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di Fabrizio Casari
Quando ci sono programmi e proposte, di solito il confronto o lo scontro politico emergono. Quando c’è il nulla, è la polemica a farla da padrona. Infatti, solo due giorni orsono, Pierfurby Casini, preso atto che Niki Vendola si presenterà candidato alle primarie del PD, sancendo così anche formalmente l’alleanza di Sel con il PD alle prossime elezioni, si è detto “inorridito” all’idea che Vendola possa governare il paese, attività per la quale “non è adatto”.
Bersani, dal canto suo, gli ha ricordato come di inorridimenti lui dev’essere un esperto, avendo co-governato per anni con Berlusconi. La si potrebbe definire una reazione scomposta quella del leader centrista, che pure normalmente usa un linguaggio sobrio. Tanto nervosismo è dunque da capire.
Il punto è che Casini si rende perfettamente conto che una campagna elettorale, per quanto la si provi a depotenziare, non può divenire solo un appuntamento formale, un esercizio di democrazia dovuta e nient’altro perché, comunque, Monti governava e Monti dovrà governare, vinca chi vinca e perda chi perda. E’ vero che il giochetto è riuscito nello scorso autunno, cioè un governo tecnico per cacciare Berlusconi, ma ora non può essere riproposto in assenza di quello scenario.
Berlusconi è finito e il suo partito è alla disfatta, non c’è nessuna emergenza nazionale da dover affrontare con strumenti che sospendono la democrazia, fosse anche quella formale. Peraltro, i disastrosi risultati ottenuti dai professori fanno intravvedere il baratro e non l’uscita dalla crisi. Il PD, che ha già pagato il prezzo più alto per il suo sostegno all’ammucchiata dei cosiddetti professori, non può proseguire senza porsi l’obiettivo di governare. La politica per procura la si può fare nella posizione di Casini - il nulla al centro del niente - ma non può essere proponibile come orizzonte al maggiore partito del paese.
Casini, con la Grande Coalizione e con il Monti perenne pensa di poter garantirsi un ruolo di cerniera politica e, nel contempo, evitare il centrosinistra al governo, con un esponente PD a Palazzo Chigi. Lo schema dell'emergenza nazionale dell'incarico a Monti, usato appunto l'anno scorso per far fuori Berlusconi, stavolta dovrebbe servire a far fuori Bersani. Ma il fatto é che quando i disegni sono troppo sottili, finiscono per rompersi e ritenere che il PD sia nato per far vivere di rendita il centro privo di suffragi sembra effettivamente troppo anche per un partito come quello di via del Nazareno.
Dunque si deve andare a votare e ci si dovrà presentare agli elettori chiedendo il loro voto. Monti andrebbe - nelle intenzioni di Casini e di quelli che pesano molto più di lui - presentato come "risorsa nazionale" da un arco di forze che lo metterebbe al riparo di quello che sceglieranno di dirgli gli elettori. Casini sa benissimo che Monti è amato nei circoli finanziari e di altro tipo, ma è detestato a livello popolare; purtroppo per lui, Costituzione impone che, quando il mandato scade, si vota con il suffragio universale. E proprio nei numeri sta il problema.
La difficoltà dei centristi di presentarsi dotati di sondaggi a una cifra e proporre Monti come premier é il limite strutturale dell'operazione: infatti, se invece della "Grande Coalizione" fosse solo il "Grande Centro" a proporre il nuovo mandato per il professore, vi sarebbe il rifiuto dello stesso premier, che è sufficientemente vanitoso dal voler vincere facile e sufficientemente spocchioso da non ritenersi oggetto di voto popolare ove incerto. Pierfurby, insomma, spinge sull’accelleratore della sua utilitaria parcheggiabile ovunque per il reincarico “a divinis” a Monti ma, nello stesso tempo, capisce benissimo che con il suo “Grande Centro”, già morto nella culla, non avrebbe nessuna possibilità di avvicinarsi alle percentuali che sarebbero in grado di condizionare i due schieramenti politici.
