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di Cinzia Frassi
"Errore cancellare il finanziamento", lo dicono in coro Angelino Alfano, Pierluigi Bersani e Pier Ferdinando Casini. La necessità di un intervento rapido sul tema dei rimborsi elettorali alias ex finanziamento pubblico ai partiti, li fa andare a braccetto. Fa fronte compatto il terzetto e propone un testo. Il Parlamento, che approva, da il via libera alla procedura più rapida della commissione Affari Costituzionali in sede legislativa. Ma i verdi leghisti non ci stanno, raccolgono le firme sufficienti per riportare la discussione e l’approvazione nell’Aula parlamentare. Questo in sostanza il primo round.
La proposta di legge (di) ABC dovrebbe prevedere maggiore trasparenza e controllo dei bilanci dei partiti. Su cosa si sono accordati? In breve, concordano e propongono l'obbligatorietà dei controlli sui bilanci dei partiti e la certificazione degli stessi da parte di società di revisione iscritte nell'albo speciale Consob, l'istituzione di una Commissione per la trasparenza e di il controllo dei bilanci presieduta dal Presidente della Corte dei Conti, la pubblicità dei bilanci attraverso la pubblicazione online, obbligo di investire la liquidità in titoli di Stato italiani.
Ma la natura giuridica degli stessi partiti resterebbe invariata. Se da un lato infatti sono tenuti a una rendicontazione finanziaria, essi in sostanza non sono soggetti a controlli effettivi, che possano sfociare in reati e sanzioni conseguenti. Sono associazioni di fatto, private. Le associazioni riconosciute sono tenute al rispetto di regole, soprattutto nella redazione dei bilanci, e regole affinché non ci sia “confusione” tra il patrimonio dell’associazione stessa con quello dei singoli associati. Si dovrebbe anche parlare della natura giuridica più consona per associazioni che necessitano di regole che assicurino la vita democratica al loro interno.
Non solo: un altro punto fondamentale risiede nell’espediente andato in scena nel ’99, quando i rimborsi elettorali persero la corrispondenza con le spese elettorali effettivamente sostenute. Non risulta che questa proposta “ABC” disponga diversamente. Lo stesso avviene per la previsione che garantisce il rimborso anche per legislature di breve durata. Ancora, i rimborsi elettorali, che corrispondono a centinaia di milioni di euro, vedono di tanto in tanto interventi legislativi che ne dispongono il raddoppio. Da ultimo ci hanno provato ancora più o meno un anno fa, proprio nel bel mezzo della crisi economica che attanaglia le famiglie italiane e il tessuto economico.
Questo in breve è il quadro della situazione, molto difficile da sostenere sul versante sociale. E’ cosa nota che è in atto un allontanamento dalla politica, tanto che i sondaggi danno per assodato che i cittadini, andassero a votare domani, castigherebbero i partiti.
Proprio per questo, non è sufficiente che questa o quella sigla politica si offrano di rinunciare all’ultima parte del contributo. Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, in una recente intervista proprio a proposito del finanziamento pubblico ai partiti e della proposta di alcuni di essi di rinunciare all'ultima tranche, ha commentato: "Si fa un gran parlare di quest'ultima tranche di finanziamento, quasi 180 milioni di euro. Ci sono iniziative per congelarli, per devolverli. Ma se ci si limitasse a questo la reazione dei cittadini sarebbe: sono stati colti con le mani nel sacco e ora fanno un piccolo gesto.
Rinuncia dell’ultima trance del malloppo: un atteggiamento piuttosto spiacevole, in un clima che si è fatto più populista che mai. Perché è facile - anche se potrebbe diventare obbligatorio - pensare che la colpa sia del partito in se come realtà democratica prevista dalla Costituzione, non dei partiti attuali, anche perché è questa l’aria che si respira, è così che ce la raccontano.
Sono due cose differenti: il partito, come elemento democratico, è garanzia di partecipazione dei cittadini; i partiti attuali, con le loro sigle, i tesorieri, i faccendieri sono invece la degenerazione di questa funzione. E’ rischioso pensare che cancellare l’ex finanziamento pubblico ci porti verso orizzonti democratici migliori, come è impossibile sostenere questo andazzo. In tutti i sensi.
