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di Rosa Ana De Santis
All’infausta scelta di applicare la scure dei tagli trasversalmente anche su chi patisce la crudele sorte di essere malato di SLA, si aggiunge la beffa di stime assolutamente sballate, quasi create ad arte per continuare a togliere risorse magari con un pizzico di imbarazzo mediatico in meno. Mauro Pichezzi, presidente dell'associazione Viva la Vita, in merito ai dati riferiti in Commissione Affari sociali alla Camera dal sottosegretario alla Salute Elio Cardinale, in risposta all'interrogazione della deputata Pd Margherita Miotto, si dice sconcertato. Secondo il governo sarebbero poco più di 4.000 i malati di SLA. Peccato che ad oggi l’Istituto Superiore di Sanità non ha mai visto decollare un effettivo registro delle cosiddette malattie rare e alcune regioni si sono “arrangiate” da sole con tutte le incognite del caso.
Nel Lazio, secondo il sottosegretario, ci sarebbero un centinaio e poco più di persone con la SLA, mentre l’associazione impegnata sul campo Viva la Vita parla almeno di 334 malati. Quali sono i numeri di cui si terrà conto nella gestione delle risorse finanziarie? Probabilmente non quelli reali di chi entra nelle case delle persone, ma quelli di un registro nazionale che non è mai nato e che è pieno di buchi, in cui le Istituzioni preposte non hanno coraggio di entrare.
Se l’associazione può non essere considerata una fonte esaustiva o sufficientemente autorevole, cosi pare, bastano le ASL a smentire Cardinale con dati superiori di 3 volte (per il Lazio) a quelli declamati in Commissione. Il vertice del dicastero della Salute mostra tutto il suo pericoloso scollamento dalla base e da chi opera sul territorio. Pericoloso perché saranno in tanti a rimanere senza sostegno e senza servizi.
“Cosi ci fanno morire tutti” aveva detto con gli occhi e guidando la mano della figlia, il papà bloccato a letto dalla SLA e ripreso dalla trasmissione Servizio Pubblico un paio di settimane fa.
Se infatti è intollerabile pensare ad uno stato sociale assente proprio per chi è più nel bisogno, diventa assolutamente pericoloso spacciare numeri e dati falsi, ancorati al nulla o quasi che rischiano, dopo aver lasciato a piedi tanti ammalati, di renderli persino invisibili all’opinione pubblica. E’ questo l’atto di irresponsabilità e impreparazione che oggi desta più biasimo.
Il capogruppo Idv in Commissione Affari Sociali della Camera, Antonio Palagiano, con un’interrogazione parlamentare, chiede di tornare sui numeri reali della Sclerosi Laterale Amiotrofica, incrociando - ad esempio - la bozza del Registro delle malattie rare ad oggi esistente con i dati regionali, magari interpellando le Asl che operano sul territorio e le associazioni di chi opera spesso per puro volontariato assistenza e aiuti in ogni forma.
Dopo averli visti sotto Palazzo Chigi e in tv, dove un santo Briatore concedeva la sua elemosina di 500 euro al mese per la figlia di un malato di SLA, sarà il caso che il governo inizi a contare con onestà intellettuale le conseguenze dell’austerità trasversale.
Sarebbe auspicabile che non si ripetesse la vergognosa figura degli esodati, ad esempio. Anche in quel caso alla conta scomoda di chi rimaneva senza sostegno per vivere era stata preferita la matematica creativa. Numeri sparati come al lotto o al casinò che avevano fatto saltare sulla sedia Mastrapasqua, presidente dell’INPS e non solo i sindacati.
La stessa strategia sembra ripetersi ora. Ora che la protesta silenziosa di queste vite bloccate nella prigione di un corpo inerte mai è stata così forte e così sonora da stroncare le coscienze di tutti.
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di Antonio Rei
Il nostro diritto di voto rischia di trasformarsi in un contentino. Le elezioni in una mera formalità. Pd e Pdl sono impegnati in una campagna per le primarie in cui si parla di tutto, tranne che delle riforme su cui punterebbero in caso di vittoria alle politiche. Quello che una volta si chiamava "il programma". E mentre i maggiori partiti si dilungano in un teatrino il cui unico scopo è evitare l'autodistruzione, chi sta realmente governando il Paese scrive il copione del prossimo esecutivo. Una traccia obbligatoria, a prescindere dal risultato elettorale.