Per queste ragioni il leader dell'UDC vede l'alleanza tra Bersani, Vendola e forse altri settori della sinistra come il fumo agli occhi. Non solo per una generica avversione verso la sinistra, ma proprio perché il disegno della "Grande Coalizione" subirebbe uno stop inevitabile da un PD deciso a misurare la sua forza nelle urne sulla base di un programma diverso da quello dei professori. Casini sa bene che il suo ruolo resta centrale solo in presenza di un PD che veleggia al centro, privo di rotta e vedovo di valori di sinistra. E sa quindi che un’alleanza tra il PD e SEL di per se stessa sposterebbe contenuti e progetto in chiave progressista e potrebbe determinare un aggregatore elettorale di forte attrazione anche per quel popolo di sinistra da anni disertore delle urne.
Perché sono molti coloro i quali proprio non riescono a bersi la favola di Grillo e si troverebbero a disagio nel votare Di Pietro se andasse da solo, anche solo perché si vorrebbe votare il governo del paese e non del CSM. L’alleanza tra PD e SEL può aprire anche ad un riposizionamento della stessa IDV e ad una diversa e migliore interlocuzione con il cosiddetto “popolo dei referendum”, cioè con quelle migliaia di associazioni che, sulla difesa dei beni pubblici, costruiscono aggregazione politica e sociale non disponibile ad associarsi con i furbi del web.
Se dunque Bersani proseguirà nelle intenzioni finora dichiarate e altrettanto farà Vendola, potrebbero determinarsi due novità che aprirebbero scenari chiari: la prima è quella del fallimento dell’ipoteca di Casini sul PD, operazione che si avvale del cavallo di Troia dei democristiani interni al partito; la seconda è che un PD con Bersani vincitore delle primarie e sostenuto da Vendola, proprio perché proporrebbe una sterzata in chiave progressista della linea politica del partito, determinerebbe una frattura significativa interna con l’area degli ex PP, cui non potrebbe che seguire una conta, cioè un Congresso.
Per questo Veltroni, architetto insieme ad altri del partito, si dice oggi “preoccupato” della tenuta del PD. Non sono tanto le smodate e destrorse ambizioni di Renzi e la contesa con Bersani a minacciare l’unità interna; se Renzi non riesce a trovare un sostenitore di sinistra e un minimo di credibilità e serietà dei meccanismi di voto le primarie lo spediranno a casa. Per giunta, il sindaco di Firenze riesce persino a dividere i democristiani, giacché il sogno di rottamare tutti tranne Matteo Renzi si scontra con la voglia di autoriprodursi del ceto democristiano ed ex-pci del PD.
E’ invece il mutare dello scenario delle alleanze (prima con Casini, poi con Casini e Vendola, ora solo con Vendola) che mette seriamente in discussione l’unità interna del partito. Poiché ne ipotizzano uno scatto, la ricerca di una identità politica, la proposta di un programma che si distingua in forma decisa dalle ricette economiche ultraliberiste dei tecnici. Tutto quello che i teorici dell’intoccabilità dell’agenda Monti vedono come il fumo negli occhi.
Per i democristiani che lavorano per Casini nel Pd sarebbe una sciagura, dal momento che una fase congressuale pre-elettorale costituita da due diverse e divergenti opzioni in campo, evidenzierebbe la loro dimensione fortemente minoritaria nel partito. E in alternativa, visto il peso elettorale di cui dispongono, la minaccia profferita tra le righe da Letta e più volgarmente da Fioroni di una possibile uscita della loro area dal PD, non spaventa nessuno; anzi quasi galvanizza molti, cioè i tanti ad essersi resi conto che la costruzione in laboratorio del PD si è rivelata un disastro politico. Sarebbe un boomerang, di quelli che hanno già colpito la triade Rutelli, Binetti e Lanzillotta, residuati di tutti e cercati da nessuno. Nessuno li eleggerebbe più, dovrebbero cercarsi i voti e non li troverebbero.
