia è stata volutamente esclusa dal coordinamento operativo e persino tenuta all’oscuro del blitz. Non erano i nigeriani a doverci informare, ma gli inglesi, dal momento che Roma è alleata di Londra e non di Lagos. Ma i Servizi segreti di Sua Maestà non hanno ritenuto di doverlo fare.
Difficile pensare ad imperizia o a meccanismi di comunicazione venuti meno nella fase convulsa dell’operazione; i britannici, di esperienza sul campo e di attività diplomatica ne sanno più di noi. Ora, il fatto che Londra assegni livelli di credibilità alla polizia nigeriana e non ai Servizi italiani è semplicemente un’iperbole. Non è così e nemmeno avrebbe senso ipotizzarlo. Dunque è legittimo domandarsi il perché di una scelta come quella del Premier Cameron.
Forse si temeva che Roma avrebbe posto il veto al blitz, avendo un suo connazionale come ostaggio e, per ciò stesso, diritto a dare il via libera all’operazione o ad opporvisi? O forse si riteneva che, avendo i Servizi italiani iniziato e portato a buon punto la trattativa con i sequestratori (pare che una parte del riscatto fosse già stato consegnato tramite un intermediario) avrebbero addirittura potuto far fallire un blitz del quale avevano - e con mille ragioni - motivo di dubitare del buon esito? Del resto la polizia nigeriana non ha certo fama di qualità nel lavoro investigativo e dunque le sue indicazioni, da sole, non potevano rappresentare una fonte credibile nel disegnare uno scenario operativo.
Sarà difficile ottenere risposte esaustive, vista la materia e i governi coinvolti. Londra sta abilmente cercando di manipolare i media (decisamente poco convinti dell’operato di Downing street) facendo trapelare informazioni assolutamente finte sulla dinamica degli eventi. Circolano versioni per le quali i sequestratori avrebbero deciso di uccidere gli ostaggi a freddo, quando si erano resi conto dell’imminenza del blitz, ma sembrano piuttosto offrire una via d’uscita all’operato dilettantesco delle Special Boat Service, gli incursori di marina si Londra.
Per non parlare poi della cessione degli ostaggi ad Al-Queda, che non manca mai nelle storie costruite ad hoc per le opinioni pubbliche. L’autopsia sui due poveri ostaggi indica però che il povero ingegner Lamolinara è stato ucciso con quattro colpi di Kalashnikov e ciò, più che ad una esecuzione sommaria (solitamente realizzata tramite un colpo in testa o alla nuca) fa pensare all’esito maledetto di una sparatoria, e solo la perizia balistica potrà affermare se i proiettili che li hanno uccisi provenivano dai sequestratori o, addirittura, da “fuoco amico”.
E comunque, a dimostrare l’imperizia e l’idiozia che hanno governato il blitz, va osservato che anche ammesso che siano stati i sequestratori ad uccidere gli ostaggi, normalmente la scelta tra il far intervenire le teste di cuoio o far prevalere la prudenza e la trattativa è proprio la possibilità che i rapitori decidano di eliminare gli ostaggi, minaccia del resto alla base di ogni sequestro. E dunque, secondo le stravaganti menti dello MI6 , quali sarebbe il comportamento da tenere in casi come questi?
E, stabilita l’imprescindibile, assoluta affidabilità delle fonti che dovrebbero illustrare le condizioni nelle quali si effettua un blitz (che vanno dall’allocazione del rifugio alla posizione degli ostaggi, dal numero dei sequestratori al loro armamento, alla loro determinazione di uccidere alla chiarezza degli ordini impartiti da chi li guida) davvero si poteva ritenere che l’operazione avrebbe avuto un sufficiente margine di successo? Perché la riuscita dell’operazione non si misura dalla morte dei sequestratori, ma dal restare in vita degli ostaggi. Fossero stati parenti del Premier inglese o della Casa Reale si sarebbe agito nello stesso modo?
