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di Alessandro Iacuelli
Adesso certamente arriverà qualcuno, probabilmente uno "storico competente", a dire che era perfettamente prevedibile, anche se siamo rimasti tutti sgomenti, perplessi, colti di sorpresa, con la sensazione di aver preso un pugno nello stomaco. Emozioni forti, certo, accompagnate da quella solita fastidiosa abitudine dell'ostentare la morte e la violenza, attraverso sequenze evitabili di foto pubblicate in rete. Il fatto, quello saliente, è che una studentessa di 16 anni dava per scontata l'esistenza di un domani, di un futuro. Non era contemplata la fatalità dell'andare a scuola una mattina per poi non tornare.
Le perplessità però sono troppe. Per carità, è un dato storico costante nel tempo che in Italia ci si lascia prendere la mano dall'emotività. E' successo troppe volte, puntualmente, che sia stato preso un granchio, sempre sulla scia dei facili giudizi e del prendere per scontate delle cose. Da Portella delle Ginestre fino alla gambizzazione dell'AD di Ansaldo Nucleare di pochi giorni fa.
Così, anche stavolta, sono bastati tre giornalisti che hanno incollato tra loro alcune coincidenze, e di colpo l'odioso pasticcio di Brindisi è stato "declassato" ad azione di stampo mafioso. A nulla è valso, per ora, al PM salentino Cataldo Motta ricordare che la pista mafiosa non è la sola possibile: è già scattata una vasta "distrazione di massa".
Se guardiamo al passato recente, le note stonate sono molte. Quale sarebbe il movente della tentata strage? Qualche giornalista ha fatto riferimento al nome della scuola: da quando la mafia mostra interesse per i nomi di scuole, strade, monumenti, intitolati a chi la mafia l'ha combattuta? Qualcun altro ha scritto che "nello stesso giorno doveva passare la carovana antimafia", quella che gira l'Italia da dieci anni e di cui da dieci anni tutte le mafie si disinteressano. Facciamo invece qualche considerazione seria.
1) Da dove è uscita la pista mafiosa? Non dagli ambienti inquirenti, se non una tra le tante ipotesi, ma solo da quelli giornalistici, in particolare della RAI.
2) Le mafie, tutte, come ricordato dallo stesso PM, basano la loro esistenza sul consenso sociale, pertanto attaccare una scuola è altamente controproducente.
3) Le mafie colpiscono direttamente il loro nemico. Qualunque sia: un magistrato (da Pio La Torre a Rosario Livatino, passando per Falcone e Borsellino l'elenco è lungo), o un poliziotto (Dalla Chiesa), o un politico che si sgancia (Salvo Lima), o un sindacalista scomodo (Imposimato), o un imprenditore che non paga o che si schiera contro (Libero Grassi, Michele Orsi). Vogliamo mettere sullo stesso piano le studentesse di Brindisi? Qui si è andato a colpire nel mucchio.
4) Il tipo di attacco è piuttosto controverso: le mafie sono specialiste in autobombe (Roma/Firenze/Milano 1994, via d'Amelio 1992), o anche peggio, come per l'esplosivo in grado di far saltare un'intera autostrada a Capaci nel 1992. Alquanto singolare che con tutta quella potenza di fuoco si siano abbassati a tre bombole di gas.
5) E' vero, ci sono stati gli attentati del '94, anche con due bambine vittime a Firenze. Era una fase di trattativa tra Stato e mafia, come è stato di recente provato; ai Georgofili l'autobomba è esplosa con un timer, pertanto non si sapeva se per caso al momento dello scoppio ci sarebbero stati dei bambini o no, nei paraggi. Se la bomba la si mette invece fuori una scuola, si ha la certezza di colpire degli studenti in giovane età. Non certo magistrati, poliziotti, imprenditori. Colpire nel mucchio, che piaccia o meno, è storicamente una strategia eversiva.
6) Il tipo di attentato, mostra da parte dell'esecutore una precisa conoscenza delle tecniche classiche dell'eversione nera, puntualmente legata a certi apparati dello Stato.
7) Come dichiarato dal PM Ingroia al TG3: "Questo attentato punta a creare un senso di insicurezza nei cittadini e diffondere la paura", che è un vero e proprio obiettivo politico.