Ma sarebbe un guaio grosso per lo stesso Casini, che di ora in ora vede Fini, Montezemolo e la restante compagnia di giro perdere ruolo e peso. C’è il rischio che Pierfurby, che pensava di detenere un’ipoteca sul PD e d’intestarsi il “Grande centro”, che credeva di poter limare il PDL e inglobare i professori, si ritrovi da solo al centro di una piazza vuota. A fare il “Grande Centro”.
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di Carlo Musilli
Come ogni telenovela che si rispetti, anche questa si è chiusa con dei colpi di scena che promettono un sequel. Dopo lungo peregrinare per studi televisivi, ieri Renata Polverini ha firmato la lettera di dimissioni dalla presidenza della Regione Lazio. L'annuncio in conferenza stampa era arrivato però lunedì sera. Perché mai tanto ritardo? La governatrice, costretta al passo indietro dall'abbandono dell'Udc, ha avuto bisogno di tempo per mettere a punto le sue mosse.
Il gesto politico più importante pre-dimissioni è stato la riduzione degli assessori da 15 a 10, con tanto di redistribuzione delle deleghe.
Ufficialmente il taglio è servito a snellire il team (e i costi) in vista dell' "ordinaria amministrazione" da qui alle elezioni. Ufficiosamente è stato qualcosa di molto simile a una dichiarazione di guerra. I cinque nomi cancellati dalla giunta sono tutti del Pdl: Gabriella Sentinelli (assessore alla Scuola indagata per corruzione e turbativa d'asta dalla Procura di Viterbo), Marco Mattei (Ambiente), Stefano Zappalà (Turismo), Angela Birindelli (Politiche agricole) e Francesco Lollobrigida (Trasporti). "Tengo solo quelli di cui mi fido", avrebbe detto Polverini nell'ultima riunione con la sua squadra.
Almeno tre degli epurati (Mattei, Birindelli e Zappalà) sono molto vicini all' "innominato" rivale Antonio Tajani, il "personaggio ameno che si aggira per l'Europa", come lo ha definito la governatrice nella conferenza stampa di commiato. Attualmente a Bruxelles in qualità nientemeno che di vicepresidente della Commissione europea, Tajani ha sempre voluto tenere più di un piede nel natio Lazio.
Vero e proprio capocorrente, è considerato tra i massimi responsabili della bagarre interna al Pdl che ha provocato le dimissioni di Polverini.
Proprio lui ha sponsorizzato Franco Battistoni, il capogruppo Pdl nominato a luglio in sostituzione "der Batman" Franco Fiorito. E l'unico di cui Polverini ha preteso immediatamente la testa dopo lo scoppio del Laziogate.
Veniamo ora all'aspetto pratico della faccenda. Un emendamento a una legge regionale proposto lo scorso dicembre dall'ineguagliabile Batman prevede che, dopo due anni e mezzo di mandato, consiglieri e assessori esterni al Consiglio abbiano diritto a quattromila euro mensili di vitalizio. Un bell'assegno intascabile dalla tenera età di 50 anni, a patto che gli interessati paghino i contributi mancanti di tasca loro (almeno questo...). Ora, i due anni e mezzo di questo Consiglio scadono a fine ottobre. Ecco servita la vendetta nei confronti di Birindelli, Mattei e Lollobrigida, che non avendo altri contributi precedenti da sommare vedranno sfumare la meta della super baby-pensione a pochi metri dal traguardo.
Gli altri licenziati non hanno questo problema, ma dovranno comunque rinunciare allo stipendio, che invece sarà regolarmente corrisposto a tutti gli altri consiglieri fino alle prossime elezioni. Il che vuol dire fino ad aprile, se davvero si voterà nell'election-day (politiche più regionali) voluto dal governo per ridurre le spese.
