di Fabrizio Casari

Dismessi i toni sobri, abbandonato l’aplomb e tolto il loden, il premier sembra aver indossato l’elmetto. Probabilmente conscio che la sua luna di miele con gli italiani è finita e che solo i gruppi finanziari amici (con i giornali che controllano) restano a cantarne le lodi, il professore ha deciso di scendere ormai quotidianamente in campo con invettive, minacce e considerazioni che fanno emergere con chiarezza il delirio autoritario che ormai lo attanaglia.

E’ di due giorni fa l’affermazione ultima, che addebita ad un eccesso di concertazione i problemi dell’arretramento cronico dell’Italia. E’ quindi certamente in errore - questa la lezione del professore - chi pensa che lo sviluppo diseguale, la burocrazia ampliata a dismisura e utilizzata come ammortizzatore sociale, una classe imprenditoriale incapace e assistita e favorita dai finanziamenti pubblici, una spesa pubblica fuori controllo e una classe politica ad alta voracità, insieme alla mancanza di investimenti in innovazione, ricerca e riconversione ambientale siano le cause dell’arretramento italiano.

Ancor più è in errore chi crede che le lobbies di ogni fede siano come un polipo i cui tentacoli ghermiscono la sfera pubblica e privata del mondo del lavoro e una legislazione frutto di equilibri al ribasso con i poteri forti siano le prime cause dell’arretratezza culturale del Paese. Adesso sì che le cose sono chiare: troppa concertazione tiene indietro l’Italia; un’idea bizzarra  e sbagliata, dunque, quella della relazione e della mediazione tra gli interessi dei diversi attori e delle diverse classi che popolano la società italiana. Il comando d'impresa è la strada maestra.

Il professore nominato dall’alto (condizione di tutta la sua storia professionale, scandita dalle amicizie giuste e dalle giuste devozioni) a forza di rincorrere convegni internazionali di circoli di miliardari e templi delle banche si è fatto prendere la mano. La quadratura del cerchio montiana si può riassumere nella subordinazione della politica all'economia, che significa, declinata oggi, la direzione politica dei paesi in mano alla finanza e ai gruppi bancari che la dominano. La sua idea di democrazia è grosso modo quella che vede il censo come alfa e omega delle regole sociali, ma nulla ha a che vedere con la democrazia moderna in ogni sua declinazione.

Ha ragione da vendere la leader della Cgil, Susanna Camusso, quando ricorda al professore che l’ultima concertazione in Italia risale al 1993. Monti non ce la fa a intendere che proprio la capacità di garantire la concertazione tra le parti sociali è, insieme alla rappresentanza elettorale delle opinioni politiche, la quinta essenza della democrazia. Non a caso il consenso lo si deve ottenere e, come gli ricorda Camusso, essere nominato solo nelle stanze dei poteri forti non consente poter fornire lezioni di democrazia a chi viene eletto regolarmente.

Critiche ancora più dure arrivano da Niki Vendola: "Quando si dice che bisogna superare la concertazione da parte di un governo fatto di tecnici e voluto da un Parlamento di nominati, siamo veramente a una separazione dalla democrazia che è drammatica". La democrazia non è una malattia, ma una medicina, è la tecnocrazia che rischia di essere una malattia". E non va certo per il sottile Stefano Fassina: “Il governo Monti ci sta avvitando in una involuzione economica e anche democratica” ha detto infatti il responsabile economico del PD, commentando l’infelice uscita del professore.

E’ ormai da qualche giorno che il professore pare aver perso le staffe. In quest’ultima settimana Monti si è sostanzialmente dedicato a ricordare come l’Italia sia ancora nella fase di sopravvivenza grazie al suo lavoro (ha intinto le parole nel fiele circa il vertice di Novembre 2011 dove Berlusconi “venne umiliato”). Il suo malumore viene dall’aver preso atto che il convincimento della sua insostituibilità però è solo suo e che invece anche la sua ultima manovra, pomposamente definita spending review (ma che in realtà è solo un concentrato di tagli orizzontali e scriteriati, con l’unica precauzione nel non toccare i privilegi dei suoi referenti), non incontra il consenso delle parti sociali e trova invece il malumore crescente dei partiti che dovrebbero votarla.

D’altra parte, se il confronto con il paese è escluso, anche quello con il Parlamento non è granché, dato che è dovuto ricorrere ben 29 volte al voto di fiducia in pochi mesi, vista l’impossibilità di affrontare il dibattito parlamentare benché sostenuto dalla quasi totalità dei partiti.

