di Rosa Ana De Santis

La Corte Costituzionale, chiamata ad esaminare il divieto della fecondazione eterologa previsto dalla legge 40, non ha ravvisato elementi di incostituzionalità nel merito. I ricorsi sono quindi tornati al mittente: ai Tribunali di Firenze, Catania e Milano. La decisione della Consulta nasce all’ombra del parere espresso dalla Corte Europea che, Convenzione sui diritti dell’uomo alla mano,  non ravvede nel divieto dell’eterologa una compromissione dell’articolo 8 sul diritto del rispetto alla vita privata e familiare.

Un passo indietro quindi per quanti da 8 anni contestano la legge 40, modificata finora a colpi di sentenza, ma non snaturata dall’impianto censorio che la contraddistingue. A differenza che al suo debutto nel 2004 con il Ministro Sirchia, oggi è possibile eseguire la diagnosi pre-impianto (senza selezione conseguente, quasi una beffa oltre il danno) e non c’è più il limite di un unico e contemporaneo intervento con il limite massimo di tre embrioni. E’ possibile congelare gli embrioni non utilizzati per scelta medica ed è stata ampiamente riconosciuta l’autonomia del medico.

Il referendum del 2005 portò in trionfo l’astensionismo, grazie al monito della Chiesa, alla lobby dei comitati pro-vita e alla profonda ignoranza del popolo italiano che preferì non metter mano alla conoscenza della questione, precludendosi una parte importantissima del proprio diritto alla salute. Perché di questo si tratta.

Se l’Europa e la Consulta non vedono nel divieto dell’eterologa una minaccia al rispetto della vita privata e familiare, esistono però elementi concreti per indirizzare i ricorsi su un altro piano: l’eguaglianza dei cittadini e delle persone. Questo annunciano gli avvocati delle coppie penalizzate dalla legge 40 e in effetti la Corte Costituzionale, questo l’unico elemento incoraggiante,  non ha sbarrato la strada, ma rimandato la materia ai giudici di primo grado.

Una “non decisione” definitiva che riapre le danze e sposta gli argomenti, forse sul piano normativo e morale più decisivo. Il torto giuridico e morale più evidente della legge 40 è infatti quello di discriminare i cittadini in prima istanza sulla base di una condizione naturale (la sterilità o la trasmissione genetica di malattie) e in seconda battuta di una discriminazione di censo, ancor più indigeribile e filosoficamente meno nobile (i più abbienti, infatti, si rivolgono a strutture oltre confine).

Chi ha problemi di sterilità o di trasmissione genetica di malattie dovrebbe trovare nella legge e nel welfare un sistema di strumenti e tutele mirate a sopperire quel limite di natura che non rimanda a scelte o a responsabilità, ma a dati di fatto, affinché uno stato moderno non assomigli alla Rupe di Sparta e i limiti naturali non si trasformino in una discriminazione rispetto a quanto dettato dalla Costituzione circa l’eguaglianza tra cittadini e il diritto alla salute per tutti,  cui rientrano a pieno titolo la fertilità e la nascita dei propri figli.

Come la mettiamo infatti con quei genitori che sanno di trasmettere ai propri figli sindromi genetiche invalidanti? Qual è lo stato morale, per rispondere agli integralisti della vita,  di una coscienza che sa di rendersi complice scientemente della malattia che infliggerà al proprio figlio? E qual è la coerenza normativa di un paese che vieta la selezione degli embrioni in nome della vita e legittima invece - giustamente - qualche tempo dopo, la soppressione di quello che è diventato un feto con la legge 194?

La soluzione più coerente, questa la tesi della Chiesa e di quasi tutti i cattolici in Parlamento, sarebbe quella di ripensare anche la legge 194, ovviamente dal loro pulpito. E così, finalmente, il paese mostrerebbe con coerenza tutto ciò che è sempre stato. Una propaggine etica del Catechismo cattolico romano, uno stato innamorato della provvidenza. Dove è facile vivere bene e in grazia di Dio se si è sani e ricchi. L’unico caso in cui la libertà di scelta è qualcosa cui si può rinunciare, perché tanto si ha già tutto.


di Fabrizio Casari

La vittoria di Pizzarotti a Parma, quella di Doria a Genova e di Leoluca Orlando a Palermo, hanno caratterizzato la seconda tornata delle elezioni amministrative. Che sul piano politico generale sono state molto più e molto altro che un voto locale, esibendo con chiarezza la riduzione a fenomeno locale e minoritario della Lega Nord e la sostanziale abdicazione del Pdl all’astensionismo. Il tracollo del centrodestra, infatti, è il dato inconfutabile delle elezioni e la Padania è tornata ad essere un’iperbole da osteria.

