di Giovanni Gnazzi

Rassicurazioni e fiducia ricevute dall’abc della politica Monti le ha incassate volentieri alla vigilia del viaggio in Germania. Temeva di presentarsi zoppo davanti a Shauble e ha quindi chiesto un pedaggio visibile alla stramba maggioranza che lo sostiene. Ma se il sostegno alla politica economica, pur tra molti mugugni, è stato confermato, quello sulle riforme che riguardano direttamente il sistema di potere nel paese non gode dello stesso credito.

Il decreto anticorruzione, che per molti aspetti è fatto di pannicelli caldi, è risultato comunque indigesto per la maggioranza del cavalierato. Eppur si tratta soprattutto di manovre estemporanee più destinate al riposizionamento interno della destra che alla sostanza del provvedimento.

Perché a ben guardare, mano più leggera non la si poteva avere. Via i condannati dal Parlamento, certo. Ma solo dal 2018 in poi. E perché non da subito? Quando si tratta d’intervenire sul mercato del lavoro non ci si preoccupa nemmeno della retroattività dei provvedimenti, ma quando si tocca la corruzione - nella quale la casta dei politici è solo una delle tante coinvolte - allora si aprono ogni sorta di paracadute per consentire un atterraggio il più possibile morbido.

I ritorni sono vari. Ad esempio, spostare di una legislatura (nominalmente, perché in sei anni potrebbero essercene molto di più) è cosa decisamente utile per tutti coloro i quali hanno solo una legislatura alle spalle e dunque abbisognano della seconda per poter poi riscuotere la pensione di parlamentare.

E’ altresì utile per tutti coloro che pensano di utilizzare gli anni che verranno come salvacondotto dai loro guai giudiziari (vedi prescrizione) e, infine, è utile anche per le segreterie dei partiti, che potranno operare una selezione dei gruppi dirigenti anche sulla base dei provvedimenti giudiziari aperti e sui criteri relativi all’ineleggibilità.

Non sarebbe la prima volta che la selezione della classe dirigente fosse basata non sulle competenze quanto sui carichi pendenti. Nel frattempo, per evitare però contraccolpi bruschi che rischino davvero rendano efficace la norma, è stato stabilito che il termine ultimo per stabilire l’ineleggibilità sarà comunque tra un anno, cioè dopo che le elezioni avranno avuto luogo e i corrotti saranno stati rieletti.

Berlusconi, con una franchezza involontaria, ha dichiarato che le norme sulla corruzione in primo luogo danneggiano il PDL. Il che non è soltanto la certificazione di quanto ormai tutti sanno, e cioè che la corruzione sta al PDL come lo statuto ad un partito, ma anche che un provvedimento di per sé punitivo nei confronti della corruzione vede comunque la luce. Ad evitare che però il danno per il partito divenisse un danno per le aziende del capo, ci ha pensato il prode Cicchitto, che ha avvertito il governo che se a malincuore il provvedimento é stato votato, non si deve interpretare la buona volontà come una resa alla legalità. Dunque, un’eventuale introduzione della norma relativa all’abrogazione del falso in bilancio (la proposta dell’IDV prevede il ripristino delle pene precedenti, cinque anni e non due come modificate dal governo Berlusconi) risulterebbe intollerabile e non sarebbe votata, dunque il governo verrebbe sconfitto in aula.

In fondo, anche le ultime posizioni del PDL sono coerenti con la forma e la sostanza con la quale ha gestito il paese il governo Berlusconi: fate quello che volete al Paese, ma giù le mani dall’impero e dall’imperatore. Insomma: Alfano a palazzo Chigi dice a Monti di andare avanti sereno, Cicchitto a Montecitorio dice alla Severino che se Monti disobbedisce il governo va a casa. Se il governo naviga a vista, i trentotto "no" e i 72 assenti del PDL nel voto di ieri hanno le sembianze dell'avviso ai naviganti. Morale? Mantenere la rotta. Come? Obbedendo e vivendo sereno il tempo breve che resta.