Intanto c’è chi alza i toni usando un linguaggio sempre più populista inneggiando ad una specie di Norimberga per il politici italiani: “Li accuso di aver portato il paese alla fame. Per questo dobbiamo fare un processo pubblico per fare in modo che riportino tutti i soldi che si sono mangiati, fino all’ultima lira”, parola del comico Beppe Grillo in un comizio elettorale nel Novarese. E ancora: "Ci stanno suicidando. Siete sicuri che se pagassimo tutti le tasse, questo Paese sarebbe governato meglio? Ruberebbero il doppio".
Queste le dichiarazioni recenti del comico genovese che i sondaggi danno sempre più nelle grazie degli italiani. Mettici la crisi economica, la delusione per la politica, qualche battuta da spettacolo comico ed ecco fatto. Sarà questo il nuovo che avanza e che dovrebbe salvarci dalle fauci dei partiti cannibali?
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di Fabrizio Casari
Tutti assolti. In spregio alla verità e alla decenza, gli esecutori, i depistatori e gli ispiratori della strage fascista di Brescia del 28 Maggio 1974, costata otto morti e cento feriti, sono stati giudicati non colpevoli dalla Corte d’Assise di Brescia. Se sul piano strettamente processuale la mole di testimonianze, documenti e indizi forniti possono non essere risultati sufficienti a determinare una condanna degli imputati, non c’è alcun dubbio sulla luce storica che il dibattimento ha offerto.
E se inutili si sono rivelate il milione di pagine con cui l’accusa ha chiesto giustizia processuale, non così è stato sotto il profilo della ricostruzione del contesto storico e delle responsabilità dirette e indirette dei protagonisti. Quel milione di pagine, secondo il presidente dell’associazione familiari delle vittime Manlio Milani, «hanno avuto il merito di far luce sulle ragioni dell’impunità e sui meccanismi del depistaggio» che hanno insabbiato le indagini.
Trentotto anni dopo, la bomba esplosa in Piazza della Loggia nel corso di una manifestazione sindacale contro il fascismo, è dunque, per il momento, incasellata nella storia giudiziaria italica come un crimine senza responsabili. Quei morti e quei feriti, solo una parte del tributo di sangue che la sinistra e i sindacati hanno pagato alla strategia della tensione, vengono così anche vilipesi ogni oltre ignominia. I familiari delle vittime di Brescia, per il consueto cinismo peloso imperante, vengono addirittura condannati al pagamento delle spese processuali. La colpa di chiedere verità e giustizia è colpa grave, da risarcire prontamente al muro di gomma.
Mentre quindi le vittime restano orfane di giustizia, gli autori della strage e i depistatori che s’incaricarono di garantirgli le coperture necessarie e di metterli al riparo dalle indagini, hanno dunque incassato quanto gli venne promesso: l’impunità. Fu infatti questa la garanzia principale che venne fornita a quanti, nel loro furore ideologico anticomunista, fecero quello che gli veniva chiesto di fare: la manovalanza criminale con la quale riempire di sangue e di paura il Paese, per farlo atterrire e arretrare. Pur considerando il margine d’iniziativa diretta del terrorismo fascista che insanguinò il paese lungo tutti gli anni ’70, sarebbe infatti limitato assegnare ad un manipolo di nostalgici criminali un livello di minaccia sulla democrazia italiana, che non potevano avere né per spessore strategico né per autonomia operativa.
I fascisti autori della strage di Brescia e di altre come l’Italicus, Piazza Fontana e la strage di Bologna, furono solo gli esecutori materiali di un progetto che ben altro respiro aveva e che da ben altri attori veniva determinato. Lungo gli anni sessanta e settanta erano stati addestrati, finanziati, coperti e sostenuti dai servizi italiani deviati, da quelli spagnoli del regime franchista, da quello dei colonnelli greci e dal Portogallo salazarista con il consenso degli Stati Uniti.
Quelle stragi continue avevano infatti un duplice scopo: fermare la mobilitazione crescente di studenti e lavoratori che contestavano i regimi democristiani e, contemporaneamente, mandare segnali precisi al PCI e ai sindacati sulla disponibilità da parte del potere di ricorrere alle più estreme conseguenze di fronte alla minaccia di essere ridotto a minoranza nelle urne e nelle piazze.
La strategia della tensione che attraversò l’Italia dal 1969 alla metà degli anni ’70, è stata l’aspetto più terribile della vicenda politica italiana. Nata per impedire che le lotte studentesche e operaie potessero produrre una crescente presa di coscienza nel paese e portare alla vittoria elettorale il PCI, si è avvalsa del contributo attivo di neofascisti, servizi segreti deviati ed apparati dello Stato associati nella fedeltà atlantica.