La diserzione delle urne, poi, è davvero il dato saliente per tutto l’insieme del quadro politico, destinatario esclusivo della disaffezione dai politicanti che diventa maggioranza. Dai politicanti, sì, non dalla politica, giacché l’affermazione del Movimento 5 stelle e dei candidati del centrosinistra sostenuti dall’insieme della sinistra, dimostra che il rifiuto della classe dirigente non è leggibile come rifiuto della politica tout court.

In questo senso, il risultato di Doria a Genova e le proporzioni con il quale è arrivato, é la notizia migliore della giornata. Nella città medaglia d'oro della Resistenza, delle magliette a striscie e dei camalli, della crisi industriale e di quella politica, é diventato sindaco un uomo perbene, un impasto di orgoglio ideale e coerenza comportamentale che raccoglie tutto ciò che a sinistra vive e che riesce a dare voce ai settori dimenticati della politicheria mediatica.

Le reazioni dei partiti vanno dalla soddisfazione al silenzio, come d’uopo. Bersani sostiene che il Pd ha vinto ovunque, ma è vero solo a metà, giacché il Pd vince dove è in uno schieramento ampio, non certo da solo, spesso anche grazie a candidati scelti fuori dal partito di via del Nazareno.

E se la vittoria di Leoluca Orlando può essere inserita in un contesto politico particolare come quello di Palermo, la sconfitta di Parma è il dato che più dovrebbe far riflettere il gruppo dirigente del Pd. Pizzarotti ha vinto contro un sistema locale di malaffare ed inefficienza che aveva sì nel centrodestra sgangherato e corrotto (in manette o dimessosi grazie alle inchieste della magistratura) il perno principale, ma che vede anche nel Pd responsabilità precise.

Sarà interessante ed avvincente vedere come il nuovo sindaco gestirà la città. A Parma ha vinto perché, semplicemente, ha offerto trasparenza nei bilanci e partecipazione nelle scelte; ha dichiarato di voler chiudere, smantellare e rivendere l’inceneritore, indicando nella raccolta differenziata e nel compostaggio le politiche sui rifiuti in città. Ha vinto, Pizzarotti, rompendo quel clima consociativo esistente tra i partiti e l’associazione dei costruttori, che hanno cementificato e sfigurato la città, sommergendola di cemento e di opere inutili e in alcuni casi incompiute.

Di fronte al tergiversare dei partiti, preso atto della museruola che la lobby dei costruttori aveva imposto alla città, i parmensi hanno deciso di reagire. Ed è inutile, oltre che poco intelligente, ritenere che siano stati i voti del centrodestra che, confluendo sul candidato grillino, abbiano segnato la differenza. In primo luogo perché è tutto da dimostrare che gli elettori conservatori abbiano votato per Pizzarotti; in secondo luogo perché al primo turno avevano raccolto un bottino misero, ben inferiore al distacco con cui Pizzarotti ha trionfato.

In realtà è la sinistra che ha fatto confluire il suo voto al primo turno (quasi il dieci per cento) sul candidato grillino e, probabilmente, una parte dello stesso elettorato Pd ha deciso d’inviare un segnale a Parma e a Roma. E ad ogni modo, quando una vittoria arriva con quelle dimensioni, non ha senso cercare le virgole delle percentuali, se non si vuole incorrere nella classica situazione del dito che indica la luna e dello stupido che guarda il dito.