Ma certo non si può negare che la scelta di Cameron sia stata una scelta politica. Lo è stata sia nel voler indicare la linea di Londra nei sequestri di persona che nella decisione di non informare Roma. Ci si può quindi chiedere legittimamente quale sia la considerazione e il rispetto di cui l’Italia gode presso i suoi alleati. Quello di non avvisarci dell’imminente blitz in Nigeria, segue un altro affronto quale quello consumatosi in Libia alla vigilia e durante la guerra civile, con francesi e inglesi che addestravano e rifornivano di armi i ribelli mentre i rispettivi Servizi, civili e militari, s’incaricavano di svolgere il lavoro d’intelligence sul campo. Quest’ultimo aspetto è addirittura proseguito oltre la scesa in guerra italiana, in particolare nell’ultima fase del conflitto, quando americani, inglesi e francesi si sono scatenati nella caccia a Gheddafi e alla sua famiglia, guardandosi bene dal condividere informazioni e strategie con Roma.
O forse, come già in passato (il caso Sgrena-Calipari insegna) si è tenuta fuori l’Italia dalle decisioni operative perché si aveva l’intenzione di mandare un segnale chiaro e oppositivo alla strategia italiana della trattativa con i rapitori? I britannici, è noto, hanno da decenni perso ogni brandello di autonomia e sono, più o meno, l’estensione della volontà statunitense su scala europea e mediorientale. La linea politica che anima le scelte in materia bellica e d’intelligence è emanazione diretta di una subordinazione politica verso Washington che caratterizza Londra sin dai tempi della signora Tatcher.
Detto ciò, non si possono tacere le responsabilità pesanti dei nostri stessi Servizi: un pessimo monitoraggio della vicenda e una colpevole assenza dallo scenario operativo sono solo i primi aspetti evidenti, ma raccontano sufficientemente quanto Roma abbia davvero bisogno di resettare le sue indicazioni strategiche e il livello di efficienza della sua intelligence.
Invece di preoccuparsi del rischio di terrorismo nascente dai conflitti sociali, operando così un tentativo (abituale) di cercare il nemico pericoloso in ogni conflitto sociale e politico interno, sarà bene che capiscano in fretta l’utilità di indirizzare risorse e uomini dove davvero la sicurezza degli italiani è a rischio. La stessa vicenda dei due Marò in carcere in India racconta bene quanta approssimazione ci sia nei vertici militari e politici italiani.
Ora Monti avrà di che riflettere: la credibilità di Roma tra gli speculatori dei mercati finanziari sarà anche cresciuta, ma tra i suoi alleati politici e militari continua a godere di scarso valore. Sarebbe quindi necessario reagire ai ceffoni inglesi e, nello stesso tempo, esigere dai responsabili dei Servizi e della diplomazia italiana le loro dimissioni per manifesta incapacità. A meno di non ripetere il mantra solito e voler dire che, di recitare la parte della marionetta, ce lo chiede l’Europa.
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di Mariavittoria Orsolato
Lo scorso venerdì Mario Monti ha detto chiaro e tondo che la TAV s'ha da fare. Dopo aver convocato una task force - composta dai ministri Passera, Clini, Cancellieri, Severino e dal commissario di governo per la Tav Mario Virano - e aver presumibilmente soppesato i pro e i contro della Torino-Lione, il premier si è risolto ad affermare che l'Alta Velocità è un'opera fondamentale per lo sviluppo italiano.
Indispensabile, nell'ordine, per “rimanere agganciati all'Europa, in senso anche fisico”; perché “genera benefici economici rilevanti e posti di lavoro”; perché “dimezzerà i tempi di percorrenza”. Ammiccando ai giovani, il cui tasso di disoccupazione è salito ulteriormente al 31%, Monti ha quindi chiuso il suo intervento dicendo che la Tav è “necessaria per consentire ai giovani italiani una prospettiva migliore”.
I documenti a suffragio della posizione del governo non sono ancora disponibili ma da quanto si è potuto capire in conferenza stampa, il motore principale del si alla Tav risiede nelle potenzialità di sviluppo e conseguente utilità pubblica che soggiacciono alla grande opera. Eppure per i moltissimi che alla Tav dicono no - e che dimostrano le loro ragioni con enormi quantitativi di documenti, analisi e ricerche terze - la questione fondamentale del progetto della nuova linea ferroviaria è proprio la sua inutilità. A partire dalle ipotesi di traffico merci e passeggeri su cui il progetto si basa, che sono state prontamente smentite dalla realta? dei fatti.
Stando ai dati aggiornati al 2010, al traforo del Frejus il traffico merci della ferrovia esistente é sceso nel 2009 a 2,4 milioni di tonnellate, poco più di un decimo del traffico dei 20 milioni di tonnellate previsti all’origine del progetto. Non bastasse, gli studi evidenziano anche come l’insieme del traffico merci dei due tunnel autostradali del Frejus e del Monte Bianco sia sceso nel 2009 a 18 milioni di tonnellate, come nel 1988.