Le dichiarazioni con cui Monti continua a provocare il Parlamento e il paese sono ormai a getto continuo. Emerge con forza il dispetto di quest’uomo collerico e intollerante ad ogni forma di critica che lancia fendenti in ogni direzione. Ogni rialzo dello spread, ogni declassamento ad opera dei suoi colleghi nelle agenzie di rating e ogni statistica che racconta impietosa lo stato di recessione e depressione economica in cui ormai versa l'Italia è sempre colpa di qualcuno che non é lui: di volta in volta i sindacati, Confindustria, i politici. Insomma: lui sarebbe la salvezza, peccato che questa democrazia troppo concertativa permette ad altri di esprimersi. E’ la strategia della disperazione per via mediatica, il tentativo di porre ogni giorno sotto ricatto l’intero paese che ha l’ardire di non obbedirgli a comando, che non ne coglie la grandezza epocale.

Ci si dovrebbe chiedere cosa spinge un uomo come Monti a tentare di offrire ogni giorno bacchettate a chiunque si permette di osservare dubbi sulle performances governative. Probabilmente ciò si deve alla consapevolezza della fine della sua luna di miele con il paese. E’ abbastanza facile riscontrare infatti che ormai vi sia convincimento generalizzato: la guidance economica del professore, per quanto dotata di maggiore credibilità internazionale rispetto al suo predecessore, non ha risolto affatto i problemi del paese ed ha invece spinto l’Italia nel vortice della depressione economica.

I numeri impietosi, più che le polemiche, raccontano il fallimento del governo. Dunque, l’inevitabile domanda: otto mesi dopo il suo insediamento, l’economia italiana sta meglio o peggio? Le sue prospettive sono migliori o peggiori? E la democrazia del Paese è maggiore o minore? Insomma, dagli esodati alla riforma del lavoro, alla spending review, la sensazione che i tecnici siano pasticcioni e incompetenti e che il campione sia in realtà un bidone, si fa strada.

Ad adombrare il professore c’è poi il difficile rapporto con i partiti, nessuno escluso: sarà anche vero che l’odore della campagna elettorale comincia a diffondersi e sarà anche comprensibile che chi deve chiedere il consenso agli elettori sia preoccupato di votare provvedimenti che mettono ulteriormente in difficoltà alcuni milioni di persone, ma il fatto è che la possibilità di proseguire con lui e con la sua agenda è ormai considerato un suicidio assistito dai partiti che dovranno presentarsi agli elettori (fa eccezione la corrente democristiana del PD che agisce come cavallo di Troja dell'UDC a Via del Nazareno, ma la spiegazione é semplice: la banda Letta-Fioroni-Gentiloni e frattaglie ha come scopo immediato impedire che Bersani sia il nuovo Presidente del Consiglio).

Il professore così, da risorsa della repubblica rischia ora di essere percepito come colui che piccona ogni lembo di stato sociale e di civiltà giuridica del lavoro senza che poi nemmeno la speculazione finanziaria risulti acquietata e sembra proprio che il dispositivo per la fine del suo mandato sia stato impostato per il prossimo ottobre.

Monti l’altro ieri, nel ricordare che non si ricandiderà (ma omettendo di dire che nessuno glielo propone) ha ricordato che non abbandonerà la politica perché senatore a vita ( e a vitalizio, soprattutto). L’intenzione è quella di proporsi comunque per il dopo Napolitano e di arrivare al Quirinale spinto dal centro-destra e sfidando il centro-sinistra dal remargli contro.

In questo senso è rimasto infastidito dalla ricandidatura di Berlusconi e dalle critiche di Confindustria, Confcommercio e sindacati. Ma il giro dell’orologio è comunque iniziato e le lancette non vanno oltre il prossimo ottobre. E non si arriva sul Colle se si ha il paese contro. Se ne faccia una ragione.

 

di Mariavittoria Orsolato

Il quotidiano francese Le Figaro lo annuncia, l'agenzia Ansa lo rilancia: il progetto della Torino-Lione potrebbe saltare per volontà dei francesi. I costi improponibili, le numerose esternalità negative e l'obiettiva inutilità dell'opera in termini operativi sono, oltre che le ragioni gridate a gran voce dai No Tav, le motivazioni stringenti che il governo francese starebbe vagliando in visione di una spending review degna di tale nome.