Con il Movimento 5 stelle e tutti i settori della società civile che si mobilitano e si organizzano su scala locale e nazionale il Pd deve provare a costruire un dialogo, a tessere un filo. Non serve a niente tentare di limitare le perdite ed esaltare i successi, non è il tempo della propaganda. Meglio sarebbe, per il Pd, riflettere su un dato che da un anno a questa parte si va regolarmente riconfermando: la sua stessa base elettorale ritiene che l’inciucio perenne con Casini non debba proseguire e sceglie di volta in volta il candidato più a sinistra tra quelli iscritti alle primarie. Napoli, Milano, Palermo, Genova, Cagliari, ora Parma.

E’ il popolo dei referendum per la difesa dei beni comuni e per l’abrogazione del Porcellum, della battaglia contro l’abolizione dell’articolo 18, degli indignati, dei No-Tav, che difende i licenziati e gli esodati, si schiera con la Fiom e chiede con forza una nuova igiene della politica. Chiede un’uscita a sinistra dalla crisi e non sopporta più l’idea del compromesso e la rinuncia al proprio sistema di valori come “il male necessario”. Vuole affermare la sua esistenza, i suoi temi, la titolarità dell’alternativa etica e politica; vuole vincere o perdere, ma non accetta più di non partecipare. Si svegli in fretta il Pd, se vuole evitare di passare dall’essere minoranza nel paese ad essere minoranza nella sua stessa gente.

di Alessandro Iacuelli 

Adesso certamente arriverà qualcuno, probabilmente uno "storico competente", a dire che era perfettamente prevedibile, anche se siamo rimasti tutti sgomenti, perplessi, colti di sorpresa, con la sensazione di aver preso un pugno nello stomaco. Emozioni forti, certo, accompagnate da quella solita fastidiosa abitudine dell'ostentare la morte e la violenza, attraverso sequenze evitabili di foto pubblicate in rete. Il fatto, quello saliente, è che una studentessa di 16 anni dava per scontata l'esistenza di un domani, di un futuro. Non era contemplata la fatalità dell'andare a scuola una mattina per poi non tornare.

Le perplessità però sono troppe. Per carità, è un dato storico costante nel tempo che in Italia ci si lascia prendere la mano dall'emotività. E' successo troppe volte, puntualmente, che sia stato preso un granchio, sempre sulla scia dei facili giudizi e del prendere per scontate delle cose. Da Portella delle Ginestre fino alla gambizzazione dell'AD di Ansaldo Nucleare di pochi giorni fa.

Così, anche stavolta, sono bastati tre giornalisti che hanno incollato tra loro alcune coincidenze, e di colpo l'odioso pasticcio di Brindisi è stato "declassato" ad azione di stampo mafioso. A nulla è valso, per ora, al PM salentino Cataldo Motta ricordare che la pista mafiosa non è la sola possibile:  è già scattata una vasta "distrazione di massa".

Se guardiamo al passato recente, le note stonate sono molte. Quale sarebbe il movente della tentata strage? Qualche giornalista ha fatto riferimento al nome della scuola: da quando la mafia mostra interesse per i nomi di scuole, strade, monumenti, intitolati a chi la mafia l'ha combattuta? Qualcun altro ha scritto che "nello stesso giorno doveva passare la carovana antimafia", quella che gira l'Italia da dieci anni e di cui da dieci anni tutte le mafie si disinteressano. Facciamo invece qualche considerazione seria.