Nel dettaglio il traffico merci del Frejus, nel 2009, é stato di 10 milioni di tonnellate, come nel 1993, mentre quello del Monte Bianco si attesta addirittura ai livelli degli anni ’70. La punta massima si é avuta tra il 1994 ed il 1998 ma da allora i due tunnel hanno perso un terzo del traffico. Stando poi ai dati aggiornati al 2011, reperibili sul sito della Sitaf spa (la società che gestisce l'A32), anche il trasporto su gomma è in caduta libera, con un -4,96% rispetto al 2010, un -12% dal 2005 al 2008 e, in generale, un lento scemare dei transiti a partire già dall'anno 2000.
Il partito del Si Tav - un partito politicamente trasversale - ha poi sempre messo sul piatto l'irrinunciabilità dell'opera nei termini di collegamento con gli altri paesi europei, indicando nella tratta Torino-Lione il segmento mancante della direttrice Lisbona-Kiev. Si tratta del cosiddetto Corridoio 5, che altro non è se non una linea geografica che ha prolungato artatamente il tratto che va da Lione alla pianura Padana. Stando alla terminologia tecnica tanto cara all'Esecutivo, si può definire “corridoio” una direttrice di traffico che é percorsa in modo uniforme per gran parte del suo sviluppo, che in questo caso meriterebbe un piano di infrastrutture uniforme.
Ma se si parla solo di segmenti, alcuni dei quali insignificanti dal punto di vista del traffico, darle una strutturazione uniforme significa solo un immenso ed ingiustificato spreco. Il traffico merci che entra in Italia dalla Penisola iberica sceglie infatti l’itinerario costiero, senza “risalire” a Lione, e l’Unione Europea stessa lo ha già scorporato dal Corridoio 5.
Ad Ovest, a parte gli scambi in prossimità di Slovenia e Ungheria, tutto il traffico di questo asse che si sviluppi su tratte di sufficiente lunghezza e su volumi sufficientemente importanti da render conveniente il treno, ha più convenienza a prendere l’itinerario via mare, dalla costa del Mediterraneo a quella del Mar Nero, che gli é parallelo.
Le previsioni sui traffici sono considerate l’elemento principe per la costruzione di una grande opera di trasporto, perché é proprio da queste che si deve partire per capire se l’intervento avrà una sua utilità o si risolverà in un gigantesco buco finanziario. Per convenzione, la fonte dei dati storici transalpini sono le statistiche Alpinfo elaborate a cadenza annuale presso il Dipartimento Federale dei Trasporti svizzero, che armonizza le diverse rilevazioni nazionali per quantificare con precisione i flussi di merci passanti attraverso i 17 più importanti valichi dell’arco alpino. Eppure i proponenti della Torino-Lione, pur riconoscendole, non hanno mai accettato di confrontarsi con esse facendo quindi cadere l’elemento essenziale per convalidare il progetto.
Tutto il progetto della Torino-Lione si basa su un modello di previsioni creato da Lyon Turin Ferroviaire (LTF), la società di diritto francese creata ad hoc per promuovere la realizzazione della parte comune (circa 80 km) della TAV.
Il prospetto però non tiene conto delle rilevazioni dei transiti come quelle di Alpinfo e la società non ha mai accettato di discutere la propria validità o la propria taratura, anche quando si é visto che, dal 2002, i suoi dati mostravano una tendenza opposta all’andamento effettivo della ferrovia attuale. E nemmeno il tanto acclamato Osservatorio - messo in piedi nel 2006 per illudere i valsusini su una reale possibilità di dialogo - ha mai messo in discussione il modello proposto da LTF, nonostante la discordanza dei dati.