La Francia intende infatti riesaminare ed eventualmente rinunciare a dieci progetti di linee ferroviarie ad alta velocità - tra cui appunto la Torino-Lione - in virtù degli alti costi, stimati in circa 260 miliardi di euro, diventati insostenibili a causa della crisi economica che lambisce anche i cugini d'oltralpe.

Per questo, ha spiegato il ministro del bilancio Jerome Cahuzac, una commissione composta da parlamentari ed esperti verrà istituita per classificare le linee TGV in base alle priorità entro la fine dell'anno, quando il governo di François Holland dovrà scegliere i collegamenti a cui rinunciare. A essere fatte fuori, spiega il giornale francese, saranno con tutta probabilità le linee più costose e non ancora iniziate: l'investimento per la Torino-Lione è di 12 miliardi di euro e, grazie anche all'opposizione in Valsusa, da entrambi i lati delle Alpi gli scavi non sono ancora cominciati.

La conferma che la tratta italo-francese non si farà è dunque quasi scontata. L'irrinunciabilità dell'opera era fondata sull'aumento del traffico commerciale sulla tratta ma, stando ai dati aggiornati al 2010, solo al traforo del Frejus il traffico merci della ferrovia esistente é sceso nel 2009 a 2,4 milioni di tonnellate, poco più di un decimo del traffico dei 20 milioni di tonnellate previsti all’origine del progetto.

Dati assolutamente arbitrari e fantasiosi che i No Tav hanno meritoriamente contribuito a sbugiardare e a rendere evidenti all'opinione pubblica in vent'anni di lotte. Nonostante la stampa mainstream li accusasse di essere terroristi e la polizia e la magistratura li trattassero di conseguenza: giusto un paio di giorni fa, Marianna, un'attivista No Tav, è stata condannata a scontare 8 mesi e tra i 26 incarcerati lo scorso gennaio, almeno la metà sono rimasti in regime di isolamento nonostante i procedimenti giudiziari non fossero ancora iniziati.

Ora, dunque, a meno che Hollande il suo gabinetto non siano un covo altrettanto pericoloso di facinorosi terroristi, la nostra politica dovrebbe ammettere di aver sbagliato e porgere tante scuse a quanti si sono sempre opposti alla Tav. Il primo a fare ammenda dovrebbe essere il Partito Democratico, così abbarbicato al progetto di ingrassare una delle sue coop - la CMC di Ravenna che si è aggiudicata l'appalto sullo scavo del tunnel di Chiomonte - da espellere in blocco dal partito quanti, in Piemonte e non, hanno dato pubblicamente appoggio alla resistenza valsusina ribellandosi alla nomenklatura.

A seguire, le scuse dovrebbero arrivare dal premier Monti che, dall'alto del suo sapere tecnico, ha sempre e ufficialmente confermato di voler portare avanti un progetto deleterio per le casse statali e per l'ambiente valsusino. Così come dovrebbe scusarsi anche il ministro Annamaria Cancellieri, quella per cui la Tav era “la madre di tutte le preoccupazioni”, che ha continuato ostinata la politica repressiva dei precedenti governi, confermando la zona di interesse strategico nazionale e le migliaia di uomini delle forze dell'ordine a presidiarlo a suon di lacrimogeni e manganellate.

Quanto al Pdl e ai partiti delle sue maggioranze, da sempre in prima linea con i Si Tav, dovrebbero riconoscere i propri errori e convenire sul fatto che la Torino-Lione sarà un aborto alla stregua del ponte sullo stretto e di tutte le “grandi opere” millantate dei governi Berlusconi. Ma sappiamo già che non sarà così.

L’ufficializzazione della decisione francese di abbandonare la Tgv Turin-Lyon sarà quindi il colpo di grazia per un progetto nato male e abortito peggio. Un progetto inverosimile fin dall’origine e molto difficilmente percorribile, che solo numeri e referti truccati ad hoc avevano reso plausibile, ma che, nonostante tutto, ha avuto il sostegno ostinato e cieco dei maggiori partiti del paese e di buona parte dell'opinione pubblica indottrinata da media compiacenti.

Ci sono voluti venti anni di battaglie legali, due morti avvenute - quelle di Baleno e Sole - e una scampata miracolosamente – quella di Luca Abbà - ci sono voluti migliaia di candelotti di CS fuorilegge e altrettante botte da parte della polizia, ci sono volute le barricate sull'autostrada e un numero spropositato di arresti arbitrari.