di Rosa Ana De Santis

Non lavoreranno e non percepiranno pensione, questo é certo. Un dramma assoluto sul quale il governo fa spallucce da mesi. A tratti grottesco il rimpallo di numeri e dati incongruenti tra il Ministero del Lavoro e l’INPS. Una diatriba quasi surreale a tinte di pericolosità estrema in un paese che sugli esodati gioca una delle sue partite più delicate. Il decreto firmato Fornero cita risorse a copertura di 65mila persone espulse dal mercato del lavoro, mentre l’INPS- già a maggio - come ricorda il Segretario della Cgil, Susanna Camusso - parlava di 390.000 esodati.

La schermaglia che ora il Ministro ingaggia contro i vertici dell’Istituto, convocandoli con urgenza, tradisce in primis l’improvvisazione con cui la professoressa del Lavoro si accinge a metter mano alla crisi profonda del mercato del lavoro e, in aggiunta, quel tratto di cinismo e di disprezzo per i lavoratori che contraddistingue il comportamento di tutto questo governo. In serata, la Fornero dichiara che "i dati diffusi danneggiano il governo" e c'é da chiedersi se non sia invece proprio lei, con la sua approssimazione dilettantesca, a danneggiare prima gli esodati e poi il governo.

I numeri citati nel decreto Salva Italia e Milleproroghe nascerebbero da un’interpretazione restrittiva della relazione Inps e il Ministero, anche attraverso il comunicato di replica del 5 giugno u.s., non si è precipitato, a dirla tutta, in grandi smentite. I soldi disponibili sono solo per i 65mila e per gli altri il Ministro promette in un secondo momento soluzioni eque e di sostegno.

Una sorta di confessione di inadempienza per tutti coloro che o sono stati licenziati o si sono dimessi senza trovare nuova occupazione - i cosiddetti “cessati”- o per quanti hanno scelto la prosecuzione volontaria.  Di queste due categorie il Governo prevede l’andata in pensione con le vecchie regole solo per coloro che maturano i requisiti entro 2 anni dal Salva Italia, quindi entro novembre 2012 se dipendenti. A queste due classi di ex lavoratori l’INPS aggiunge anche quanti sono in mobilità, i destinatari dei fondi di solidarietà e i beneficiari di congedo straordinario.

Cambiare la legge in corsa per quanti avevano siglato accordi sulla base delle vecchie normative rappresenta un vero raggiro ai danni dei cittadini e questo significa che da qualche parte le risorse andranno trovate, anche ricorrendo a misure emergenziali. E’ prima di tutto una questione di legalità e di giustizia. Magari da una patrimoniale, dato che si parla a vuoto finora di equità e di tutela per le famiglie che pagano il prezzo più alto della crisi, o dai capitali scudati condotti nei paradisi fiscali.

Il paese non ha memoria di un ministro del lavoro così incompetente ed arrogante, indifferente ai dati ed al rispetto dei patti tra cittadini e governo e le sue immediate dimissioni per manifesta incapacità sarebbero il minimo dovuto. Ma difficilmente arriveranno. Del resto, il governo dei professori - quella degli esodati è solo l’ultima delle conferme - ha scelto di far quadrare i conti in tutta fretta per far bella mostra all’Europa anche a costo di terrorizzare la popolazione con la mitologia dello spread: una creatura economica di nuova generazione di cui nessuno ha capito fino in fondo nulla e che solo ora improvvisamente condiziona l’economia reale dei paesi. Spread peraltro tornato a crescere vertiginosamente come agli antichi fulgori, addebitando i costi di paura e povertà sulle sole spalle di chi era già in seria difficoltà.

Il ceto medio, i disoccupati, i precari, i dipendenti, tutti coloro su cui è facile e garantito il successo di ogni misura vessatoria. Parallelamente a questi cittadini sono stati ridotti se non azzerati i servizi fondamentali: istruzione, salute, casa.