Ma non è finita. Oltre alle epurazioni, prima di dimettersi Polverini ha trovato il tempo di fare anche qualche favore. Mercoledì l'esecutivo laziale ha rinnovato il contratto a nove direttori generali, fra cui spiccano le nomine di due amici della governatrice provenienti dall’Ugl: Raffaele Marra (al personale) e Giuliano Bologna (capo dell'avvocatura). Due investiture che erano state bocciate dal Tar a giugno e su cui il Consiglio di Stato si pronuncerà di nuovo a ottobre. "Questo è lo spirito legalitario della Presidente Polverini nel rispettare le leggi e le sentenze", hanno scritto dal sindacato interno dei dirigenti DirerDirl.
Intanto, come sempre, la nostra classe politica si preoccupa di non farci annoiare proponendoci ogni giorno nuovi deliziosi dettagli di colore. L'ultimo è stato svelato dal settimanale L’Espresso, che ha pubblicato anche le foto. In breve, lo scorso 24 giugno Polverini è stata accompagnata dall'isola di Ponza, dove era stata per il premio Caletta, fino al porto di Anzio da una motovedetta di 22 metri della Guardia di Finanza. La governatrice era insieme a quattro amici e a scortarli c'era anche un’altra imbarcazione delle Fiamme Gialle. Per la precisione un'imponente V2050, usata di solito per la lotta al contrabbando. "Abbiamo fatto scuola", ha detto mercoledì Polverini uscendo dalla Conferenza delle Regioni. Come darle torto?
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di Carlo Musilli
Quando non c'è più modo di rimanere in sella, il fantino smonta e dà la colpa al cavallo. Dopo lunghe giornate fatte di esitazioni e trattative, Renata Polverini ha rassegnato le sue "dimissioni irrevocabili" da governatore del Lazio. Lo ha fatto scaricando ogni responsabilità sul Consiglio regionale che per due anni e mezzo l'ha sostenuta; per sé e per la propria giunta, invece, ha rivendicato un'immacolata verginità. Come se Presidente e assessori, anziché complici, possano essere vittime inconsapevoli dello scandalo, ingiustamente sacrificati per quel bottino di soldi pubblici dilapidato in allegria dal gruppo Pdl. Purtroppo per loro, a norma di statuto, insieme al governatore cadono tutti. E ora il Lazio deve tornare al voto.
Ieri sera, nella conferenza stampa in cui ha annunciato l'addio, Polverini non ha usato mezzi termini contro i pidiellini arruffoni: "Interrompiamo la nostra azione a causa di un Consiglio che non considero più degno di rappresentare una regione importante come il Lazio. Questi signori li mando a casa io, senza aspettare ulteriori sceneggiate: con questi malfattori io non ho nulla a che fare. Io e la giunta arriviamo qui puliti".
Quanto all'ingordigia dei consiglieri, alle ostriche e ai festini pagati con i soldi dei contribuenti, Polverini ha giocato la carta del governatore che cade dalle nuvole: "Mai avrei immaginato che con quelle ingenti risorse tutti, nessuno escluso, facessero spese sconsiderate ed esose". Anche se tanta ingenuità fosse reale, non sarebbe comunque un'attenuante. Anzi. Ma è davvero credibile la storia del Presidente che governa a sua insaputa con una maggioranza di "malfattori"? Certo che no.
E' Polverini stessa a darne conferma in chiusura di conferenza stampa. Quando decide di levarsi l'ultimo macigno dalla scarpa, l'ormai ex governatrice si contraddice clamorosamente: "Adesso mi sento libera, prima mi sentivo intrappolata come in una gabbia. Da domani ciò che ho visto lo dirò. Le ostriche viaggiavano comodamente già nella giunta prima di me, quindi io non ci sto, non ci sto alle similitudini e nessuno si permetta di dire una parola su me e i miei collaboratori". Allora sapeva tutto? Che fine ha fatto quel "mai avrei immaginato"?