Ieri il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si è espresso in questi termini: "Quando ci sono elezioni libere nessuno può prevedere il risultato. C'è sempre un certo grado di rischio quando si vota. Vogliamo per questo non votare? O, per essere tranquilli, vogliamo scrivere a tavolino il risultato delle elezioni? Vedremo come si esprimeranno i cittadini".
E quale sarà mai questo "grado di rischio" collegato alle elezioni? Il Capo dello Stato fuga ogni dubbio esibendosi nell'ennesimo panegirico del governo tecnico: "Sono convinto che si è segnato un cammino da cui l'Italia non potrà discostarsi. I partiti dicono che vogliono aggiungere qualcosa" all'operato dell'attuale esecutivo, "non distruggere". A onor del vero, Presidente, non lo dicono tutti.
Sembra evidente quindi che, quando parla di "rischio", Napolitano si riferisca esclusivamente alle forze anti-Monti: Sel, Idv, Lega e soprattutto Movimento 5 Stelle. Stando ai sondaggi e alle ultime elezioni comunali e regionali, i grillini possono contare su percentuali ben superiori a quelle degli altri tre partiti non allineati. Per questa ragione nei mesi passati si sono meritati più d'una frecciata dal Quirinale.
E' difficile capire come tutto questo si concili con l'imparzialità richiesta a un presidente della Repubblica. Ormai con una certa regolarità, da Napolitano arrivano due messaggi che violano i limiti imposti alla sua carica: da una parte il Presidente orienta il voto dei cittadini (se non altro lasciando intendere per chi non bisogna votare); dall'altro si rivolge direttamente ai partiti, tracciando il solco che dovranno seguire quando torneranno formalmente al governo. In sostanza, il Quirinale impone una linea politica e né il Pd né il Pdl hanno la forza di sottrarsi all'umiliazione.
Alla fine però il sottotesto è chiaro: per Bruxelles, per i mercati e per i fantomatici investitori esteri sarebbe preferibile che gli italiani non votassero affatto. Se ancora andiamo alle urne è solo perché davvero non possiamo fare a meno. Un simulacro di democrazia va mantenuto, per quanto sbiadito. E allora qual è la soluzione più ovvia? Svuotare le elezioni del loro reale significato, ovvero l'espressione di una libera scelta dei cittadini. In una logica da Gattopardo: "Cambiare tutto perché nulla cambi".
E davvero nulla sembra destinato a spostarsi di una virgola. In assenza di una legge elettorale decente e di schieramenti definiti, oggi l'ipotesi più verosimile è che il prossimo esecutivo (probabilmente di centrosinistra) sarà talmente fragile da rimanere in carica solo qualche mese. A quel punto Monti tornerà come il Conte di Montecristo. Ancora senza partito, ancora senza legittimazione elettorale, ancora con l'Europa pronta ad acclamarlo. Insomma, con il massimo potere possibile. E molto più tempo a disposizione.
In quest'ottica non è difficile spiegare l'ultimo scivolone con retromarcia del Professore. Due giorni fa il Presidente del Consiglio aveva detto di non poter dare garanzie sul futuro riguardo all'affidabilità dell'Italia dopo il suo mandato. Un'ovvietà, a pensarci bene: chi mai potrebbe garantire per qualcosa che teoricamente non dipenderà più da lui? I partiti però si sono offesi. Hanno interpretato quelle parole come un ricatto, perché sanno benissimo cosa li aspetta. O quantomeno lo cominciano a intuire.
Inevitabile però che il Premier fosse costretto alla rettifica. Senza nemmeno aspettare la domanda di un giornalista qualsiasi, ieri Monti si è prodotto nella più ipocrita delle rettifiche: "Qualsiasi cosa accadrà nella politica italiana, penso che si tratterà di governi responsabili, che faranno ancora meglio per far progredire l'economia italiana" rispetto all'esecutivo dei professori. E poi ancora: "Sono certo che, dopo il voto, i governi che verranno opereranno per il risanamento e le riforme". Magari cadendo il più velocemente possibile.