La sospensione della democrazia che vive l’Italia ha forse raggiunto il suo livello massimo. Se era goliardica ai tempi del Cavaliere, ora è solo più elegante nelle forme. Più milanese e più bocconiana. Disposizioni così pesanti nella vita dei cittadini senza nemmeno il disturbo di un mandato elettorale e il vincolo anche morale della sua revoca svelano tutta la vera missione dei professori: portare a termine il berlusconismo senza Berlusconi.

di Rosa Ana De Santis

E’ iniziata da due giorni l’occupazione dell’ISFOL da parte dei lavoratori, sostenuti dal sindacato USB. Dopo un lungo periodo di mobilitazioni e di silenzio istituzionale (tanto da parte del governo quanto dell’opposizione) la decisione è arrivata. La ricerca sul mercato del lavoro, le sue contraddizioni e i suoi squilibri, va tolta dalla mano pubblica per affidarla a quella privata.

L’occupazione dell'Ente è dunque l’unico strumento rimasto in mano a chi si oppone strenuamente allo smantellamento di un ente pubblico di ricerca come l’ISFOL, con la volontà - questa la scure che grava sul futuro scientifico e culturale del Paese - di consegnare la ricerca pubblica in pasto alla logica aziendalista di un’agenzia SpA.

Questa scelta, tutta politica, oltre a rappresentare il prossimo serbatoio di nomine per i soliti noti, prefigura l’orientamento affaristico con cui si vorrà, sempre di più in futuro, fare business con ciò che business non deve essere. Non importa poi, la trascurabile appendice che il CdA seduto in Parlamento non rileva, se a rimanere a casa, grazie a questa operazione di razionalizzazione della spesa firmata Fornero, saranno 300 precari mentre i lavoratori a tempo indeterminato saranno dispersi, pagando un prezzo sui propri contratti, retribuzioni e carriera.

Le professionalità liquidate, ri-contrattualizzate con modalità discutibili, la disoccupazione crescente, rappresentano per ora, a quanto pare, gli unici numeri che la contabilità del governo non sa leggere e di cui mostra di non preoccuparsi.

L’ordine del giorno presentato dalla Senatrice Giuliana Carlino dell’Italia dei Valori, membro della Commissione Lavoro del Senato, è stato comunque assunto dall’Esecutivo e l’auspicio è che la maggioranza si attivi per ritornare sui suoi passi e per salvaguardare le prerogative e la lunga storia dell’Ente. E’ su questa scia che l’USB ha inviato una lettera aperta a tutti i partiti, coinvolgendoli attivamente in una partita che per ora sembra mostrare spiragli di apertura almeno in sede di discussione parlamentare.

La sorpresa più grande, ma forse nemmeno troppo visto l’allineamento con il governo Monti, è stata quella di trovare il PD improvvisamente senza una rotta sul tema della privatizzazione della ricerca pubblica e della soppressione dell’Ente Pubblico. Una vicinanza teorica cui è seguito un grottesco smarrimento operativo, visto che nel documento alla base della IIª Conferenza sul Lavoro di Napoli del 15/16 giugno, il PD continua ad affermare la necessità di istituire un’Agenzia nazionale del Lavoro, fondandola sulle ceneri dell’ISFOL.

A differenza che in passato, infatti, alle parole di solidarietà non sono mai seguite azioni concrete e unitarie in Parlamento, a dimostrazione di tutta la distanza che ormai separa i democratici di sinistra dalla questione del lavoro e che definitivamente li condanna a perdere persino con il comico a cinque stelle.

L’Isfol è l’unico Ente pubblico di ricerca in Italia in tema di mercato del lavoro: ha sempre avuto un ruolo tecnico cruciale nelle politiche comunitarie e ha dato un contributo notevole ai processi di integrazione tra Governo e Regioni, con uno sguardo attentissimo alle politiche sociali e al welfare. Autonomia scientifica e permanenza nel settore pubblico rappresentano l’unico modo per continuare a garantire che una storia di competenze scientifiche e di lavoro di eccellenza non finisca sotto i colpi dei tagli indiscriminati. Proprio quelli che il Presidente della Repubblica, non proprio l’ultimo bolscevico di turno, ha ripetutamente condannato.