L'Italia è caratterizzata al momento da alcuni dati essenziali: partiti politici, soprattutto quelli di governo, ai loro minimi storici, ingovernabilità latente, incertezza elettorale, crisi economica profonda, malcontento popolare che diventa pericoloso, come ne caso delle azioni contro Equitalia. Questo è il contesto.
In questo contesto, la strage: con una tempistica perfetta, scoppia una bomba. Una bomba particolarmente "cattiva", che colpisce la gioventù inerte ed innocente, è il tipo di bomba che ci indigna, ci perfora le budella, ci fa venire paura, ci fa perdere lucidità.
Il contesto è lo stesso del bienno 1969/1970. Il malcontento popolare c'era anche allora. L'ingovernabilità pure. In quel contesto, proprio come ora, si colpì nel mucchio, e a ripetizione. Prima Piazza Fontana, poi il treno Italicus, poi Piazza Loggia. Questo sì che è colpire nel mucchio, chi si trova per caso lì in quel momento. E non erano certo attentati di stampo mafioso. C'è qualche similitudine da brivido, con quanto successo a Brindisi?
Se così fosse, sarebbe certamente peggio rispetto ad un attentato mafioso, ma sarebbe chiaro il movente: spostare l'opinione pubblica da certi eventi di tipo politico-economico e coalizzare il popolo italiano contro un "nemico" comune, come se gli italiano avessero dimenticato il male; un nemico del popolo, e dello Stato, quello stesso Stato che fino ad ora il popolo ha contestato. Proprio come per il rapido 904, che esplose a Vernio mentre il Parlamento approvava l'insieme di azioni finanziarie chiamato "Pacchetto Visentini".
Viceversa, se è stata la mafia, qualcuno dovrebbe indicare il movente, a meno che la mafia non sia stata semplice manovalanza dei veri mandanti. Perché la mafia non fa nulla inutilmente, e qui il movente non c'è, non contano cose come l'impegno per la legalità di quella scuola: la lotta per la legalità la fanno diecimila scuole, e da decenni le mafie se ne disinteressano e continuano a fare affari.
Qualche che sia la verità, non è dato sapere. Ma c'è da scommetterci, che anni di indagini e di commissioni di inchiesta non porteranno a nulla, se non a qualcosa che sarà coperto da segreto di Stato. Sarà anche mafia, come provano a convincerci, ma probabilmente sarebbe meglio se gli italiani si facessero coraggio e, prima che sia troppo tardi, analizzassero lucidamente anche le altre ipotesi.
In conclusione, arriva strisciante il sospetto di una nuova strategia della tensione in tempi di austerity e di rigore. Pertanto, ancora una volta, viene voglia di recitare quel famoso passo di Pasolini che inizia con un “Io so...”.
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di Mariavittoria Orsolato
Secondo il ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri la questione della TAV è “la madre di tutte le preoccupazioni”. Lo ha detto ieri, a margine di una conferenza stampa sulle misure d'emergenza che l'esecutivo starebbe approntando dopo il ferimento del dirigente Ansaldo Roberto Adinolfi. Una nota del Viminale, qualche ora dopo, spiegava che la "preoccupazione" riguarda solo le problematiche delle opere da realizzare per la Torino-Lione ma, dal momento che si parlava di terrorismo, la rettifica del ministro sembra davvero una foglia di fico.
Se non altro, grazie alla gaffe del ministro Cancellieri abbiamo scoperto quali sono le vere priorità del Governo. Non è lo spread, non è nemmeno il fatto che a marzo il debito pubblico ha sfiorato i 2.000 miliardi di euro. A non fare dormire la notte i nostri tecnici sono i No Tav e le pericolose infiltrazioni terroristiche che, secondo la Digos, il movimento attirerebbe come le api col miele.
Certo in questi giorni il tema “terrorismo” è un must delle testate nostrane, ma basterebbe un po' di memoria storica e di buonsenso per liquidare gli episodi di questi giorni come gesti di disperati o di millantatori. Invece, soprattutto se si tratta della Valsusa, la tendenza delle maggiori istituzioni - stampa, governo e magistratura - è sempre quella di etichettare il dissenso come eversione, di ridurre la resistenza a becera violenza.