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di Fabrizio Casari
Sono 23 i paesi nei quali le proteste di lavoratori, disoccupati, precari e studenti si sono manifestate. Uno sciopero europeo ampio, partecipato, che ha visto l’adesione di centinaia di sigle politiche, sociali e sindacali in tutto il continente contro le scelte folli delle politiche finanziarie europee, che non solo non risolvono la crisi ma che hanno trasformato una debacle finanziaria degli speculatori internazionali in una crisi economica profonda e drammatica delle popolazioni sulle quali si sono scaricati i costi, mentre i profitti continuano a veleggiare sui centri finanziari.
Quasi ovunque le manifestazioni hanno avuto negli incidenti di piazza un aspetto evidente, pur non essendo la cifra politicamente più importante della giornata. Ma non c’è dubbio che la loro estensione in quasi tutta Europa, ha reso gli incidenti l’aspetto prevalente nei commenti del giorno dopo. Da parte dei media è comprensibile: immagini e racconti degli scontri sono ad impatto mediatico più forte e immediato di quanto non lo siano articoli che entrano nel merito dei contenuti dello sciopero europeo, il primo da quando la crisi economica ha cominciato a mordere il vecchio continente. Da parte dei governi, che la maggior parte dei media ossequiano, le espressioni di sdegno per le violenze accompagnate dalla immancabile, scontata solidarietà alle forze dell’ordine, sono state premessa e conclusione di ogni presa di posizione.
Ma i media dovrebbero fare un altro mestiere: è sulle cause della protesta e sulle mancate risposte dei governi che bisognerebbe porre tutta la necessaria attenzione, facendo prevalere per una volta il tentativo di comprendere e non quello di stigmatizzare. Una domanda non andrebbe mai evasa: hanno ragione e diritto di protestare gli esclusi? E’ una protesta di tipo ideologico o invece le piazze sono la risposta unica di chi non ha voce nei luoghi delle decisioni?
Si chiede agli studenti pacifici di isolare quelli violenti, assegnando così alla protesta il ruolo del governo della stessa. Ma queste sono condizioni non semplici e che comunque si determinano quando la protesta diventa matura, quando trova il suo sbocco politico, la sua rappresentazione organizzata. E, soprattutto, quando i soggetti che protestano diventano interlocutori delle istituzioni che al momento, invece, restano cieche e sorde. L’idea di una società piagata e disperata, colpita e umiliata, che sceglie la protesta educata e discreta, é paradossale.
Nello specifico italiano la protesta viene descritta come “rabbia”. Ma quando un governo conferma le spese folli per l’inutile TAV, il ridicolo Ponte sullo Stretto e l’assurdo acquisto dei bombardieri di ultima (e già tecnologicamente superata) generazione, mantiene inalterati i privilegi delle diverse caste mentre toglie i fondi per i malati di sla, lascia indenni i costi pazzeschi del Palazzo ma abbatte i fondi per l’istruzione, riduce alla fame le pensioni e toglie ogni tutela ai lavoratori, quale sentimento popolare dovrebbe produrre?
Il Governo Monti è, per cifre e per segno, il peggiore degli ultimi 40 anni. Mai l’Italia ha avuto numeri peggiori, mai ha avuto un debito pubblico e una disoccupazione così alta; in preda ad una spirale recessiva, mai come oggi è stata sull’orlo dell’azzeramento della sua struttura industriale e appare decisamente privata di ogni speranza di ripresa a breve-medio termine.
La proposta che indicavano gli scioperanti era, in sintesi, quella di fermare la guerra del capitale contro il lavoro; di arrestare lo strapotere finanziario e difendere le conquiste di civiltà sociale e giuridica; di ribaltare completamente le politiche di azzeramento del debito pubblico che hanno aggravato lo stesso debito, stremato il tessuto sociale collettivo e ridotto un intero continente ad una variabile dipendente della speculazione finanziaria internazionale.
Lo sciopero è stato un collante di almeno due o tre generazioni, una volta scandite non solo anagraficamente, ma anche nell’usufruire dell’ascensore sociale insito nell’idea di progresso, e che oggi si trovano unite nella totale assenza di presente e futuro, vittime del baratro di prospettiva che viene definito modernizzazione. Gli studenti di oggi saranno i precari di domani mentre i lavoratori di oggi non saranno mai i pensionati di domani. Il ciclo dell’esistenza, tra formazione, lavoro e pensioni si è interrotto. Il lavoro come attività principale nella costruzione del reddito e strumento indispensabile per il miglioramento delle condizioni materiali di vita è - e sempre più sarà - un’opportunità per pochi.