La protesta dei lavoratori Isfol va oltre la questione tecnica, pure importantissima, che riguarda l’Ente. All’impoverimento delle tasche segue in parallelo quello delle competenze scientifiche e culturali, nel tranello che il trasferimento di risorse pubbliche al privato sia garanzia di efficienza e non, più volgarmente, l’unico modo per continuare a non muovere un dito sul fronte degli sprechi e per far guadagnare a pochi quello che verrà tolto, ogni giorno un po’, al bene di tutti.

 

di Rosa Ana De Santis

I risultati della Ricerca Rbm-Censis sulla sanità integrativa raccontano benissimo di come la crisi e la difficile congiuntura socio-economica che strangola le famiglie italiane stia compromettendo seriamente il diritto alla salute. Sono ben 9 milioni gli italiani, poveri e impoveriti, che per ragioni economiche non hanno più accesso alle prestazioni sanitarie necessarie.

Tagli e piani di rientro hanno drasticamente ridotto la spesa pubblica nella sanità. Si è passati dal 6% del periodo 2000- 2007 al 2,3% del biennio 2008- 2010 per arrivare all’ 1% nelle regioni con piano di rientro. E’ questo a generare liste d’attesa infinite, assenza quasi totale dei servizi intra-moenia, pessima qualità di servizi sanitari in moltissimi nosocomi. La distanza tra quello che servirebbe alla sanità pubblica per riprendersi e i tagli annunciati è pari a 17 miliardi di euro. Una cifra da capogiro che non nasconde l’iniquità che questa situazione porta con sé.

Soltanto i più ricchi possono permettersi infatti la cosiddetta sanità integrativa o privata che sia e la maggior parte di chi ci si rivolge lo fa a causa delle lunghissime liste d’attesa del pubblico. Come si può pensare di garantire il diritto alla salute dei cittadini se l’attesa per esami diagnostici di routine è di mesi e mesi? E soprattutto come si può parlare seriamente di prevenzione in queste condizioni? Chi controlla l’agenda degli ospedali, gli “imbucati” e quello scandalo senza controllo degli ospedali pubblici abbandonati da tanti medici nel pomeriggio, pronti a correre in clinica?

Interessante pensare cosa accadrebbe se tutte le donne in fascia di screening per il tumore del seno decidessero di diventare diligenti  e puntuali nei controlli, e si rivolgessero in ospedale per ecografie e mammografie con regolarità. Sarebbe pronto il servizio sanitario nazionale ad accoglierle?

Ad oggi la sanità è peggiorata per il 32% degli italiani e i Fondi  sanitari presenti (14 quelli presi in esame nella ricerca) di cui molti quelli aziendali più accessibili per le tasche di tutti, non riescono a coprire la quota di cittadini rimasti a piedi.

Inutile parlare di cosa non hanno i precari. E’ evidente che occorre trovare risorse aggiuntive per intervenire sulla sanità e per evitare che sulla crisi si ingrassi la sanità  privata, lasciando senza cure quote sempre più consistenti della popolazione.

In effetti se la sanità pubblica diventa un dogma senza diritto, senza quindi più la forza di esigibilità che dovrebbe essergli propria, si trasforma in un raggiro da politichetta per un paese che fino a ieri rivendicava la sua differenza con i sistemi a quasi totale sanità privata sul modello statunitense.

Il sistema italiano è già cambiato e il diritto alla salute nella sua pienezza (che comprende anche la prevenzione secondaria tanto osannata sui media) non è appannaggio di tutti. I più ricchi hanno la possibilità di spostarsi e di organizzare i pellegrinaggi della salute verso ospedali meglio attrezzati.  I più ricchi ancora hanno polizze personali o possono permettersi visite specialistiche  a pagamento.