Un altro salto carpiato arriva quando Polverini cerca di giustificare il ritardo con cui ha deciso di dimettersi. "Ho aspettato oggi anche per vedere le falsità dell'opposizione - ha spiegato -. Oggi potevano consegnare le loro dimissioni al segretario generale della Regione Lazio: né Pd, né Idv, né Sel lo hanno fatto, ma hanno tentato di scaricare le responsabilità sulla giunta".
Insomma, la decisione di abbandonare sarebbe ormai vecchia di una settimana. Ma se così fosse, Polverini avrebbe davvero un futuro nel teatro, visto che fino a pochi giorni fa sembrava avviata in tutt'altra direzione. "Se approvano i tagli in Consiglio, resto - aveva detto a proposito delle riduzioni di spesa rabberciate dopo lo scoppio dello scandalo -. Se il Consiglio dimostra, e sono sicura che farà così, che c'è la consapevolezza di poter andare avanti malgrado ciò che ho definito una catastrofe politica ancora da superare, saremo in grado di trasformare in questi due anni e mezzo la Regione".
In quelle ore a prevalere era il pressing di Silvio Berlusconi, che spronava la governatrice a resistere. Il timore del Cavaliere era che la caduta nel Lazio provocasse il tracollo del partito anche nella Lombardia di Roberto Formigoni, indagato per corruzione.
Ieri però, poco prima che Polverini desse il ferale annuncio, è arrivato l'affondo decisivo da parte del numero uno dell'Udc, partito che fin qui ha sostenuto insieme al Pdl la giunta Polverini: "Dopo il marcio che è emerso, con la cupola che è venuta fuori, qualcosa di schifoso, bisogna restituire la parola ai cittadini - ha detto Pier Ferdinando Casini -. Io mi auguro che il presidente Polverini faccia un gesto di dignità e ridia la parola ai cittadini laziali".
Il leader centrista fin qui aveva fatto da mediatore, senza mai attaccare direttamente il capo della giunta laziale. La sterzata è arrivata dopo che il cardinale Angelo Bagnasco ha scomunicato il malgoverno dei consiglieri: "Dalle Regioni sta emergendo un reticolo di corruttele e scandali - ha tuonato il presidente della Cei -, un motivo di rafforzata indignazione che la classe politica continua a sottovalutare". La classe politica ha recepito il messaggio.
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di Carlo Musilli
Più che la faccia poté la poltrona, ma nella Regione Lazio si continua a camminare sul filo. Dopo il clamoroso "mi dimetto, anzi no" della governatrice Renata Polverini, che ha pensato bene di autoassolversi dallo scandalo dei fondi Pdl, l'opposizione rilancia e cerca di far cadere il castello della Pisana. Il Pd, appoggiato da Sel, Verdi e Idv, ha intenzione di presentare in blocco le dimissioni, nella speranza di forzare lo scioglimento del Consiglio regionale e tornare alle elezioni.
Per raggiungere l'obiettivo bisognerà però convincere anche qualche membro della maggioranza, in modo da arrivare alla fatidica quota di 36 consiglieri su 70. Un colpo di mano non facile, ma che rischia di dare la spintarella finale al partito di Silvio Berlusconi, sull'orlo del baratro sia a livello locale che nazionale.
Se Polverini ha scelto di rimanere lo si deve in gran parte proprio al pressing del Cavaliere, che probabilmente ha avuto un ruolo anche nel gran rifiuto dell'Udc. Il partito di Pier Ferdinando Casini ha negato alla governatrice qualsiasi salvacondotto politico per uscire dalla Regione, costringendola a continuare il mandato per non finire nel dimenticatoio. Difficile spiegare in altro modo le mancate dimissioni. I taglietti alle spese rabberciati all'ultimo secondo da Polverini e approvati fulmineamente dal Consiglio forse potevano rappresentare un pietoso gesto di commiato, non certo una prova di redenzione sufficiente a proseguire la legislatura.