La guerra scatenata dal capitale contro il lavoro è stata la forma complessiva che i paesi liberisti hanno adottato di fronte alla globalizzazione. La concentrazione spaventosa di ricchezza in poche mani ha determinato il drammatico allargamento della povertà alla stragrande maggioranza della popolazione. Lo spostamento della ricchezza dai redditi da lavoro a quelli di Borsa non è stata minimamente contrastata, anzi permane una differenza gravissima nella tassazione a favore della rendita.
La speculazione finanziaria, che continua imperterrita a dettare legge non solo sui mercati, ma anche sui governi, non ha dovuto subire nessun freno, non è sottoposta a nessuna regola e i costi del suo rifinanziamento li ha pagati e li paga la quota maggiore della popolazione mondiale. Mentre tentano di piegare l’Europa intera alla logica dello spread sui titoli, i centri finanziari continuano a detenere e ad usare quote spaventose di titoli spazzatura, ormai arrivati ad un importo superiore all’intero PIL mondiale. Carta straccia e diritti stracciati: é questa l’essenza dell’economia di mercato?
Mai, come nell’epoca attuale, il capitalismo ha offerto il suo volto più truce. Liberato dal confronto con modelli diversi e alternativi, ha potuto togliersi la maschera di sistema inclusivo e scatenare la sua voracità nel processo di accumulazione rapida, violenta ed esclusiva a vantaggio di alcuni centri di potere economico e finanziario. Non si tratta, ovviamente, di sociologica ferocia: portare il 99% della popolazione al minimo è lo strumento unico per tenere l’1% al massimo. Si depaupera in profondità l’economia di ogni paese non in nome di un cinismo e di una ferocia senza limiti, ma dalla necessità di aggiornare i processi di accumulazione dei capitali. Il lavoro, in questo senso, non è un elemento duale di relazione con il capitale, bensì il suo nemico dichiarato, a meno di non essere ridotto a pura schiavitù.
Di fronte a questo scenario, all’assenza di ogni pallida forma di resistenza dei governi nei confronti della speculazione internazionale e alla contemporanea incapacità della politica tout-court di rappresentare la disperazione sociale che fa guardare persino ad un passato difficile con nostalgia, è del tutto inutile affidare le risposte ai manganelli.
Oggi, anche grazie ad una cosiddetta sinistra che ha incamerato e metabolizzato la cultura mercatista, che si dimostra non solo incapace ma addirittura non interessata a proporre un disegno aggiornato di una teoria e una prassi della trasformazione della società, i bisogni di quella parte di popolo espulso dal ciclo economico attivo non sono rappresentati.
L’accettazione supina di questo sistema, la sua definizione di processo ineluttabile, di ultima pagina della storia, lascia sul terreno ogni forma di civiltà e di progresso per le società di massa. E così, a seguito di una crisi che disegna uno scenario generale di precarietà, una caduta verticale del tenore di vita del 99% della popolazione e dell’arricchimento smisurato ed insultante dell’1%, si offre a queste e alle prossime due generazioni un senso di assoluta inutilità della formazione culturale e professionale, il vuoto a perdere di una scala dove i gradini permettono solo di scendere.
E allora davvero sono i manganelli a poter e dover fornire le risposte di intere generazioni? Davvero l’assenza di ordine sociale può essere sostituito da una lettura repressiva dell’ordine pubblico? Le risposte vanno cercate altrove e la politica che oggi finge allarme farà bene a reindossare gli abiti che le competono. Perché se lo studio, il lavoro e il welfare sono precari, anche l’ordine pubblico lo diventerà.
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di Rosa Ana De Santis
La moda della politica americana, fortificata dalla recentissima elezione di Obama, ha contagiato anche la competizione elettorale tricolore. E meno male, pensano in molti. Peccato che sia stato Sky e non il servizio pubblico a garantire, per la prima volta, un confronto pubblico intellegibile che finalmente non si sia trasformato nella solita baruffa di salotto. Un giudizio positivo piuttosto unanime e forse la prova comunicativa più vincente, e più efficace di qualsiasi declamazione di programma, di quanto la cultura di sinistra, il cui dna è fatto di confronto e dialogo, sia diversa da quella piramidale del Pdl che le primarie le fa solo per cercare un erede del Cavaliere e non certo per sentire gli umori della base.