Ma se davvero le ansie del ministro Cancellieri riguardano solo la grande opera in se, allora fa bene a preoccuparsi di quello che succede sulla tratta Torino-Lione. Il suo problema - come quello di molti altri irriducibili Si Tav - è quello di correggere la miopia di sguardo e di riconoscere che le uniche infiltrazioni in Valsusa non sono quelle terroristiche, ma quelle mafiose.
Non è un mistero, infatti, che per la 'ndragheta il progetto dell'Alta Velocità sia un ghiottissimo boccone: i valsusini lo gridano da decenni e l'operazione Minotauro dello scorso giugno l'ha confermato con 142 arresti. Le indagini sono partite dalle dichiarazioni del pentito Rocco Varacalli, e per il procuratore di Torino Giancarlo Caselli - lo stesso che ha tacciato i No Tav di squadrismo e che a gennaio ne ha fatti arrestare 26 - il quadro emerso ha dimostrato chiaramente “risvolti inquietanti”.
I risvolti inquietanti sono i contatti con la politica e gli appalti delle aziende delle 'ndrine nella Pubblica Amministrazione. Pratiche che già Roccuzzo Lo Presti, organico al clan Mazzaferro aveva importato nel freddo Piemonte negli anni ’60. Lo Presti aprì proprio a Bardonecchia un negozio di abbigliamento, per poi prosperare in altri settori come edilizia, autotrasporti, bar, le immancabili sale da gioco e la ristorazione. Per i giudici è proprio Lo Presti a portare la mafia a Bardonecchia, e non a caso si era accasato con i Mazzaferro, già “attenzionati” nel 1976 dopo l’ottenimento di appalti per la costruzione del traforo stradale del Frejus, inaugurato poi nel 1980.
Il matrimonio tra 'ndrangheta e Piemonte è quindi di lunga data, letteralmente delle nozze d'oro. Altre due inchieste, la prima nel 1984 e la seconda verso la fine del 1994, descrivono infatti le 'ndrine infiltrarsi negli appalti pubblici nell’alta Valsusa, fino allo scioglimento del comune di Bardonecchia il 28 aprile del 1995, primo comune del nord Italia ad essere commissariato per infiltrazioni mafiose. E anche all'interno della relazione della Commissione Parlamentare Antimafia del 1994, si censivano le presenze persistenti di ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra in Piemonte, confermando tutta una serie di situazioni sospette nel settore finanziario.
Già nel 1994 emergeva quindi chiaramente quella “zona grigia” fatta di professionisti, politici e funzionari pubblici su cui la mafia da sempre si appoggia per trasformare l’illecito in apparentemente lecito. Ciò nonostante, negli ultimi vent'anni la criminalità organizzata ha tranquillamente continuato a fare ottimi affari, grazie anche alle ghiotte occasioni degli appalti - e in particolare dei subappalti - per le Olimpiadi invernali di Torino 2006 e per l'Alta Velocità Torino-Lione.
Arriviamo così all'operazione Minotauro, in cui 191 persone sono state indagate - 142 delle quali incarcerate - e in cui viene sciolto per mafia il comune di Leinì, il secondo nella provincia di Torino. All'interno dei faldoni elaborati dalla procura di Torino, si fa chiaramente riferimento agli illeciti presenti nell'aggiudicazione della commessa per la recinzione del cantiere di Chiomonte, l'area dove sorgeva il presidio permanente dei No Tav e che è stata dichiarata di “interesse strategico nazionale” dall'ordinanza del Cipe.
Nell’ultima delle 604 pagine del dossier il colonnello Domenico Mascoli inserisce uno schema dei lavori aggiudicatisi da Foglia Costruzioni e condivisi con Italcoge spa della famiglia Lazzaro, vincitrice dell'appalto per la recinzione del non-cantiere della Maddalena: i carabinieri sottolineano uno snodo societario a loro dire cruciale, ovvero l’acquisto della fallita Foglia Costruzioni da parte di Finteco, altra società che riconducono al controllo occulto di Giovanni Iaria, arrestato con il blitz di giugno e personaggio di spicco della 'ndrangheta.