Ma, a meno che non si inventino una linea ad alta velocità tra Torino e Bardonecchia, alla fine la Tav non si farà. La Valsusa sarà quindi probabilmente salva dalla lunga mano della speculazione eppure l'Italia avrà ancora bisogno dei No Tav, della loro resistenza tenace ma garbata, del loro amore incondizionato per il territorio e soprattutto del loro strenuo perseguire i veri interessi della popolazione: il paese ha ancora troppi macroscopici problemi e, se è vero che il potere è intrinsecamente criminale, allora l'Italia necessita di cittadini che come i No Tav ne sorveglino ogni mossa e lo contrastino con la verità.

 

di Fabrizio Casari

Macelleria sociale. Così è stata definita la manovra finanziaria di spending review del governo, che prevede 24.000 esuberi, in una penosa replica delle manovre greche. E ad aggettivarla come macelleria sociale non sono soltanto i sindacati o le organizzazioni della sinistra radicale e del sindacalismo di base, bensì Confindustria, nella persona del suo presidente Giorgio Squinzi, che già nel recente passato aveva definito “una grande boiata” la riforma del mercato del lavoro e che ora dichiara di ritenere il governo Monti meritorio di un voto insufficiente. Monti, da parte sua, infuriato risponde che “con simili dichiarazioni sale lo spread”. Montezemolo ha criticato duramente Squinzi, ma questo attiene soprattutto a questioni di rivalità interna a Viale dell'Astronomia.

Notoriamente poco disponibile ad ascoltare giudizi non incensatori, il Premier dimentica però che per far stare lo spread sulla soglia dell’abisso basta il suo operato. Le forze politiche, impegnate nel vassallaggio parlamentare, intervengono per dare ragione a l’uno o all’altro, ma certo è che una polemica con questi accenti non ha precedenti nel teatrino italiano.

Non si deve pensare, però, ad una improvvisa quanto impossibile riconversione “sociale” nella lettura delle operazioni governative da parte dell’organismo di rappresentanza del mondo industriale. La critica netta, senza appello, a Monti e alla sua manovra di tagli, viene invece dalla lettura del testo del provvedimento sulla spending review e del contesto socio-economico nel quale l’accetta governativa rotea sul collo dell’Italia.

Rappresenta una bocciatura severa dell’insieme delle politiche di Monti ed un segno di forte preoccupazione per la deriva del Paese guidato da una combriccola di incompetenti che, come Tremonti, tagliano orizzontalmente senza criterio alcuno in ordine alle necessità del paese ma unicamente per apparire come gli “uomini forti” del risanamento. Più vanità che competenza, insomma.

Nelle parole di Giorgio Squinzi, come in quelle di Susanna Camusso, emerge infatti una valutazione fortemente negativa sull’effettiva capacità di cura del sistema Italia da parte del governo Monti. Perché al netto della propaganda di regime, il quadro è chiaro: dopo nove mesi di governo Monti l’Italia è a pezzi. Lo spread nel rendimento dei titoli di stato è ai livelli di quando la compagine di professorini si è insediata a Palazzo Chigi, mentre la spesa pubblica è aumentata e le condizioni generali del paese sono fortemente peggiorate.

L’innalzamento del tasso di disoccupazione, l’aumento dell’imposizione fiscale giunta a livelli non tollerabili e l’aggravio pesante delle capacità di spesa per le famiglie, ha portato l’Italia nel pieno della recessione economica, mentre l’ingiustizia palese dei provvedimenti adottati (come si fa a dire che la mobilità obbligatoria per il 10% degli statali migliori le entrate e rifiutarsi nel contempo un decreto per l’innalzamento del prelievo sulle pensioni d’oro dei dirigenti generali? ndr) ha ulteriormente allargato il divario tra cittadini e politica, generando un ulteriore aumento dei fenomeni di scollamento tra società e istituzioni, già messo a durissima prova dal governo Berlusconi.

L’allarme di Confindustria e sindacato segue la constatazione che il governo Monti ha peggiorato sensibilmente il quadro socio-economico dell’Italia, per non aver mai pensato seriamente a politiche economiche destinate a stimolare la ripresa e far ripartire la crescita è risultato il peggior incentivatore del pessimismo dei mercati.

In un processo ormai patologico di autoavvitamento sulle misure finanziarie senza criterio (dannose, prima che inutili visto il contesto speculativo al centro del quale l’Italia si trova) le scelte governative si sono articolate sull’unica volontà di piegare i sindacati e abbassare oltre ogni soglia possibile i livelli della spesa sociale, intaccando alla radice i meccanismi di tutela sociale necessari a salvaguardare in fasi economiche depressive coloro i quali sono sprovvisti di strumenti di sopravvivenza.