Garantire che quanto uscito dagli accordi di Yalta fosse immutabile; che l’Italia, crocevia fondamentale della relazione tra Europa e mondo arabo, potesse determinare - in ragione della presenza del più grande partito comunista dell’Occidente, di un sindacato radicato nei posti di lavoro e di una sinistra di classe particolarmente presente nelle scuole e nelle università - uno scollamento politico e militare dell’Italia dalla Nato e dagli Usa.
Lo scontro politico tra i blocchi attraversava tutta Europa e, disposto a perdere quanto era inevitabile perdere - i regimi fascisti di Spagna, Portogallo e Grecia, del resto ormai inutili allo scopo e impresentabili politicamente - il Patto Atlantico decise di dimostrare con il fuoco come l’Italia, per il suo ruolo geopolitico di assoluto valore strategico, fosse il punto di non ritorno, il luogo nel quale ogni regola democratica era subordinata in fatto e in diritto al permanere del dominio atlantico. Se nel '73 in Cile dovettero rimediare con il golpe alla vittoria di Unidad Popular di Salvador Allende, da noi decisero di agire preventivamente.
Per impedire un mutamento sostanziale di rotta dell’Italia e il contagio che in tutta Europa avrebbe prodotto, non sono stati lesinati sforzi, leciti e illeciti. Tentativi di colpi di Stato, finanziamenti enormi ed occulti da oltreoceano alle forze politiche che nascevano per dividere la sinistra (si pensi alla nascita del Psdi e a giornali, sindaca tini e fondazioni) e sostegno ai partiti della destra, bombe nelle piazze e nelle stazioni, omicidi politici e di giornalisti. Fu un patto politico criminale per tenere l’Italia lontano dalla sinistra e la sinistra lontano dal governo dell’Italia. Un giornalista come Ronchey coniò con il termine “Fattore K” il disegno politico e strategico che vedeva tutte le forze politiche italiane legate all’atlantismo impegnate ad impedire, con ogni mezzo, la vittoria della sinistra nelle urne. Ma il blocco politico del sistema andava ben oltre.
L’Italia ha subito quello che era previsto prima nella nascita di Gladio e poi anche nel cosiddetto “Piano di rinascita democratica” della P2 diretta formalmente da Licio Gelli. Un gigantesco piano di dominio politico, economico e militare, sostenuto da un gigantesco apparato di comunicazione, su un paese che non poteva aspirare a un’alternativa di regime e nemmeno ad una semplice alternanza del quadro politico.
Sull’altare dell’atlantismo indiscutibile, inoppugnabile, inevitabile, generazioni di italiani sono state così assediate dal clima di terrore, dalla paura di andare avanti nel processo di trasformazione del paese, dall’impossibilità di considerare le conquiste sociali come base per la successiva trasformazione politica del quadro istituzionale.
Alcuni dei commentatori parlano della sentenza sulla strage di Brescia come di un ennesimo scheletro nell’armadio della nostra democrazia, di un’ulteriore pedina del puzzle che compone la pagina nera dei misteri italiani. Ma a guardar bene di misterioso c’è poco: i dettagli operativi, la manovalanza e le coperture ai più alti livelli che la stagione dello stragismo ha imposto all’Italia hanno comunque matrice, scopi e responsabilità chiare.
Un'Opa criminale sulla democrazia italiana nota alla ricostruzione storico-politica, ma che avrebbe bisogno dell'apertura dei dossier secretati dallo Stato per poter essere ricondotta alla formulazione di responsabilità dirette, con sigle, nomi e cognomi.
Mentre vengono fuori al cinema strampalate ipotesi su Piazza Fontana, che altro non diventano se non l’ultimo capitolo dell’infinito libro sul depistaggio e la disinformazione sulla strategia della tensione, la verità storica continua quindi a battersi contro quella processuale. Il sistema assolve se stesso per quello che fu in previsione di ciò che potrebbe tornare ad essere. E non c’è bisogno di conferme togate: la notte della democrazia brilla di luce, a volerla vedere.