Lo schema finanziario utilizzato sino ad ora negli appalti Tav è un meccanismo noto: il meccanismo della concessione, che sostituisce la normale gara d'appalto in virtù della presunta urgenza dell'opera, e fa sì che la spesa finale sia determinata sulla base della fatturazione complessiva prodotta in corso d'opera, permettendo di fatto di gonfiare i costi e creare fondi neri per migliaia di miliardi. La Direzione nazionale Antimafia, nella sua relazione annuale per il 2011, ha dato al Piemonte il terzo posto sul podio della penetrazione della criminalità organizzata calabrese e il flusso di denaro destinato alla TAV rischia di diventare linfa per il suo potenziamento, aumentandone la capacità di investimento, di controllo del territorio, accrescendone il potere economico e, di conseguenza, politico.
La storia della TAV in Italia è la storia infinita di accumulazione di capitali da parte dei cartelli mafiosi e questa, se non è “la madre di tutte le preoccupazioni”, è certamente una problema di cui il Viminale dovrebbe occuparsi con urgenza.
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di Fabrizio Casari
Le elezioni amministrative sono certamente un banco di prova affidabile per misurare la temperatura del Paese. Sono ovviamente diverse da quelle parlamentari per la posta in gioco che contengono, per il ridotto peso dell’elemento ideologico a favore di una maggiore caratterizzazione sui temi locali, per il coinvolgimento di un numero di elettori minore che alle politiche, ma sono comunque il sondaggio d’opinione sulla volontà politica degli italiani; un sondaggio di gran lunga più affidabile di quelli presentati - su pagamento del committente - nei media di vario ordine e colore.
Erano mesi e mesi che i sondaggisti, editorialisti, analisti e quanti altri “isti” si vogliano, spiegavano come la luna di miele tra gli italiani e Monti fosse ormai scolpita nella pietra come le sacre scritture. Addirittura, spiegavano, un partito impostato sul rigore e la sobrietà del Presidente del Consiglio avrebbe la maggioranza dei consensi, trasversali e dirompenti. E che succede? Succede che gli italiani sanciscono la scomparsa in un caso, il ridimensionamento in un altro e la mancata crescita nell’altro ancora dell’ABC della politica, cioè proprio di quel trio che sostiene Monti e la sua linea di politica economica.
Il PDL travolto, il Terzo polo che nemmeno riesce a nascere e il PD che sembra già vecchio. L’esito delle urne al primo turno delle amministrative pare lasciare pochi dubbi sulle opinioni politiche degli italiani. L’affermazione del Movimento 5 stelle - che solo Napolitano non vede - pur non rappresentando una risposta credibile alla crisi della politica, si spiega proprio con quel “rifiuto” dei partiti per come sono diventati. E il successo dei grillini è perfettamente sommabile al consolidamento di Sel e IDV, giacché racconta di un’area complessivamente all’opposizione del governo dei professori che trae beneficio dalla sottrazione all’ammucchiata generale dell’idillio con i cosiddetti “tecnici”. Che tecnici, sia chiaro, sono solo per incompetenza delle scienze politiche, ma le scelte che operano, invece, sono politiche a tutto tondo.
Non si deve commettere il grossolano errore di ridurre solo al “voto di protesta contro i partiti” il risultato elettorale che la tornata di amministrative ha indicato. I partiti, infatti, vengono colpiti dalle loro linee e inchiodati alle loro responsabilità: il Pdl da diciotto anni di governo degli affari privati del proprietario, a svantaggio di quelli pubblici; il cosiddetto Terzo Polo, rivelatosi come la classica creatura strozzata nella culla; il PD, che solo pochi mesi fa era indicato quale primo partito e che ora, con tanta fatica, mantiene più o meno le posizioni acquisite durante la lunga vacanza berlusconiana della politica italiana.
Perché a via del Nazareno sanno bene che la loro crescita è avvenuta sostanzialmente solo dove i candidati appartenevano (a seguito dei risultati delle primarie) a schieramenti posti alla sua sinistra. Sarà meglio che Bersani e compagnia tengano bene a mente questo voto, rivelatosi ben al di sotto delle aspettative che nutrivano. Il PD perde voti a sinistra, e ne perde tanti. Troppi forse per poter pensare di continuare a ignorare l’urgenza di rispolverare e colorare la foto di Vasto.