Ragioniamo sulle differenze. Nichi Vendola: “romantico”, come lo definisce Tabacci. E’ lui a disallinearsi dal linguaggio dei concorrenti con un tasso di poeticità e di barocco linguistico a tratti stucchevole. Peccato, perché se avesse detto in quella sede “Pomigliano capitale d’Italia”, quello che dai microfoni di Unomattina ha annunciato con efficace sintesi, tirando fuori l’asso nella manica del lavoro che lo vede più forte di tutti, avrebbe conquistato meglio i suoi elettori.
Expert System, leader in tecnologia semantica, ha analizzato con il software semantico Cogito il linguaggio usato dai cinque sfidanti. Renzi è quello che ha parlato di più: per velocità e numero di vocaboli usati. Uno smacco che la Puppato abbia svelato il meccanismo che lo vedeva teleguidato dai continui sms forse del suo spin doctor. E’ noto per le sue doti mediatiche il rampante sindaco di Firenze, peccato questa caduta di stile che fa venire in mente Ambra Angiolini quindicenne in cuffia con Boncompagni. La giovane età questa volta non porta bene al rottamatore del Pd.
Bersani e Tabacci parlano all’elettorato storico del centro sinistra (rimprovero unanime per Bersani che avrebbe potuto rievocare Enrico Berlinguer invece di Papa Giovanni XXIII) il loro linguaggio arriva meglio a tutti, mentre Renzi, Puppato e Vendola si rivolgono ad elettori con bagaglio culturale più elevato, con una scolarizzazione almeno di diploma superiore.
Renzi e Bersani hanno usato più degli altri termini come lavoro, soldi, governo, coalizione. Tabacci ha insistito molto sui temi fiscali e le tasse. Puppato molto sul lavoro, Vendola su politica e destino. Anche nel vocabolario sembra tratteggiarsi una prima gerarchia di quelli che saranno i vincenti di questa competizione: in testa il segretario e il sindaco che ragionano da capi di coalizione.
Renzi sembra aver studiato i discorsi alla Obama contro lo sfidante Romney e il sentiment evocato è lo stesso. Vendola e Bersani sono quelli che usano di più i termini attinenti al momento difficile che attraversa il paese: crisi, disagio, con una bella quantità di aggettivi negativi.
Colpa forse dei tempi da tg più che da convegno, il linguaggio dei cinque, tracciando un profilo generale, manca in ogni caso di quella chiarezza e accessibilità che rappresenta invece un connotato caratteristico dell’oratoria americana, se tale può dirsi. La Puppato quella più difficile, Tabacci quello forse più machiavellico e tagliente.
Renzi non batte Bersani al primo turno, nemmeno in tv dove sembrava più corazzato e a suo agio. Già la scenografia televisiva delle primarie annuncia quindi una sfida tutt’altro che semplice e i due possibili candidati al ballottaggio, Renzi e Bersani, confermano i loro ruoli: il rottamatore contro la tradizione politica. Peccato che Renzi sia figlio allevato da quella stessa tradizione e che il suo vocabolario rottami senza rivoluzionare nulla, rincorrendo Obama con esiti solo di poco migliori a quelli di veltroniana memoria.
Peccato che Bersani abbia timore di rievocare tutto il portato storico della sinistra, consapevole di aver digerito, con Monti, anche l’indigeribile. Un’amnesia, quella del ruolo e della necessità storica della sinistra, che Vendola colma alla grande, rivendicando temi e politiche per definizione iscrivibili alla storia del riformismo di sinistra e annunciando che chiunque dovesse vincere dovrà fare i conti con lui. A partire dal primo turno, dove conteranno i suoi voti e nessuna parola.
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di Antonio Rei
Chiamatela legge di Murphy o legge di Monti, ma tutto ciò che poteva andar male sta andando peggio. Anche le brutte notizie che dovrebbero escludersi a vicenda si presentano immancabilmente a braccetto. L'ultima ha a che fare con il debito pubblico. Nel più recente supplemento al bollettino statistico, la Banca d'Italia ha annunciato che a settembre la voragine nei conti del nostro Paese è arrivata al 1.995,1 miliardi di euro.