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di Rosa Ana De Santis
La stima ufficiale degli esodati è l’ennesima prova di forza della Ministra Fornero. Sarebbero 65.000 secondo il governo, mentre Cgil, Cisl e Uil e i partiti d’opposizione chiedono l’apertura di un tavolo per fare chiarezza sui numeri. “Cifre finte” denuncia la segreteria della Cgil, Susanna Camusso. Gli esodati sarebbero coloro che hanno accettato, prima del 31 dicembre 2011, di lasciare l’azienda anticipando i tempi, ma con la garanzia di avere la pensione entro due anni. La riforma della previdenza li ha lasciati a piedi e oggi il governo non ha le risorse per coprire questa categoria di cittadini: vittime dello spread, recita la farsa dei professori, o più onestamente delle riforme rapide salva- banche e salva- finanza.
Queste persone si ritrovano oggi senza assegno di pensione e con enormi difficoltà a ricollocarsi, causa anche l’età anagrafica. Il governo, che avrebbe la responsabilità di farsi carico di questo effetto collaterale, decide invece di cambiare le carte in tavola e di dare i numeri. Tutti diversi dalla fonte INPS, per avere un’idea. Non più di una settimana fa, infatti, è stato proprio Mauro Nori, presidente INPS, a parlare di 130 mila esodati. Anche se, secondo i sindacati, da questo totale sarebbero comunque tanti a rimanere tagliati fuori. Insomma, un numero approssimato per difetto nella sostanza delle ricadute sociali.
La denuncia dei sindacati è chiara: il governo non potrà coprire le proprie inadempienze per la copertura previdenziale di tutti gli esodati, cambiando le carte in tavola e declamando numeri falsi. Delle due l’una. O il governo dei professori non sa fare i conti o mente. Oppure è l’INPS che non sa farli. Il governo non ha fatto altro che un gioco di prestigio tagliando fuori dalla stima tutti coloro che hanno fatto accordi individuali o hanno fatto accordi prima del 2011 e hanno lasciato il lavoro dopo.
La mossa del governo rappresenta soprattutto una minaccia alla trasparenza e alla credibilità della politica e delle istituzioni, proprio in un momento in cui la vita reale delle persone viene toccata e stravolta a colpi di manovre bocconiane che, va ricordato, finora non hanno mosso un dito sul fronte della crescita, ma hanno prodotto candide operazioni di salvataggio per le banche e la ricchezza virtuale delle borse.
Sulle cifre irresponsabili almeno i sindacati sono tutti insieme e con loro la piazza della protesta che questa mattina ha bloccato Roma. Mentre il sindaco della Capitale invocava una “protesta statica” la piazza denunciava lo sfregio di una comunicazione politica artefatta e mistificatrice. Non c’è contraddizione, a volerla dire tutta, tra l’INPS e la professoressa Fornero, ma solo un diverso modo di leggere i numeri. Per la Fornero non sono esodati i potenziali lavoratori coinvolti nei prossimi quattro anni in procedure di mobilità, in esodi individuali incentivati e in altre categorie previste, ma solo quelli già cessati ed estromessi dai processi produttivi.
In piena coerenza con il ritratto di un governo che, aldilà degli annunci in pompa magna, ha la faccia rivolta all’indietro e non risolve nemmeno uno dei problemi del paese. Incapace di pensare all’economia si occupa solo di finanza e, non in grado di proporre uno scatto che non sia una nuova tassa sui ceti medi, anche per il mercato del lavoro balbetta cifre inventate, condite con l’isteria dei ministri narcisi, docenti di supponenza e basta par di capire. Nemmeno la grandine produce i danni di questa bislacca compagine, che non guarda a come dovremo crescere, né a coloro che rimarranno per strada. Non sono esodati e non sono ancora poveri. Oggi sono solo fantasmi. Non sono mica spread.
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di Carlo Musilli
Dicono di aver fatto "pulizia", ma la maggior parte della sporcizia padana è ancora sotto il tappeto. Dopo lo scandalo dei rimborsi elettorali usati come cassa comune - su cui indagano tre procure - ieri il consiglio federale della Lega ha espulso dal partito Rosy Mauro e l'ex tesoriere Francesco Belsito. Nessun provvedimento, invece, contro Renzo Bossi: le sue dimissioni da consigliere regionale della Lombardia sono state ritenute un'ammenda sufficiente.
In questo si è risolta l'opera di rinnovamento che Roberto Maroni aveva annunciato con roboante retorica martedì sera dal palco di Bergamo. Davvero poco per essere anche minimamente credibile. Le ramazze celtiche hanno spazzato via soltanto i due soggetti che meglio degli altri si prestavano a fare da capro espiatorio. I due più odiati dalla base, tanto più che non si tratta nemmeno di padani doc (Belsito è ligure, Mauro addirittura una "terrona" pugliese).