Le previsioni di traffici merci della Torino-Lione sono state calcolate anche dalla Schweizerische Bundesbahnen (SBB) che si occupa del progetto di traforo ferroviario del Brennero. Il loro modello, applicato ai dati Alpinfo, prevede che il nostro asse ferroviario, fatte le opportune modifiche, possa stabilizzarsi appena sopra 10 milioni di tonnellate, circa un quarto di quello di quelle 40 “previste” da LTF per il 2030. Ma anche di fronte a questo dato l’Osservatorio e LTF non hanno fatto alcuna verifica ed hanno sentenziato che è SBB a dover cambiare i propri metodi di calcolo,
Una delle più macroscopiche omissioni delle previsioni di LTF è proprio la mancata valutazione dell’impatto sui trasporti transalpini che sarà creata dalla messa in esercizio delle due direttrici ferroviarie che la Svizzera ha concordato con l’Unione Europea. L’ampliamento del Lotschberg-Sempione (già in esercizio) per ulteriori 20 milioni di tonnellate e soprattutto il Gottardo (pronto nel 2017) per 40 milioni di tonnellate, creeranno infatti una forte capacità di traffico. A rigor di logica questo innescherà una nuova e più stringente concorrenza, che renderà ancor meno futuribili le prospettive di utilizzo dei valichi occidentali.
A fronte dei soli dati sul traffico delle merci, è pacifico che l'Alta Velocità - tramutata semanticamente in Alta Capacità dopo aver appurato che la velocità non sarebbe stata affatto superiore a quella attuale - rappresenti un progetto faraonico che non ha ragion d'essere. I molti, anche fra i No Tav, che confidavano nella ragionevolezza del tecnico Monti si devono essere amaramente ricreduti.
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di Mariavittoria Orsolato
Alberto Perino, storico volto No Tav, l'aveva detto alla manifestazione di sabato: “Stiamo pronti, già da lunedì potrebbero cominciare l'occupazione e l'allargamento illegale del non-cantiere”. E così è stato. All'alba di lunedì mattina i blindati della polizia sono arrivati alla baita Clarea, terreno legittimamente acquistato da alcuni attivisti No Tav, occupandola e sgomberandola in modo illegittimo: l’ordinanza di sgombero non costituisce, infatti, l'inizio dell’attività espropriativa in quanto il Prefetto non ha autorizzato l’occupazione dei terreni privati.
Ciò nonostante, le forze dell’ordine hanno permesso la recinzione dei terreni privati e portato avanti lo sgombero in assenza di una specifica autorizzazione. Per questo e per tutti i motivi che tengono viva la resistenza dei valsusini,
Luca Abbà è salito su un traliccio dell'alta tensione: voleva provare a rallentare le operazioni di sgombero ma, incalzato da un rocciatore della polizia, ha sfiorato uno dei cavi elettrici ed è precipitato a terra da 10 metri. Salvo per miracolo, Luca ha dovuto comunque attendere 50 lunghissimi minuti prima che gli fossero prestati i dovuti soccorsi ed ora è al CTO di Torino in coma farmacologico, coma indotto per le gravissime lesioni e da cui dovrebbe svegliarsi tra sabato e domenica.
Un gesto eclatante quello di Luca, un gesto pericoloso e quasi incosciente, un gesto certamente eroico. Eroico come quel ragazzo cinese che si piazzò davanti al carro armato in piazza Tien An Men. Eroico come quei bonzi buddhisti che tutt'ora si danno fuoco nella lontana Asia. Eppure da noi in molti hanno visto la scalata di Luca come il gesto di un “cretinetti” (Libero), di uno che “se l'è meritato” (Il Giornale), di uno che se l'è andata a cercare. Nessuno che si sia chiesto come mai le forze dell'ordine non abbiano chiamato i vigili del fuoco - istituzione solitamente delegata al recupero di persone in situazione di pericolo come Luca - come mai sotto quel traliccio non ci fosse il materasso di sicurezza che solitamente si posiziona per evitare l'impatto col suolo, come mai nel video girato dalla PS manchi proprio la parte in cui Luca cade.
Le “migliori” firme del giornalismo italiano hanno preferito sindacare sul gesto, dimentichi dell'entusiasmo con cui hanno descritto le azioni dimostrative degli eroi sopraccitati. Perché è evidente che quando si parla del movimento No Tav esistono due pesi e due misure, e l'informazione italiana l'ha dimostrato appieno anche ieri. Ma andiamo per ordine.
A seguito dell'incidente di Luca e delle notizie di sgombero della baita Clarea si sono immediatamente creati presidi di solidarietà in tutte le maggiori città d'Italia mentre nella valle i valsusini sono corsi a bloccare l'A32, l'autostrada che collega Torino a Bardonecchia, il primo comune del nord Italia ad essere sciolto per mafia a causa dell'ingerenza della 'Ndrangheta negli affari politici locali.