1) Da dove è uscita la pista mafiosa? Non dagli ambienti inquirenti, se non una tra le tante ipotesi, ma solo da quelli giornalistici, in particolare della RAI.
2) Le mafie, tutte, come ricordato dallo stesso PM, basano la loro esistenza sul consenso sociale, pertanto attaccare una scuola è altamente controproducente.
3) Le mafie colpiscono direttamente il loro nemico. Qualunque sia: un magistrato (da Pio La Torre a Rosario Livatino, passando per Falcone e Borsellino l'elenco è lungo), o un poliziotto (Dalla Chiesa), o un politico che si sgancia (Salvo Lima), o un sindacalista scomodo (Imposimato), o un imprenditore che non paga o che si schiera contro (Libero Grassi, Michele Orsi). Vogliamo mettere sullo stesso piano le studentesse di Brindisi? Qui si è andato a colpire nel mucchio.
4) Il tipo di attacco è piuttosto controverso: le mafie sono specialiste in autobombe (Roma/Firenze/Milano 1994, via d'Amelio 1992), o anche peggio, come per l'esplosivo in grado di far saltare un'intera autostrada a Capaci nel 1992. Alquanto singolare che con tutta quella potenza di fuoco si siano abbassati a tre bombole di gas.
5) E' vero, ci sono stati gli attentati del '94, anche con due bambine vittime a Firenze. Era una fase di trattativa tra Stato e mafia, come è stato di recente provato; ai Georgofili l'autobomba è esplosa con un timer, pertanto non si sapeva se per caso al momento dello scoppio ci sarebbero stati dei bambini o no, nei paraggi. Se la bomba la si mette invece fuori una scuola, si ha la certezza di colpire degli studenti in giovane età. Non certo magistrati, poliziotti, imprenditori. Colpire nel mucchio, che piaccia o meno, è storicamente una strategia eversiva.
6) Il tipo di attentato, mostra da parte dell'esecutore una precisa conoscenza delle tecniche classiche dell'eversione nera, puntualmente legata a certi apparati dello Stato.
7) Come dichiarato dal PM Ingroia al TG3: "Questo attentato punta a creare un senso di insicurezza nei cittadini e diffondere la paura", che è un vero e proprio obiettivo politico.

L'Italia è caratterizzata al momento da alcuni dati essenziali: partiti politici, soprattutto quelli di governo, ai loro minimi storici, ingovernabilità latente, incertezza elettorale, crisi economica profonda, malcontento popolare che diventa pericoloso, come ne caso delle azioni contro Equitalia.  Questo è il contesto.

In questo contesto, la strage: con una tempistica perfetta, scoppia una bomba. Una bomba particolarmente "cattiva", che colpisce la gioventù inerte ed innocente, è il tipo di bomba che ci indigna, ci perfora le budella, ci fa venire paura, ci fa perdere lucidità.

Il contesto è lo stesso del bienno 1969/1970. Il malcontento popolare c'era anche allora. L'ingovernabilità pure. In quel contesto, proprio come ora, si colpì nel mucchio, e a ripetizione. Prima Piazza Fontana, poi il treno Italicus, poi Piazza Loggia. Questo sì che è colpire nel mucchio, chi si trova per caso lì in quel momento. E non erano certo attentati di stampo mafioso. C'è qualche similitudine da brivido, con quanto successo a Brindisi?

Se così fosse, sarebbe certamente peggio rispetto ad un attentato mafioso, ma sarebbe chiaro il movente: spostare l'opinione pubblica da certi eventi di tipo politico-economico e coalizzare il popolo italiano contro un "nemico" comune, come se gli italiano avessero dimenticato il male; un nemico del popolo, e dello Stato, quello stesso Stato che fino ad ora il popolo ha contestato. Proprio come per il rapido 904, che esplose a Vernio mentre il Parlamento approvava l'insieme di azioni finanziarie chiamato "Pacchetto Visentini".

Viceversa, se è stata la mafia, qualcuno dovrebbe indicare il movente, a meno che la mafia non sia stata semplice manovalanza dei veri mandanti. Perché la mafia non fa nulla inutilmente, e qui il movente non c'è, non contano cose come l'impegno per la legalità di quella scuola: la lotta per la legalità la fanno diecimila scuole, e da decenni le mafie se ne disinteressano e continuano a fare affari.

Qualche che sia la verità, non è dato sapere. Ma c'è da scommetterci, che anni di indagini e di commissioni di inchiesta non porteranno a nulla, se non a qualcosa che sarà coperto da segreto di Stato. Sarà anche mafia, come provano a convincerci, ma probabilmente sarebbe meglio se gli italiani si facessero coraggio e, prima che sia troppo tardi, analizzassero lucidamente anche le altre ipotesi.

In conclusione, arriva strisciante il sospetto di una nuova strategia della tensione in tempi di austerity e di rigore. Pertanto, ancora una volta, viene voglia di recitare quel famoso passo di Pasolini che inizia con un “Io so...”.