Il gota del Carroccio non ha avuto nemmeno il coraggio di cacciare con disonore il Trota, che pure ha fatto di tutto per meritare l'esilio perpetuo dai verdi pascoli leghisti. L'Italia intera ha visto in televisione lo sprovveduto figlio del Capo intascare una squallida mazzetta dalle mani del suo autista. Ma non è stato sufficiente. Evidentemente, le regole del nepotismo rimangono valide anche di fronte alla miseria più manifesta.
In realtà, che quella dei leghisti non sarebbe stata una vera "pulizia" - come amano chiamarla - lo si era capito già dall'arringa bergamasca di Maroni. Da giorni l'astuto Bobo cerca di costruire intorno a Bossi senior l'immagine del vecchio infermo traviato dai suoi stessi cari.
La favoletta risponde a un evidente calcolo politico: per impugnare il manubrio del Carroccio e avere una qualche speranza di tenere insieme un partito ridotto a brandelli, Maroni non deve arrivare allo scontro frontale col Senatùr, che per vent'anni è stato il simbolo vivente dell'intera baracca. Umberto è già sconfitto, ora è sufficiente che si eclissi lentamente, senza dare troppo fastidio. Gli viene data l'occasione di andarsene come il Cesare padano tradito all'ultimo dai fedelissimi.
Peccato che contro questa visione dei fatti esista una vera orgia di prove. A cominciare dalla sinistra cartellina con la scritta "The Family" sequestrata dagli investigatori nell'ufficio di Belsito. Al suo interno c'era un carnet di assegni con impresso a chiare lettere il nome "Umberto Bossi". Sono state ritrovate perfino delle ricevute. Ma non basta. In una telefonata intercettata l'ex tesoriere sostiene che il Senatùr e l'ex ministro Giulio Tremonti erano assolutamente d'accordo con l'esportazione dei capitali leghisti in Tanzania.
E' ovvio che saranno i magistrati a stabilire chi siano i colpevoli in tutta questa vicenda. Ma è davvero sostenibile che Bossi, e insieme a lui tutti i vertici della Lega, non sapessero nulla di come venivano gestiti i soldi del partito? Certo che no. Tanto è vero che la Procura di Milano sta compiendo degli accertamenti anche sulla posizione di Roberto Calderoli, oggi uno dei triumviri alla guida del Carroccio. Intanto, dall'altro capo della penisola, i Pm di Reggio Calabria - in relazione all'intercettazione di una telefonata fra Belsito e l'imprenditore Stefano Bonet - parlano addirittura di un "sistema contaminato di malaffare a cui si alimentavano poteri istituzionali, politici e dell'economia". Altro che Rosy "la Nera" e il panciuto genovese.
E' su questo filo sottilissimo fatto di bugie, ingenuità e populismo che si tiene in piedi la credibilità di Maroni. Fin qui, bisogna dirlo, quella di Bobo è stata una vittoria politica su tutta la linea. Martedì sera l'ex ministro degli Interni si era esposto enormemente sulla questione della "badante" Mauro: "Se non si dimette, la dimetteremo noi", aveva detto.
Dopo quelle parole qualsiasi soluzione diversa dall'espulsione avrebbe irrimediabilmente compromesso sul nascere la leadership di Maroni. Alla fine la radiazione è arrivata, ma non per le accuse mosse dai magistrati, bensì perché "la Nera" non ha obbedito all'ordine di abbandonare la poltrona di vice presidente del Senato. Viene da chiedersi come sarebbe andata a finire se Rosy avesse seguito l'esempio più avveduto del Trota.
Sembra addirittura che durante la riunione di ieri, per mantenere la promessa fatta alla base, Maroni abbia messo i suoi colleghi di fronte a un aut-aut: o me, o lei. Ha giocato con aggressività, ha vinto e ormai è certo di essere nominato segretario. La corona gli sarà posta sul capo dopo il 30 giugno, data in cui si terrà un nuovo consiglio federale. I militanti sono già pronti ad acclamare il nuovo sovrano. Sempre che nel frattempo non gli capiti di leggere un giornale e di fare due più due.