Una idiozia in generale che oggi, in questa fase di attacco speculativo, diventa un’idiozia criminale, giacché in luogo di predisporre meccanismi di tutela dalla speculazione finanziaria e di valorizzare le peculiarità dell’economia italiana (possediamo in capitale privato 8 volte l’ammontare intero del debito e lo stesso debito è detenuto all’80 per cento da italiani) Monti pensa di azzerare o quasi il sistema di welfare, già tra i meno costosi in Europa nel rapporto tra spesa sociale e PIL.

di Mariavittoria Orsolato

A 11 anni da quella terribile notte, la giustizia italiana ha messo la parola fine sulla vicenda del sanguinoso blitz alla scuola Diaz. Ieri sera la quinta sezione penale della Cassazione ha confermato in via definitiva le condanne per falso aggravato inflitte agli alti funzionari di polizia coinvolti nelle violenze contro i manifestanti accampati nell'istituto messo a disposizione dal comune di Genova.

Convalidata la condanna a 4 anni per Francesco Gratteri, attuale capo del dipartimento centrale anticrimine della Polizia; convalidati anche i 4 anni per Giovanni Luperi, vicedirettore Ucigos ai tempi del G8, oggi capo del reparto analisi dell'Aisi. Tre anni e 8 mesi a Gilberto Caldarozzi, attuale capo servizio centrale operativo. Convalidata anche la condanna a 5 anni per Vincenzo Canterini, ex dirigente del reparto mobile di Roma. Prescritti, invece, i reati di lesioni gravi contestati a nove agenti appartenenti al settimo nucleo speciale della Mobile.

Tra prescrizione e indulto le condanne non saranno dunque detentive, ma per i funzionari questo potrebbe significare l’immediata decadenza da incarichi e la sospensione dal servizio, dal momento che, per ciascuno dei 25 imputati, è stata applicata la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Ma è davvero possibile cantare vittoria?

In molti hanno atteso ed accolto la sentenza della Cassazione come la liberatoria conclusione di un processo durato fin troppo tempo: la giustizia ha stabilito che la notte del 21 luglio 2001 alcuni uomini delle forze dell'ordine piazzarono false molotov, molti altri si accanirono violentemente contro persone inermi mentre altri ancora cominciarono a tessere una fitta rete di menzogne per insabbiare il tutto.

Una verità storica che ora, redatta e protocollata, stabilisce la veridicità di quanto i manifestanti denunciarono immediatamente a ridosso del blitz. Peccato che questa verità arrivi dopo 11 anni e peccato che, a testimoniare le ragioni di quelli che tutti chiamarono indistinatmente “black bloc”, ci siano tonnellate di materiale girato in presa diretta che confermano la cieca brutalità di quanto avvenuto quella notte.

C'era dunque davvero bisogno di una sentenza di terzo grado per affermare storicamente che alla Diaz fu un massacro gratuito, un abuso di potere intollerabile? Serviva una punizione. Una punizione esemplare, dal momento che si tratta di alti papaveri delle forze dell'ordine. L'allontanamento dal proprio incarico - per quanto favorevolmente accolto dall'opinione pubblica - ha comunque durata transitoria: un lustro appena e i 25 pubblici ufficiali riconosciuti colpevoli di lesioni e falso aggravato torneranno tranquillamente al loro posto, con il loro stipendio, le loro ferie pagate, il loro manganello.

Per quella che Amnesty International ha definito “la più grave sospensione dei diritti umani dopo la seconda guerra mondiale”, questa lievissima pena non può e non deve bastare. Soprattutto se si pensa al fatto che, la prossima settimana, 100 anni di carcere rischiano di essere comminati a 10 persone accusate di aver rotto delle vetrine nei giorni del G8 o di aver “compartecipato psichicamente” (sic!) a queste azioni. La sproporzione è più che evidente e basterebbe soltanto un po' di buon senso per archiviare il procedimento, con tante scuse agli imputati. Ma probabilmente le cose non andranno in questo verso.

“Don't clean up this blood” scrisse sui muri insanguinati della Diaz un'anonima mano inorridita da tanta brutalità, eppure questo sangue sembra continui a voler essere lavato via. Da una giustizia istituzionale mite nelle pene e furbescamente lenta e miope nei procedimenti. Dalle promozioni date ai responsabili di quella che lo stesso Michelangelo Furnier, vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, definì “macelleria messicana”. Dal fatto che quella politica che siede ora in parlamento è la stessa che in 11 anni non è mai riuscita a mettere assieme una commissione d'inchiesta parlamentare.