Le dimensioni dello scandalo richiedevano ben altro. In due anni da un solo conto Unicredit sono transitati cinque milioni e 900 mila euro di soldi pubblici che i consiglieri Pdl hanno sperperato senza rendere conto a nessuno tra abbuffate luculliane, soggiorni da nababbo e oggettoni extra lusso. Polverini intanto si faceva scarrozzare in elicottero per andare pronunciare i suoi illuminanti discorsi fra le sagre paesane.
Il pudore avrebbe dovuto suggerire a tutti questi signori la scelta dell'auto-esilio, invece l'unica testa a cadere è stata quella di Francesco Battistoni, l'ex capogruppo costretto alle dimissioni la settimana scorsa. A sostituirlo - tanto per non smentire la classe della destra romana - è arrivata Chiara Colosimo, una 25enne ex cubista del Gilda svezzata politicamente dai ragazzini proto-fascisti di Azione Giovani.
Di fronte a tutto questo il segretario del Pd laziale, Enrico Gasbarra, ha invocato "un elettroshock", chiedendo "ai consiglieri regionali del Pd la disponibilità a mettere in atto tutti i gesti più concreti per raggiungere l'obiettivo del voto". Traduzione: visto che loro non se ne vanno, andiamo via noi e cerchiamo di cacciarli.
Se il progetto andasse in porto si realizzerebbe uno degli incubi di Berlusconi. Il Cavaliere teme che la débacle nel Lazio scateni un effetto domino in grado di far capitolare il governatore lombardo Roberto Formigoni. L'araldo dei ciellini, ricordiamo, è accusato di corruzione dalla Procura di Milano per i presunti regali ricevuti da Pierangelo Daccò (8,5 milioni in tutto) in cambio delle delibere da 200 milioni a favore della Fondazione Maugeri. Il tutto in un Pirellone dove ormai gli indagati potrebbero riunirsi un gruppo consiliare autonomo.
Ma non è finita. Dopo il Nord e il Centro, sembra arrivato il turno del Sud. La Procura di Napoli ha in mano un’intercettazione in cui si parla di fondi pubblici del Consiglio regionale della Campania che dai gruppi consiliari sono finiti via bonifico nei conti correnti dei consiglieri. L'ipotesi è ancora una volta il peculato e il pubblico ministero ha già scatenato la Guardia di Finanza. La settimana scorsa le fiamme gialle hanno invaso due volte il Centro direzionale per acquisire i documenti relativi al denaro passato per le mani dei gruppi consiliari dal 2008 ad oggi. Il presidente della Regione è anche in questo caso un pidiellino, Stefano Caldoro.
Intanto, le cose non vanno meglio per il Pdl a livello nazionale. Nei giorni scorsi è stata addirittura ventilata una scissione da parte degli ex An, infastiditi dalle incertezze sulla ricandidatura di Berlusconi e sulla nuova legge elettorale. Il Cavaliere per il momento è riuscito a placarli. Ora la sua missione è tenere in piedi un sistema di potere obeso che cerca di ingozzarsi anche quando a tavola non c'è più nulla. L'importante è che la prima tessera del domino non cada.
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di Carlo Musilli
Ostriche, champagne e festicciole coatte. Dopo due anni e mezzo di bivacchi a spese dei contribuenti, è arrivato il momento di pagare sul serio. Lo scandalo dei fondi pubblici sperperati in allegria dalla Regione Lazio ha dato i primi frutti: ieri il capogruppo Pdl Francesco Battistoni si è dimesso e la sede del Consiglio è stata invasa dalla Guardia di Finanza. La poltrona di Renata Polverini scricchiola, ma per il momento la governatrice non molla. Continua a sostenere l'insostenibile, appoggiata senza indugio dalla pletora dei berluscones.
A ben vedere, le possibilità sono due: o non si è mai accorta di nulla perché non ha controllato, con una testa fra le nuvole che farebbe invidia a Forrest Gump, oppure sapeva tutto benissimo ma ha lasciato correre. In entrambi i casi non si capisce come il capo della Giunta possa sfuggire alle dimissioni.