Il voto di domenica e lunedì ha detto in primo luogo questo: la politica del governo non è condivisa e i partiti che lo sostengono devono sapere che su questo crinale si giocano il loro elettorato. Ogni partito, tra coloro che appoggiano il governo, dovrà ora rifare per bene i suoi conti, dal momento che - soprattutto per quanto riguarda PDL e Terzo Polo - il sostegno a Monti sembra rivelarsi come un abbraccio mortale per le loro ambizioni di ripresa. Per quanto attiene alla Lega, invece, il macigno che l’ha seppellita, privandola di consensi ovunque, soprattutto in quelle che un tempo erano le sue roccaforti, spiega che l’emergere delle ruberie e delle cialtronerie padane, variamente allocate tra Gemonio, la Tanzania e l’Albania, hanno riportato alla dimensione originaria della boutade la combriccola di squinternati questuanti.
Ma sono comunque il PDL e il Terzo polo, cioè le due facce del conservatorismo italiano, a pagare il prezzo più pesante. D’altro canto il loro bene comune si chiama Mario Monti, la loro ricetta condivisa si chiama rigore dei conti e le differenze tra le diverse posizioni sono determinate solo dall’assetto proprietario del PDL, giacché le divergenze di linea sono leggibili solo ai più attenti ed attrezzati politicamente.
Così come in Francia, in Grecia, in Germania, anche in Italia il messaggio è chiaro. La crisi della politica nasce dalla crisi del sistema valoriale, dall’abbandono delle teorie politiche, sociali ed economiche di provenienza che ne contraddistinguono le rispettive identità. In assenza di ciò, la politica si riduce a padrona dei cittadini e serva dei mercati. Si autoavvita su se stessa perdendo ogni senso del legame tra rappresentanza e rappresentati e marcisce nella subordinazione totale alla speculazione finanziaria e ai centri di potere - palesi e occulti - che governano le scelte sul nostro futuro.
Non c’è un’unica strada per uscire dalla crisi e il riassetto dei conti non può diventare l’ennesima tappa del processo di accumulazione di liquidità monetaria e peso finanziario delle banche sulla pelle dei cittadini. L’Europa deve darsi gli strumenti politici e legislativi che impongano tecnicamente e politicamente il ritorno della sovranità all’Unione e ad i singoli paesi che la compongono. Il commissariamento dei tecnocrati al servizio dei capitali speculativi non può continuare. La politica deve tornare, con forza, a indicare le vie dell’economia e non il contrario. Perché, così dicono le urne, il denaro serve agli uomini, non viceversa.
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di Andrea Santoro
Negli ultimi anni una delle parole più ricorrenti durante la lettura o l'ascolto delle notizie è stata “crisi”. Per scongiurarne gli effetti più negativi e devastanti sono stati proposti ed attuati tagli e riduzioni alla maggior parte dei servizi pubblici, creando non poco scontento tra le categorie interessate. Stranamente però, una voce del bilancio è rimasta pressoché immutata: quella che fa riferimento alle grosse industrie belliche internazionali, che non hanno conosciuto crisi in quasi nessuna parte del mondo.
Analizzando la relazione annuale del Sipri (Stockholm International Peace Research institute) pubblicata lo scorso 19 marzo, sicuramente non stupirà il primato dell'America nell'esportazione di armi. Ciò che invece colpisce immediatamente il lettore è come nel lustro compreso tra il 2007 e il 2011, il giro d'affari delle grandi industrie di armi sia cresciuto del 24% rispetto al quinquennio 2002 - 2006.
La presenza dei paesi del cosiddetto gruppo Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) è dominante; le loro economie in rapido sviluppo prevedono investimenti corposi anche nell'industria bellica e, nel particolare, India e Cina detengono il primato in seno al gruppo.
I 2000 km di confine che congiungono questi due Paesi sono fonte di grosse preoccupazioni per entrambe le regioni, dal 1947 impegnate in una lotta fratricida per la zona del Kashmir: all'aumento dell'undici percento dei fondi destinati agli armamenti da parte della Cina, è corrisposta da parte dello stato maggiore indiano l'elaborazione di una tattica che prevede lo scontro sia con il Pakistan, sia con l'India, muovendo così su un “duplice fronte'”.