Una mafia che i No Tav hanno sempre combattuto strenuamente, denunciando le aziende compromesse con le 'ndrine e documentando puntualmente gli interessi illeciti che ruotano attorno al progetto dell'Alta Velocità. Una mafia che pare essersi manifestata anche nella notte di martedì quando, a lato dei blocchi stradali tre auto di altrettanti attivisti No Tav hanno misteriosamente preso fuoco, così come un capannone pieno di legname e pellet situato proprio sulla rotonda dove iniziava il concentramento.
Eppure il dibattito pubblico di ieri sulla protesta No Tav si è concentrato sulla “pecorella” epiteto con cui uno dei ragazzi presenti al blocco dell'A32 si è rivolto ad un'agente antisommossa. Il monologo, ripreso dalle telecamere del Corriere della Sera, ha fatto il giro della rete e delle tv, scatenando l'inevitabile, sguaiatissima e manichea disputa sullo stare o meno dalla parte delle forze dell'ordine. Certo non bisognerà fare di tutta l'erba un fascio (sic!) ma è una dato di fatto che gli attivisti No Tav hanno assaggiato sulla loro pelle la durezza della militarizzazione della Valle.
Una militarizzazione che oltretutto sta a proteggere un cantiere che ancora non c'è, perché alla Maddalena - come hanno potuto constatare anche alcuni rappresentati del Parlamento Europeo - non c'è altro che una grossa e deserta zona recintata. Ma tant'è: l'agente si è beccato un encomio dall'Alto Comando dell'Arma e il ragazzo, durante le identificazioni di ieri, si è invece beccato una bella raffica di pugni dai colleghi della “pecorella”, come testimoniano le foto su Twitter.
Alla luce dei fatti, il giornalismo italiano pare aver dimenticato i fondamentali del mestiere, fondamentali che partono dalla parola e dal suo significato. A leggere i titoli e le argomentazioni delle cronache dei giorni scorsi ci ritrova di fronte a quello che potrebbe essere definito uno stupro della semantica, con titoli che danno dello stupido ad uno che si oppone in modo non violento alla polizia e del violento a uno che ha solamente parlato, peraltro a viso aperto, con uno che in Valsusa ha picchiato e sparato.
Magari non lui personalmente ma uno vestito e bardato come lui, con la sua stessa divisa. Ma purtroppo, dal momento che non è possibile identificare gli agenti, non ci è dato sapere. E il monologo dell'attivista No Tav era incentrato proprio su questo, sul fatto che finché le forze dell'ordine agiscono a volto coperto e senza segni di riconoscimento, e si coprono l'un l'altro con comportamenti omertosi - come riporta la sentenza definitiva sulle violenze durante lo sgombero del presidio No Tav di Venaus il 5 dicembre 2005 - è impossibile distinguerli.
Questa ed altre motivazioni sono quelle che le redazioni giornalistiche stanno deliberatamente decidendo di ignorare in questi concitati giorni di mobilitazione. E così facendo tradiscono la completezza dell'informazione e quella deontologia professionale che vuole il giornalista a servizio del cittadino. Perché è indubbio che si stia cercando di presentare il movimento No Tav sotto una luce che non gli appartiene e che non è veritiera.
Per gli attivisti No Tav non ci sono compagni buoni e compagni cattivi, come invece afferma insistentemente ogni intervento sia istituzionale che giornalistico, e se i colleghi che si occupano della Valsusa si fossero degnati di chiederlo a qualcuno lo avrebbero certamente scoperto. Ma a questo punto, sulla questione No Tav, è evidente che la stampa italiana ha solo smania di affermare.
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di Mariavittoria Orsolato
Per potersi chiamare No Tav non è necessario essere valsusini e il corteo che sabato ha sfilato da Bussoleno a Susa lo ha dimostrato a pieno. Una manifestazione imponente, forse la più grande mai vista tra quelle meravigliose montagne. Quasi centomila persone strette in un abbraccio simbolico e caldissimo ai 26 arrestati dal mese scorso, caduti sotto la scure del teorema Caselli che vuole dividere il movimento No Tav in buoni e cattivi.
Ci hanno provato anche sabato sera alla stazione di Torino Porta Nuova, dove un gruppo di manifestanti venuto da Milano ha trovato ad aspettarli al binario una delegazione del questore Spartaco Mortola - uno dei protagonisti della macelleria messicana Diaz - in tenuta antisommossa.