 

di Mariavittoria Orsolato

Secondo il ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri la questione della TAV è “la madre di tutte le preoccupazioni”. Lo ha detto ieri, a margine di una conferenza stampa sulle misure d'emergenza che l'esecutivo starebbe approntando dopo il ferimento del dirigente Ansaldo Roberto Adinolfi. Una nota del Viminale, qualche ora dopo, spiegava che la "preoccupazione" riguarda solo le problematiche delle opere da realizzare per la Torino-Lione ma, dal momento che si parlava di terrorismo, la rettifica del ministro sembra davvero una foglia di fico.

Se non altro, grazie alla gaffe del ministro Cancellieri abbiamo scoperto quali sono le vere priorità del Governo. Non è lo spread, non è nemmeno il fatto che a marzo il debito pubblico ha sfiorato i 2.000 miliardi di euro. A non fare dormire la notte i nostri tecnici sono i No Tav e le pericolose infiltrazioni terroristiche che, secondo la Digos, il movimento attirerebbe come le api col miele.

Certo in questi giorni il tema “terrorismo” è un must delle testate nostrane, ma basterebbe un po' di memoria storica e di buonsenso per liquidare gli episodi di questi giorni come gesti di disperati o di  millantatori. Invece, soprattutto se si tratta della Valsusa, la tendenza delle maggiori istituzioni - stampa, governo e magistratura - è sempre quella di etichettare il dissenso come eversione, di ridurre la resistenza a becera violenza.

Ma se davvero le ansie del ministro Cancellieri riguardano solo la grande opera in se, allora fa bene a preoccuparsi di quello che succede sulla tratta Torino-Lione. Il suo problema - come quello di molti altri irriducibili Si Tav - è quello di correggere la miopia di sguardo e di riconoscere che le uniche infiltrazioni in Valsusa non sono quelle terroristiche, ma quelle mafiose.

Non è un mistero, infatti, che per la 'ndragheta il progetto dell'Alta Velocità sia un ghiottissimo boccone: i valsusini lo gridano da decenni e l'operazione Minotauro dello scorso giugno l'ha confermato con 142 arresti. Le indagini sono partite dalle dichiarazioni del pentito Rocco Varacalli, e per il procuratore di Torino Giancarlo Caselli - lo stesso che ha tacciato i No Tav di squadrismo e che a gennaio ne ha fatti arrestare 26 - il quadro emerso ha dimostrato chiaramente “risvolti inquietanti”.

I risvolti inquietanti sono i contatti con la politica e gli appalti delle aziende delle 'ndrine nella Pubblica Amministrazione. Pratiche che già Roccuzzo Lo Presti, organico al clan Mazzaferro aveva importato nel freddo Piemonte negli anni ’60. Lo Presti aprì proprio a Bardonecchia un negozio di abbigliamento, per poi prosperare in altri settori come edilizia, autotrasporti, bar, le immancabili sale da gioco e la ristorazione. Per i giudici è proprio Lo Presti a portare la mafia a Bardonecchia, e non a caso si era accasato con i Mazzaferro, già “attenzionati” nel 1976 dopo l’ottenimento di appalti per la costruzione del traforo stradale del Frejus, inaugurato poi nel 1980. 

Il matrimonio tra 'ndrangheta e Piemonte è quindi di lunga data, letteralmente delle nozze d'oro. Altre due inchieste, la prima nel 1984 e la seconda verso la fine del 1994, descrivono infatti le 'ndrine infiltrarsi negli appalti pubblici nell’alta Valsusa, fino allo scioglimento del comune di Bardonecchia il 28 aprile del 1995, primo comune del nord Italia ad essere commissariato per infiltrazioni mafiose. E anche all'interno della relazione della Commissione Parlamentare Antimafia del 1994, si censivano le presenze persistenti di ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra in Piemonte, confermando tutta una serie di situazioni sospette nel settore finanziario.

Già nel 1994 emergeva quindi chiaramente quella “zona grigia” fatta di professionisti, politici e funzionari pubblici su cui la mafia da sempre si appoggia per trasformare l’illecito in apparentemente lecito. Ciò nonostante, negli ultimi vent'anni la criminalità organizzata ha tranquillamente continuato a fare ottimi affari, grazie anche alle ghiotte occasioni degli appalti - e in particolare dei subappalti - per le Olimpiadi invernali di Torino 2006 e per l'Alta Velocità Torino-Lione.