Gli acquirenti indiani preferiscono strumenti affidabili e tecnologicamente avanzati, come ad esempio la creazione di una flotta sottomarina strategica, l'accumulo di armamenti atomici e di missili balistici; in cifre questo si traduce nella detenzione del 10% delle importazioni di armamenti a livello mondiale, con una previsione di aumento delle spese nel periodo 2012-2013 del 17%, fino a raggiungere quota 40 miliardi di dollari, circa il doppio di quanto investa l’Italia. Magra consolazione se si considera che ai sessanta milioni di italiani corrispondono più di un miliardo di indiani.
La collaborazione tra i paesi Brics è vasta e senza scrupoli: Mosca è infatti la fonte primaria di armamenti per l'india, che da lì vede arrivare (aerei) (mig) parti aeree (su 30), carri pesanti e sommergibili; stretta collaborazione tra i due anche per raggiungere il completamento del progetto che darà alla luce l’aereo furtivo T-50 Pak-fa. In questo contesto resistono anche le grosse industrie pesanti europee, specie quelle situate in Regno Unito, Italia e Francia.
Discorso a parte merita invece l'amicizia armata tra India e Israele, con cui vi è una stretta e duratura collaborazione che vede i due impegnati nello sviluppo di droni, sistemi antimissilistici e radar, campo in cui storicamente Israele ha sempre fatalmente eccelso, anche grazie all'aiuto degli amici statunitensi, altro alleato economico dell'India.
Secondo l’Istituto internazionale di studi strategici (Iiss), le spese militari affrontate nel 2012 dall'intera zona asiatica supereranno quelle di tutti i paesi europei con complessivi oltre 180 miliardi di euro, considerando anche che, oltre all'India, i maggiori importatori di armi sono Corea del sud (6%), Cina e Pakistan (5%) e infine la città stato di Singapore (4%).
Anche la primavera araba ha avuto però la necessita di armarsi, per difendere il potere o attaccarlo: in questa estesa area geopolitica si nota un aumento medio del 273%, con il primato del Marocco a più 443%. Ne possiamo dedurre che l'industria delle armi non ha quasi conosciuto crisi, vedendo anzi i fondi destinati a questa spesa nella maggior parte dei casi aumentare, con la sola eccezione della Grecia per quanto al territorio europeo.
È questo il caso dell'Italia o nel nostro paese i tagli orizzontali hanno riguardato anche l'esercito? Certo il ministro Di Paola una modifica dei fondi destinati alle forze armate l'ha proposta ed attuata, ma le ambiguità nel ddl non sono poche: se è infatti vero che vi è stata una “revisione dell’assetto strutturale e organizzativo della difesa”, è altrettanto vero però che l'ammiraglio e ministro ha chiaramente tenuto come riferimento il “garantire nei prossimi anni alle Forze Armate risorse costanti per portare a termine i programmi di rinnovamento tecnologico e di armamenti”. Parole che troppe e troppe volte avremmo voluto sentire riferite al mondo della cultura, della scuola, del lavoro.
L'articolo quattro del ddl, in particolare, prevede che "al Ministero della Difesa sia assicurato per il riordino e comunque fino al 2024, un flusso finanziario costante minimo annuo non inferiore a quanto previsto per il 2014”: è esattamente da quell'anno, infatti, che è previsto dal piano di bilancio un rifinanziamento del comparto militare, che passerà a circa 21 miliardi di euro. Ma questa è una cifra che non tiene conto né dell'occultamento delle spese che il Sipri quantifica nel nostro paese (almeno 5 miliardi ogni anno), né degli investimenti delle cosiddette 'banche armate”, quelle cioè che investono principalmente in armi: nel 2010 la capolista era Bnp-Paribas BNL, con quasi 960 milioni di euro.
Ora però, con la modifica della legge 185/1990, il governo può non rendere pubbliche le cifre investite da privati nel campo degli armamenti, quindi non è dato sapere se questa cifra sia cresciuta o diminuita.
Uno dei punti più affascinanti proposti dal ddl firmato dal tecnico della guerra è il sistema di tagli del personale: entro il 2024 i militari italiani passeranno da 180 000 a 150 000, prevedendo degli ottimi meccanismi previdenziali, invidia di tutti gli altri tecnici del governo: "incremento del contingente annuo da collocare in ausiliaria; estensione a tutti dell’istituto dell’aspettativa per riduzione quadri, con il 95% di stipendio percepito a casa; estensione a tutti della riserva di posti per le assunzioni in altre amministrazioni pubbliche, agevolazioni per il reinserimento nel lavoro dei volontari congedati; concorsi straordinari per l’accesso a inquadramenti superiori; ripristino dell’esonero; collocazione nei ruoli civili della difesa, transito verso posti delle altre amministrazioni pubbliche".