In chiaro atteggiamento intimidatorio, gli uomini della questura torinese volevano identificare uno ad uno i partecipanti alla manifestazione (pur non avendone alcun motivo) e, al costituzionale rifiuto dei ragazzi, sono partiti a caricare a freddo arrivando addirittura a lanciare fumogeni dentro i vagoni del treno.
Non è quindi possibile interpretare quanto successo sabato sera a Porta Nuova se non come l'ennesimo assist - gentilmente offerto dalla polizia - per deviare l'attenzione sulle ragioni e la partecipazione della resistenza che da oltre vent'anni contrappone la Val Susa al progetto dell'Alta Velocità e in generale alla negazione dei diritti di cittadinanza.
Perché, è sempre bene ricordarlo, il movimento No Tav è una lotta contro la devastazione del patrimonio naturale, contro lo svilimento della democrazia, contro lo sperpero di soldi pubblici e contro quelle stesse infiltrazioni mafiose che il procuratore Caselli si vanta di combattere da una vita. Ma evidentemente, per le forze dell'ordine e per certa stampa con la bava alla bocca, una manifestazione No Tav senza spargimento di sangue non ha ragione d'essere.
Perciò parliamo d'altro. Parliamo di come questo 25 febbraio abbia rappresentato per tutti soprattutto un momento di speranza, la riprova che, se uniti, esiste una chance contro il baratro incipiente in cui questo paese si sta ficcando. Percorrendo l'interminabile serpentone che ha attraversato il cuore della valle la prima parola che ti saltava alla mente era “solidarietà”. Quella per gli attivisti ingiustamente incarcerati ma anche quella umana, quella che in un presente di privazioni può rappresentare sia un appiglio che uno scudo. Nel partecipatissimo corteo di sabato l'orizzontalità era palpabile, a volte addirittura straniante, se si pensa che c'erano i comitati cattolici e subito dietro gli anarchici del FAI, che c'erano gli autonomi a sostenere gli amministratori delle comunità valligiane e montane.
Perché non è una questione di distinguo politici, fascismo escluso ovviamente. Chi si occupa della TAV sa perfettamente che la lotta valsusina è diventata un simbolo ed un esempio per molti territori e molte realtà antagoniste in giro per l'Italia, dalle mamme antidiscarica agli attivisti anticemento, dagli studenti alla disperata ricerca di un futuro ai moltissimi che vedono nel nuovo corso targato BCE un depauperamento generalizzato e privo di logica. Senza ombra di dubbio quella contro l'Alta Velocità è stata ed è la prima grande battaglia che ha messo a nudo l'assurdità della "crescita" ad ogni costo e i costi sociali ad essa legati.
Fino a qualche anno fa, si trattava di un "noi contro di voi", i montanari contro la Polizia, anzi contro chi la manda. In seguito è arrivato qualcuno "da fuori", ed è stato facile dipingerlo come il black block che va in valle a far casino. Oggi, è ormai impossibile far passare decine di migliaia di persone come un esodo di anarcoinsurrezionalisti in gita di piacere. E questo, se da un lato spaventa i nostri governanti, dall'altro ha l'incredibile forza evocativa necessaria a elaborare soluzioni diverse per l'uscita dalla crisi che ci sta stritolando.
Sabato il movimento No Tav ha deciso di contarsi e, dopo aver praticato nei mesi scorsi il conflitto e l’azione diretta, tastare il polso dei suoi sostenitori. E ha prodotto la più grande manifestazione che la valle ricordi, ma anche la più grande mobilitazione politica che questo paese abbia visto in questi anni recenti. Pablo Neruda, in uno dei suoi scritti, affermava: "La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle".
E i No Tav sono riusciti a fare di questo aforisma una splendida realtà, mobilitando un'intera comunità umana, non solo una comunità territoriale. Hanno saputo soprattutto difendere tutti gli arrestati, rivendicando ogni azione e non cedendo al binomio manicheo violenza/nonviolenza.
Perché è pacifico che nel nostro Paese - e la recente sentenza Mills lo dimostra a dovere - troppo spesso la legalità non coincide con la giustizia e i No Tav lo sanno benissimo. Tutti gli arrestati o inquisiti sono parte integrante di questa comunità allargata e tutta la comunità ha gridato che lo scorso 3 di luglio a tagliare le reti e difendersi dai lacrimogeni CS non c'erano solo quei 26 ora in carcere ma le mani di tutti. E sabato erano quasi centomila.