Arriviamo così all'operazione Minotauro, in cui 191 persone sono state indagate - 142 delle quali incarcerate - e in cui viene sciolto per mafia il comune di Leinì, il secondo nella provincia di Torino. All'interno dei faldoni elaborati dalla procura di Torino, si fa chiaramente riferimento agli illeciti presenti nell'aggiudicazione della commessa per la recinzione del cantiere di Chiomonte, l'area dove sorgeva il presidio permanente dei No Tav e che è stata dichiarata di “interesse strategico nazionale” dall'ordinanza del Cipe.

Nell’ultima delle 604 pagine del dossier il colonnello Domenico Mascoli inserisce uno schema dei lavori aggiudicatisi da Foglia Costruzioni e condivisi con Italcoge spa della famiglia Lazzaro, vincitrice dell'appalto per la recinzione del non-cantiere della Maddalena: i carabinieri sottolineano uno snodo societario a loro dire cruciale, ovvero l’acquisto della fallita Foglia Costruzioni da parte di Finteco, altra società che riconducono al controllo occulto di Giovanni Iaria, arrestato con il blitz di giugno e personaggio di spicco della 'ndrangheta.

Lo schema finanziario utilizzato sino ad ora negli appalti Tav è un meccanismo noto: il meccanismo della concessione, che sostituisce la normale gara d'appalto in virtù della presunta urgenza dell'opera, e fa sì che la spesa finale sia determinata sulla base della fatturazione complessiva prodotta in corso d'opera, permettendo di fatto di gonfiare i costi e creare fondi neri per migliaia di miliardi. La Direzione nazionale Antimafia, nella sua relazione annuale per il 2011, ha dato al Piemonte il terzo posto sul podio della penetrazione della criminalità organizzata calabrese e il flusso di denaro destinato alla TAV rischia di diventare linfa per il suo potenziamento, aumentandone la capacità di investimento, di controllo del territorio, accrescendone il potere economico e, di conseguenza, politico.

La storia della TAV in Italia è la storia infinita di accumulazione di capitali da parte dei cartelli mafiosi e questa, se non è “la madre di tutte le preoccupazioni”, è certamente una problema di cui il Viminale dovrebbe occuparsi con urgenza.

 

di Fabrizio Casari

Le elezioni amministrative sono certamente un banco di prova affidabile per misurare la temperatura del Paese. Sono ovviamente diverse da quelle parlamentari per la posta in gioco che contengono, per il ridotto peso dell’elemento ideologico a favore di una maggiore caratterizzazione sui temi locali, per il coinvolgimento di un numero di elettori minore che alle politiche, ma sono comunque il sondaggio d’opinione sulla volontà politica degli italiani; un sondaggio di gran lunga più affidabile di quelli presentati - su pagamento del committente - nei media di vario ordine e colore.

Erano mesi e mesi che i sondaggisti, editorialisti, analisti  e quanti altri “isti” si vogliano, spiegavano come la luna di miele tra gli italiani e Monti fosse ormai scolpita nella pietra come le sacre scritture. Addirittura, spiegavano, un partito impostato sul rigore e la sobrietà del Presidente del Consiglio avrebbe la maggioranza dei consensi, trasversali e dirompenti. E che succede? Succede che gli italiani sanciscono la scomparsa in un caso, il ridimensionamento in un altro e la mancata crescita nell’altro ancora dell’ABC della politica, cioè proprio di quel trio che sostiene Monti e la sua linea di politica economica.

Il PDL travolto, il Terzo polo che nemmeno riesce a nascere e il PD che sembra già vecchio. L’esito delle urne al primo turno delle amministrative pare lasciare pochi dubbi sulle opinioni politiche degli italiani. L’affermazione del Movimento 5 stelle - che solo Napolitano non vede - pur non rappresentando una risposta credibile alla crisi della politica, si spiega proprio con quel “rifiuto” dei partiti per come sono diventati. E il successo dei grillini è perfettamente sommabile al consolidamento di Sel e IDV, giacché racconta di un’area complessivamente all’opposizione del governo dei professori che trae beneficio dalla sottrazione all’ammucchiata generale dell’idillio con i cosiddetti “tecnici”. Che tecnici, sia chiaro, sono solo per incompetenza delle scienze politiche, ma le scelte che operano, invece, sono politiche a tutto tondo.