E, come se non bastasse, “le risorse recuperate sono destinate al riequilibrio dei principali settori di spesa della difesa." Forse il ministro Di Paola sarebbe stato meglio impiegato nelle riforme del lavoro, visti i recenti sviluppi in merito.
Appare poi particolarmente strano in questo contesto il caso di Finmeccanica, industria impegnata nella produzione di armamenti pesanti: l'azienda cardine del settore aerospaziale in Italia ha registrato numerose perdite negli ultimi due semestri, prova che anche il comparto degli armamenti, da sempre ritenuto uno dei più affidabili grazie alle alleanze internazionali, si è talvolta avvicinato ad esperienze ombrose, su cui forse in questi giorni Valter Lavitola proverà a fare luce.
Intanto a Messina il 5 aprile un sottomarino nucleare americano classe “Virginia” (soprannominato hunter killer) ha attraversato lo stretto nel totale silenzio dei media e, mentre in Canada la levitazione i costi degli F35 fa si che l'intero acquisto venga sospeso in attesa di chiarezza, in Italia si conferma la volontà di acquistare questa tecnologia superata a prezzi sbalorditivi, sempre nella più totale discrezione garantita da quel che resta del quarto potere.
Resta poi la considerazione sui costi quotidiani ed effettivi delle truppe all'estero. I fondi stanziati per il settore della difesa nel 2012 sono diminuiti di 700 milioni di euro, passando così a 13,6 miliardi, anche grazie al termine del conflitto libico, che resta comunque uno dei più economici.
Riconfermata la presenza delle truppe italiane in tutte le missioni precedentemente intraprese, anche in Afghanistan, dove una battaglia persa in partenza costa ai contribuenti 747,6 milioni di euro, assorbendo oltre la metà delle risorse destinate alle operazioni oltremare, comunque in calo rispetto agli 811 milioni dello scorso anno e i 709 milioni del 2010, cui però si aggiungono le decine di migliaia di vittime causate dal conflitto, vite che il denaro non potrà mai quantificare. La missione in Afghanistan ci costa più di due milioni di euro al giorno.
In un periodo di forte recessione come quello attuale è inevitabile che vengano proposti dei tagli alle spese, che possono anche essere orizzontali, riguardando quindi ogni settore dell'amministrazione pubblica.
È d'altra parte vero però che proprio dalla lettura del bilancio interno si può intravvedere la direzione che nel lungo termine chi sta al potere vuole seguire: gubernare deriva dal latino, significa reggere il timone della barca, magari cercando l'approdo in un porto tranquillo. Per veleggiare verso questi porti sembra che in molti ritengano necessario riempire la nave di armi piuttosto che tapparne le falle, senza considerare che lo stesso peso dei cannoni potrebbe solo farci affondare più rapidamente.
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di Carlo Musilli
Tra i misteri d'Italia c'è anche la benzina. L'Istat ha certificato che il mese scorso il prezzo della verde è salito del 20,8% su base annua, il rincaro più alto dal 1996. Nello stesso periodo il costo del diesel è cresciuto del 20,5%. Viene da pensare che nel frattempo il prezzo del petrolio si sia impennato, invece no: è addirittura sceso, anche se di poco (-1%, a circa 119 dollari per un barile di Brent, l'oro nero europeo). Insomma, mentre il prezzo della materia prima scende, quello alla pompa sale. Quale stregoneria italica è mai questa?
Per sciogliere l'enigma partiamo dal punto più ovvio, le tasse. Se prendiamo come riferimento il prezzo di un euro e novanta al litro (ma in alcune zone d'Italia è stato ampiamente superato il muro dei due euro), quasi la metà del rincaro sulla benzina nostrana (pari a 38 centesimi in un anno) è dovuto all'aumento dell'Iva. A pesare è il passaggio dal 20 al 21% dell'aliquota ordinaria, un incremento stabilito lo scorso dicembre dal primo decreto del governo Monti, il salva-Italia.