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di Mariavittoria Orsolato
La cuccagna del digitale è finita: niente più frequenze gratuite per le emittenti televisive e soprattutto niente più beauty contest. Lo ha annunciato ieri a Repubblica il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, sottolineando che i multiplex per la trasmissione in digitale andranno all'asta e saranno venduti a pacchetto. Finalmente al migliore offerente e non ai soliti noti.
Una notizia che non giunge del tutto inaspettata. Lo scorso dicembre, a ridosso dell'insediamento del nuovo governo tecnico, la Femi (Federazione dei media digitali indipendenti) ed Altroconsumo avevano mandato una lettera di diffida proprio a Passera, ricordandogli che il sistema dell'asta avrebbe fruttato alle casse statali diversi miliardi di euro. La diffida - predisposta dagli avvocati Guido Scorza, Carmelo Giurdanella, Elio Guarnaccia, Dario Reccia e Francesca Bilardo - era stata notificata anche alla Commissione Europea, all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, all’Autorità Garante della concorrenza e del Mercato ed all’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici, invitandole ad esercitare i poteri di controllo e di vigilanza di propria competenza.
Cosi, a nove giorni dalla scadenza della “pausa di riflessione” che il governo Monti si era preso per esaminare il meccanismo d'assegnazione escogitato pro domo Berlusconi, Passera si è infine deciso a decretare la morte del beauty contest, individuando il percorso per assegnare i multiplex di frequenza. ''La prossima asta - spiega - sarà fatta di pacchetti di frequenze con durate verosimilmente diverse'' e una delle ipotesi è che la banda larga 700 (2 o 3 multiplex dei 6 totali in palio) venga aggiudicata per un periodo di tre anni, da qui al 2015, quando è previsto lo spostamento di reti dalle tv all'accesso a Internet. Il resto dei multiplex dovrebbe poi essere assegnato per un periodo più lungo a imprese puramente televisive.
La nuova linea decisa dall'esecutivo Monti dovrà passare il vaglio dei partiti ma dal momento che già a dicembre Partito Democratico, Italia dei Valori e Lega Nord avevano presentato ordini del giorno alla manovra presentati che chiedevano esplicitamente di annullare il beauty contest indetto dal precedente esecutivo (e avallato dall'Agcom), l'unico vero ostacolo alle Camere potrebbe essere rappresentato dal Pdl di Berlusconi.
Con la svolta decisa da Passera, il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri pensa già a contrattare la diminuzione del canone per le frequenze che, sulla base del fatturato, costa all’azienda 32 milioni l’anno. Mediaset chiede infatti un cambiamento dei relativi criteri di calcolo e non è escluso che possa partecipare all’asta della banda larga, arrivando così a un risparmio di 96 milioni di euro in 3 anni. Se questa sarà l'ennesimo esempio di do ut des all'italiana, ce lo diranno il tempo e le votazioni alle Camere.
A dare il via libera definitivo al nuovo corso saranno comunque le autorità europee: dall'annosa querelle tra Rete4 e Europa7, Bruxelles tiene d'occhio il mercato televisivo nostrano e ribadisce a suon di multe la necessità di intervenire in direzione di una maggiore concorrenza. Già oggi il commissario per l'Agenda Digitale Neelie Kroes sarà a Roma per discutere delle nuove strategie coi ministri Profumo e Passera, e avrà sicuramente modo per dire la sua sulla nuova procedura di assegnazione. Anche in materia di telecomunicazioni, dunque, il suggello dell'Unione Europea è condizione necessaria per procedere.
Per quanto riguarda i tempi, si parla di prima dell'estate, per ciò che concerne la definizione delle caratteristiche dell'asta da parte dell'Autorità competente. Secondo Mediobanca, nelle casse dello Stato potrebbero entrare 1-1,2 miliardi di euro, mentre le stime precedenti si aggiravano intorno ai 2,4 miliardi.
A fare la differenza sarà sicuramente la base d'asta. Altra variabile interessante è la partecipazione di Sky: la pay tv si era chiamata fuori dal beauty contest, lamentando una gestione poco chiara della faccenda, ma giunti a questo punto il network di Murdoch potrebbe rientrare in gioco.
L'odissea delle frequenze tv pare dunque essere giunta al suo tanto sospirato epilogo. La vecchia procedura del beauty contest - un regalo da quasi due miliardi di euro che l'arbitro Berlusconi ha deciso di elargire a se stesso poco prima dell'allontanamento coatto dal palazzo e in barba al disperato bisogno di liquidità delle casse statali - può definirsi definitivamente archiviata.