Sono rimasti i più poveri a credere nel sistema sanitario nazionale che, seppure ricco di eccellenze e di servizi di altissimi qualità, spesso fondati unicamente sulla dedizione e il senso del dovere di chi lavora nella sanità pubblica, sta collassando dentro il buco degli sprechi e dei tagli fatti con il “machete”, per usare le parole del Presidente Napolitano.

L’importante è sapere che per ora a pagare per tutto questo sono loro: i più poveri e i malati. Quelli che più ne avrebbero bisogno.

di Mariavittoria Orsolato

Su La Stampa dello scorso sabato, il parlamentare Pd Stefano Esposito ha pubblicamente manifestato le sue riserve sulle capacità e i titoli dei 360 accademici che a febbraio hanno firmato l'appello al premier Monti per riconsiderare il progetto dell'Alta Velocità. Secondo Esposito - noto alle cronache per la proposta di non rinnovare la tessera del Partito Democratico a chi si fosse opposto alla TAV- il campione non è assolutamente rappresentativo, né competente in materia di ferrovie: “Soltanto il 14% svolge attività accademiche attinenti alla realizzazione della Torino-Lione e comunque si tratta appena dello 0,17% del totale degli accademici italiani accreditati al ministero”.

Probabilmente l'uscita del parlamentare Pd era solo un tentativo di fare pubblicità al suo libro - il controverso Tav Si, scritto a quattro mani con Mario Foietta e contestato duramente al salone del libro di Torino - dal momento che, stando al suo diploma di istituto magistrale, lui stesso non avrebbe né i titoli, né le competenze adeguate per parlare con cognizione di causa della Tav. Figurarsi scriverci un intero libro.

Ma non sottilizziamo, il livello scolastico spesso non è indicativo del valore di una persona ed era lo stesso Leonardo Da Vinci a dire che la sapienza è figlia dell'esperienza. Purtroppo però Stefano Esposito pare mancare anche di questa. L'Alta Velocità in Italia infatti non è nata con la Torino-Lione e sono già diverse le tratte completate: ogni singolo progetto ha avuto esternalità negative ma in nome del “progresso” si è comunque deciso di tirare dritto e di ignorare ciò che le precedenti esperienze avevano insegnato.

Per quanto riguarda le ricadute della TAV sul sistema idrogeologico del territorio, l'esperienza del Mugello è certamente paradigmatica. I lavori per la tratta Bologna-Firenze hanno lasciato dietro di sè 57 km di torrenti che in estate sono un deserto di sassi, 73 sorgenti e 45 pozzi prosciugati, cinque acquedotti oggi riforniti con un costosissimo sistema di ripompaggio a monte, e una delle gallerie ha fatto persino scomparire un intero fiume.

Un vero e proprio disastro ambientale, valutato in 174 milioni di euro dai consulenti della Procura di Firenze all’interno del processo che ha visto imputate 59 persone - tutte clamorosamente assolte in appello lo scorso giugno - fra dirigenti dell’impresa Cavet a cui sono stati affidati i lavori, imprenditori, proprietari di discariche e trasportatori.

Il futuro della valle di Susa non si prospetta certo più roseo. In primo luogo perchè le montagne sono più alte, con cumuli e pressioni maggiori, poi perché il Piccolo ed il Grande Moncenisio sono costituiti prevalentemente da gessi che hanno creato enormi inghiottitoi carsici. Tutta la montagna ospita laghi fossili sotterranei, il più superficiale dei quali (16 milioni di metri cubi d'acqua) fu intercettato a Venaus dai lavori della centrale di Pont Ventoux, che penetrarono nella montagna per meno di un chilometro. La rete idrica del gruppo del Moncenisio é quindi estesissima e connessa: i traccianti gettati nel 1970 nella grotta del Giasset, uscirono pressoché dovunque solo dopo due settimane, a conferma che avevano attraversato grandi laghi sotterranei.