Fin qui nessuna sorpresa. La questione però si complica quando arriviamo a parlare di accise, che hanno pesato per un altro 27% sull'impennata dei prezzi. Cosa sono? Con il termine "accisa" si intende un'imposta indiretta sulla fabbricazione e sulla vendita dei prodotti di consumo. La paghiamo, ad esempio, anche su alcolici e tabacchi.
Per calcolare un'accisa si usa come criterio la quantità dei beni prodotti e commercializzati, mentre l'Iva ha a che fare con il loro valore. Siccome però l'accisa contribuisce a determinare il valore stesso di questi beni, alla fine paghiamo l'Iva anche sull'accisa. E voilà, ecco a voi il primo gioco di prestigio all'italiana: la tassa sulla tassa.
Ma non è finita. Oltre ai soldi chiesti dallo Stato, ci sono quelli che vanno in tasca alle compagnie. Messi di fronte allo strano caso (più frequente di quanto si pensi) dei prezzi al consumo che salgono mentre quelli alla produzione calano, di solito i petrolieri si difendono parlando del tasso di cambio. Un vero e proprio ritornello usato ciclicamente per difendersi dalle accuse di eccessiva speculazione.
Il principio è semplice e, nella sostanza, vero: se l'euro si indebolisce rispetto al dollaro, il prezzo della benzina sale, perché occorrono più soldi per acquistare ogni singolo barile di greggio. In effetti, fra aprile 2011 e aprile 2012, il cambio è sceso da 1,40 a 1,32, ma il meccanismo ha pesato per appena il 10% sul rincaro subito dagli italiani. Questo significa che, fatti due conti, resta da imputare alla pura speculazione una fetta ancora più ampia, pari al 13%.
Almeno a questo fattore il governo avrebbe potuto mettere un freno, ma ha deciso di non farlo. L'occasione di introdurre maggiore concorrenza nel settore è stata persa con il decreto liberalizzazioni. Il progetto iniziale era di consentire ai gestori delle pompe di rifornirsi da più d'una compagnia, ponendo fine ai contratti d'esclusiva e dando vita ai cosiddetti impianti "multimarca".
All'ultimo minuto però il coraggio è venuto meno. Al primo comma, l'articolo 17 del decreto ("Liberalizzazione della distribuzione dei carburanti") recita così: "I gestori degli impianti di distribuzione dei carburanti che siano anche titolari della relativa autorizzazione petrolifera possono liberamente rifornirsi da qualsiasi produttore o rivenditore (...). A decorrere dal 30 giugno 2012, eventuali clausole contrattuali che prevedano per gli stessi gestori titolari forme di esclusiva nell'approvvigionamento cessano di avere effetto per la parte eccedente il 50% della fornitura complessivamente pattuita e comunque per la parte eccedente il 50% di quanto erogato nel precedente anno dal singolo punto vendita. Nei casi previsti dal presente comma le parti possono rinegoziare le condizioni economiche e l'uso del marchio".
Secondo le sigle sindacali di categoria Faib Confesercenti e Fegica Cisl, con questo intervento "il Governo si è limitato a gettare fumo negli occhi dell'opinione pubblica 'liberando' solo chi era già libero, cioè i proprietari gli impianti. Alla fine il provvedimento non riguarda più di 500 impianti su 25.000.
Per il resto, il controllo dei petrolieri sull'intera filiera, 'dalla culla alla tomba', che consente loro di mantenere in Italia i prezzi più alti d'Europa, viene completato definitivamente con un regalo inaspettato: ogni compagnia potrà fissare le condizioni contrattuali che vuole, con ogni singolo benzinaio, senza nessuna tutela, nessuna contrattazione, nessuna mediazione collettiva".
Ma al di là di quest'ultimo buco nell'acqua in fatto di concorrenza, dobbiamo ricordare anche che i rincari della benzina sono sempre stati considerati dai nostri governanti come il modo più veloce e sicuro di batter cassa. Una storia iniziata ancor prima della Repubblica. Tempo fa il deputato Claudio Barbaro (Fli) ha presentato un'interrogazione alla Camera in cui chiedeva di eliminare le accise. Nel suo intervento l'onorevole ha ricordato una serie di incrementi decisi nel passato e mai più soppressi. Si parte addirittura dal 1935, quando fu stabilito un aumento di 1,9 lire. Il motivo? La guerra in Etiopia.