Il bivio è simile a quello incontrato nei mesi scorsi da Umberto Bossi e Francesco Rutelli dopo le inchieste sugli ormai mitici Francesco Belsito e Luigi Lusi. Ma rispetto ai due ex tesorieri di Lega e Margherita, l'avversario che si erge davanti a Polverini si sta rivelando ben più agguerrito. E soprattutto più documentato. E' Franco Fiorito, il predecessore di Battistoni, noto fra i gentlemen della Pisana come "er Batman".
A luglio Fiorito era stato sfiduciato dai colleghi pidiellini perché aveva iniziato a fare storie sui soldi da smistare. E così, interrogato per sei ore dai magistrati che lo accusano di peculato, mercoledì sera "er Batman" si è trasformato in un jukebox. Non solo ha fatto i nomi, ma ha consegnato agli inquirenti anche "almeno due casse piene di documenti": lettere, e-mail ricevute dai consiglieri, richieste di soldi, raccomandazioni e fatture. Tanto per esser sicuro di non mancare il bersaglio, ha aggiunto anche un altro bel carico: "Ero ossessionato dalle richieste di danaro dei consiglieri del mio gruppo, non ne potevo più. Si era perso il senso della misura, ormai non si faceva più politica, ormai i consiglieri erano anche in lotta tra di loro per ottenere il denaro".
Risultato: dopo aver parlato in via dell'Umiltà con il segretario del Pdl, Angelino Alfano, Battistoni ha fulmineamente consegnato le sue "dimissioni irrevocabili". E negli stessi minuti i finanzieri hanno preso d'assalto il Consiglio regionale per cercare altre prove che confermassero le affermazioni di Fiorito. Qualcosa devono aver trovato, visto che gli inquirenti definiscono quello della Pisana un "sistema senza controllo" in cui i consiglieri Pdl intascavano soldi "con estrema facilità, anche con una telefonata, e non secondo le procedure stabilite dalle norme".
Ma non è finita: mentre i pidiellini si davano alla bella vita, gli assessori si spartivano vitalizi da un milione di euro l'anno e il fotografo personale della governatrice ne intascava altri 75 mila. Polverini non sapeva nulla neanche di questo? Come può avere ancora dei dubbi sulla necessità di dimettersi? Prima di decidere, l'ex sindacalista dell'Ugl vuole veder approvata la norma da lei proposta per le riduzioni di spesa, che arriva in Consiglio proprio oggi. Lo scopo potrebbe essere di ripulire in extremis il proprio nome per poi issare bandiera bianca, ma non è detto.
Se dall'assemblea arriverà il via libera - com'è ovvio - Polverini potrebbe anche scegliere di rimanere al suo posto: "Ho condizionato il mio impegno al Consiglio - ha ribadito ieri -. Non sono disposta a pagare le colpe di altri".
A fare la parte del burattinaio è come sempre Silvio Berlusconi, da cui sono arrivate forti pressioni per convincere la governatrice a proseguire il mandato. Ieri, al termine di un vertice con lo stato maggiore del Pdl a Palazzo Grazioli, tutti i big del partito hanno recepito e rilanciato il seguente concetto: "Non mollare Renata, siamo con te!".
Il Cavaliere teme che l'eventuale implosione nel Lazio provochi un effetto domino in Lombardia, dove Roberto Formigoni si barcamena da mesi, annaspando fra le inchieste. A quel punto il partito sarebbe davvero al capolinea. E visto che solo i capitani affondano con la nave, sembra che nel frattempo i colonnelli ex An (in prima linea La Russa e Gasparri) stiano pensando di sfilarsi per tornare fra le braccia di Francesco Storace e ricreare una formazione di super-destra dura e pura.
Forse per avere più voti, forse solo per chiedere più posti in lista a Berlusconi nel caso si tornasse a votare con il Porcellum. La questione, emersa nei giorni scorsi, è stata appianata per il momento con un altro vertice notturno nella residenza romana del Capo, che ha piazzato un bel cerotto sulla ferita. Non rimane che attendere il prossimo Batman.