A confermare i dubbi e i timori degli attivisti No Tav e dei valsusini in generale, negli anni si sono susseguiti diversi rapporti, studi e stime di danno, primo tra tutti il cosiddetto rapporto COWI del 2006, redatto per conto della Commissaria europea De Palacio. Nonostante la committente fosse la stessa Commissaria europea per la costruzione di questa linea, gli esperti da lei interpellati non hanno potuto omettere che il solo tunnel di base drenerà da 60 a 125 milioni di metri cubi di acqua all’anno, una cifra che corrisponde al fabbisogno idrico di una citta? con un milione di abitanti.

Dal momento che l’acqua drenata é riversata nei fiumi, è possibile che a una certa distanza a valle del tunnel, lo scorrimento su un periodo di un anno non subisca influssi di rilievo, almeno per quanto riguarda la portata. Almeno, perché le risorse idriche catturate all’interno della montagna e drenate direttamente all’esterno, saranno calde e con concentrazioni di solfati ben oltre i limiti accettabili per essere immessi nei corsi d’acqua, col risultato che i fiumi sarebbero sì pieni d'acqua ma irrimediabilmente inquinati.

Per le zone situate a monte delle estremità del tunnel, la portata totale delle acque di superficie, e in particolare il flusso minimo annuo, potrebbe invece essere pesantemente modificata e quindi la ripartizione fra acque di superficie e sotterranee potrebbe cambiare radicalmente. Un problema non da poco, visto che l'acqua è un elemento primario e imprescindibile per tutta una serie di attività: dall'acqua corrente nelle case all'irrigazione dei campi, dal buon funzionamento del sistema fognario alla produzione di energia.

La sottrazione di enormi quantitativi di acqua al gruppo del Moncenisio e dellAmbin avrà infatti inevitabili effetti anche sull’alimentazione del lago del Moncenisio. Il lago attuale alimenta una centrale da 360 MW in Francia e da 240 MW in Italia. Se il deficit indotto fosse di 25 milioni di metri cubi, in termini energetici questi significherebbero la perdita di circa 150 milioni di Kwh di energia di punta che andrebbero messi anch’essi tra i danni causati dal progetto.

C'è poi da dire che i precedenti grandi lavori hanno già inciso in modo drammatico sulle sorgenti della Valle di Susa: il raddoppio della ferrovia Torino-Modane, ha provocato la scomparsa di 13 sorgenti nel territorio di Gravere e di 11 nella zona di Mattie.

Le gallerie dell’autostrada tra Exilles e la val Cenischia hanno fatto scomparire 16 sorgenti delle frazioni di Exilles, oltre ad alcune altre in altre località. I lavori della centrale di Pont Ventoux, per una galleria di soli due metri di diametro, hanno prosciugato il rio Pontet, 2 sorgenti a Venaus, 2 a Giaglione, una decina in territorio di Salbertrand, tra cui quella che alimentava l’acquedotto di Eclause.

L'esperienza inevitabilmente insegna e non tenere conto di quanto già accaduto non è solo un atteggiamento miope, ma in questo caso volutamente lesivo. Nella sua sintesi sulla crisi mondiale dell’acqua e sull’iniziativa di cartellizzare l’acqua del mondo, Maude Barlow ha usato l’espressione “oro blu", una risorsa vitale che assume sempre più le caratteristiche del petrolio, l'oro nero per cui si è combattuto e si continua a combattere, in spregio alle perdite umane.

Alcune stime indicano che nei prossimi anni l’acqua avrà un giro d’affari del valore di centinaia di miliardi di euro e questa tendenza è legata soprattutto alla privatizzazione della sua distribuzione che, in particolare in Europa, sta diventando normalità. E, alla luce di questo, prosciugare la Val di Susa come si è già fatto col Mugello non è altro che un business nel business.


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