Non si deve commettere il grossolano errore di ridurre solo al “voto di protesta contro i partiti” il risultato elettorale che la tornata di amministrative ha indicato. I partiti, infatti, vengono colpiti dalle loro linee e inchiodati alle loro responsabilità: il Pdl da diciotto anni di governo degli affari privati del proprietario, a svantaggio di quelli pubblici; il cosiddetto Terzo Polo, rivelatosi come la classica creatura strozzata nella culla; il PD, che solo pochi mesi fa era indicato quale primo partito e che ora, con tanta fatica, mantiene più o meno le posizioni acquisite durante la lunga vacanza berlusconiana della politica italiana.

Perché a via del Nazareno sanno bene che la loro crescita è avvenuta sostanzialmente solo dove i candidati appartenevano (a seguito dei risultati delle primarie) a schieramenti posti alla sua sinistra. Sarà meglio che Bersani e compagnia tengano bene a mente questo voto, rivelatosi ben al di sotto delle aspettative che nutrivano. Il PD perde voti a sinistra, e ne perde tanti. Troppi forse per poter pensare di continuare a ignorare l’urgenza di rispolverare e colorare la foto di Vasto.

Il voto di domenica e lunedì ha detto in primo luogo questo: la politica del governo non è condivisa e i partiti che lo sostengono devono sapere che su questo crinale si giocano il loro elettorato. Ogni partito, tra coloro che appoggiano il governo, dovrà ora rifare per bene i suoi conti, dal momento che - soprattutto per quanto riguarda PDL e Terzo Polo - il sostegno a Monti sembra rivelarsi come un abbraccio mortale per le loro ambizioni di ripresa. Per quanto attiene alla Lega, invece, il macigno che l’ha seppellita, privandola di consensi ovunque, soprattutto in quelle che un tempo erano le sue roccaforti, spiega che l’emergere delle ruberie e delle cialtronerie padane, variamente allocate tra Gemonio, la Tanzania e l’Albania, hanno riportato alla dimensione originaria della boutade la combriccola di squinternati questuanti.

Ma sono comunque il PDL e il Terzo polo, cioè le due facce del conservatorismo italiano, a pagare il prezzo più pesante. D’altro canto il loro bene comune si chiama Mario Monti, la loro ricetta condivisa si chiama rigore dei conti e le differenze tra le diverse posizioni sono determinate solo dall’assetto proprietario del PDL, giacché le divergenze di linea sono leggibili solo ai più attenti ed attrezzati politicamente.

Così come in Francia, in Grecia, in Germania, anche in Italia il messaggio è chiaro. La crisi della politica nasce dalla crisi del sistema valoriale, dall’abbandono delle teorie politiche, sociali ed economiche di provenienza che ne contraddistinguono le rispettive identità. In assenza di ciò, la politica si riduce a padrona dei cittadini e serva dei mercati. Si autoavvita su se stessa perdendo ogni senso del legame tra rappresentanza e rappresentati e marcisce nella subordinazione totale alla speculazione finanziaria e ai centri di potere - palesi e occulti - che governano le scelte sul nostro futuro.

Non c’è un’unica strada per uscire dalla crisi e il riassetto dei conti non può diventare l’ennesima tappa del processo di accumulazione di liquidità monetaria e peso finanziario delle banche sulla pelle dei cittadini. L’Europa deve darsi gli strumenti politici e legislativi che impongano tecnicamente e politicamente il ritorno della sovranità all’Unione e ad i singoli paesi che la compongono. Il commissariamento dei tecnocrati al servizio dei capitali speculativi non può continuare. La politica deve tornare, con forza, a indicare le vie dell’economia e non il contrario. Perché, così dicono le urne, il denaro serve agli uomini, non viceversa.



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