Se è vero però che la storia siamo noi, allora le macchie di sangue della Diaz devono essere come quella del fantasma di Canterville e ritornare puntuali, dopo ogni tentativo di lavaggio, a ricordare la colpa di chi le ha causate.

Un pugno di magistrati dalla schiena dritta, ha saputo per una volta imporre la terzietà di giudizio ed il rifiuto dell’obbedienza dovuta e dell’omissione consueta. Ma queste condanne non bastano. Le responsabilità politiche del governo Berlusconi da poco insediato e quelle di chi, in parlamento, ha sempre rifiutato la possibilità di una commissione parlamentare d’inchiesta su quanto avvenuto a Genova, sono state le due gambe sulla quali si è retta la violazione della democrazia.

Duecento poliziotti protagonisti della mattanza, riparatisi con i caschi e i fazzoletti per non farsi riconoscere, sono solo la parte pubblica di chi, da dietro le quinte, diede indicazioni precise per quelle ore di macelleria. Quando costoro saranno chiamati a rispondere di quanto ordito, allora e solo allora si potrà dire che giustizia è fatta.

 

di Rosa Ana De Santis

Mentre il sindaco di Firenze ha convocato circa mille amministratori locali al Palacongressi di Firenze, a Roma il segretario Bersani ha convocato i presidenti dei circoli del PD. Segno che il partito dei democratici tenta strenuamente di rimanere in vita e di attrezzarsi per le prossime elezioni, tardi o presto che sia. Dopo il saluto affettuoso a Bersani e la rassicurazioni di lealtà al partito, il giovane rottamatore non annuncia, come tutti si aspettano, la sua candidatura ufficiale alle primarie, ma - per dirla tutta - ci gira intorno.

Ne fa tutta una questione di regole e formalità, come già aveva spiegato nel colloquio televisivo con Lucia Annunziata. Prima vuole accertarsi di come saranno organizzate, si dice contrario al vincolo della pre-iscrizione al PD: una condizione che sembra cucita addosso a lui che, poco amato dal partito e per sua stessa ammissione “imbrigliato” a fatica nell’ortodossia dei burocrati, è invece vincente in tv e abilissimo a cavalcare il malcontento, comprese le ragioni più popolari e populiste dell’antipolitica. Tutto quello che lo fa corteggiare a destra, lo ha reso simpatico a Berlusconi, e lo rende poco amato nella sua area  politico-culturale di riferimento.

Bisogno di cambiare, nuova politica, nuovo modo di intendere il partito: sono questi i temi guida che ispirano i giovani a Firenze e su cui ingaggeranno la loro partita dentro le primarie al partito. E’ questa tutta la forza e insieme la più grande debolezza di Renzi e della sua corrente.

Abilità nel decostruire il partito, nell’analisi spietata delle sue debolezze e penuria di argomenti nella proposte di ricostruzione o di rifondazione. Tanto che tutto al dunque si risolve in una sfida generazionale tra giovani e vecchi. Un po’ troppo poco per convincere  a votare qualcuno dei mille radunati a Firenze e soprattutto un po’ troppo facile per chi invece, con un po’ di storia alle spalle, nella politica vuole vedere saggezza ed esperienza invece di freschezza, eloquio giovanilistico e maniche di camicie arrotolate.

“Libertà, gentilezza e onore” sono le tre parole del Nobel Aung San Su Ki dentro le quali Renzi annuncia le sfide che, secondo lui, dovrà affrontare il PD. Intercettare il voto dei delusi, anche quelli del centro–destra e riconquistare il voto di protesta momentaneamente indirizzato  a Grillo. Quasi del tutto assente lo sguardo al partito, a come ripensarlo e ricostruirlo dal di dentro. Renzi è già, in tutto e per tutto, un’alternativa al PD e non una sua corrente.

La dialettica e il conflitto dentro a un partito non possono essere gestiti aprendo il vaso di Pandora davanti agli elettori, quasi lasciando a loro l’onere della decisione. Nel partito si lavora alle mediazioni, ma criticarlo aspramente a casa propria, dalla roccaforte fiorentina,  equivale ad averlo già superato senza avere il coraggio di correre da soli. Perché i numeri, aldilà del successo televisivo, senza il nome (Pd o Pdl che sia) non ci sono ancora.

 


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