Un nuovo massimo storico, che lascia pochi dubbi sul prossimo futuro: “Abbiamo ancora molti record davanti a noi - ha ammesso il numero uno di via Nazionale, Ignazio Visco -. Finché non si raggiunge l'equilibrio di bilancio non solo strutturale, ma in termini assoluti, il debito aumenta. E' aritmetica”. Facile prevedere che ad ottobre il muro dei 2.000 miliardi sia andato in pezzi.
In questi giorni ricorre anche il primo anniversario del governo tecnico e trarre un bilancio è inevitabile. I professori erano stati accolti a furor di popolo con l'obiettivo di salvare i disastrati conti pubblici italiani. Un profano penserebbe subito a due obiettivi: riduzione del debito e/o rilancio della crescita. Nulla di tutto ciò è avvenuto. Anzi. Gli specialisti bocconiani hanno ottenuto il risultato di ridurre lo spread, ma lo hanno fatto essenzialmente obbedendo agli ordini di Bruxelles, che ha imposto misure depressive per l'economia reale.
Sul versante del debito, invece, la situazione sta peggiorando. Il trend si spiega anche con ragioni tecniche e con una serie di obblighi internazionali, ma al netto di queste voci la squadra di Monti non ha fatto meglio di quella targata Silvio Berlusconi, il che è tutto dire.
Dal punto di vista tecnico, come sottolinea Visco, è inevitabile che il debito aumenti fin quando l'Italia non arriverà al pareggio di bilancio "in termini assoluti", e non solo "strutturali", ovvero al netto del ciclo economico, come previsto per il 2013. Perché l'indebitamento inizi a calare, è necessario che il deficit scompaia. Punto e basta. Ma è anche vero che - pur essendo inevitabile - il tasso d'incremento del debito potrebbe rallentare. Purtroppo sta accadendo esattamente il contrario.
Su questo andamento incidono pesantemente le somme oceaniche che l'Italia si è impegnata a versare per sostenere i Paesi in crisi e per finanziare i fondi salva Stati Efsf e Esm. Ma anche escludendo queste voci, e facendo riferimento esclusivamente al fabbisogno delle amministrazioni pubbliche, il conto è aumentato fra 2011 e 2012. Nei primi 9 mesi dell'anno scorso era stato di 61 miliardi di euro, mentre quest'anno nello stesso periodo è arrivato a quota 61,9 miliardi.
La spesa pubblica quindi sta aumentando, al netto di qualsiasi giustificazione. Con buona pace dei rigoristi a oltranza e soprattutto dei contribuenti, flagellati da nuove tasse mentre assistono alla demolizione dello Stato sociale. Sempre sui nove mesi, infatti, le entrate sono arrivate a 280 miliardi, in crescita del 2,6% rispetto al lo stesso periodo del 2011.
In teoria, mentre i conti pubblici peggiorano, il prodotto interno lordo potrebbe ripartire. Volendo, il rapporto debito/Pil (126% a settembre) si riduce anche alzando il secondo termine dell'operazione, non solo riducendo il primo. Il meccanismo è semplice e si mette in moto in quei Paesi che investono sul proprio rilancio, mettendo le basi per la far risorgere l'attività produttiva. Naturalmente non è il nostro caso. Al contrario, da quando il Professore è in carica, anche la recessione italiana si è aggravata. Lo testimoniano le stesse previsioni economiche del governo, che ad ogni giro di boa vengono drammaticamente riviste al ribasso.
Nell'ultimo aggiornamento al Def (Documento di economia e finanza), l'Esecutivo ha scritto che il Pil viaggerà in recessione del 2,4% nel 2012 e dello 0,2% nel 2013. Le precedenti stime governative parlavano rispettivamente di -1,2% e +0,5% (tanto per intenderci sul livello d'attendibilità dei tecnici). Ancora più pessimista la Banca d'Italia, che nell'ultimo bollettino economico parla di un -0,7% per l'anno prossimo.
Tutti questi numeri ci insegnano almeno due cose. Primo: dobbiamo smetterla di stupirci quando sentiamo parlare di "nuovo record storico" del debito pubblico, perché continueremo a far segnare nuovi primati ancora a lungo. Non c'è alcun dubbio, almeno fino a quando il turbo monetarismo sarà la religione economica imperante. Secondo: la riduzione del debito non è affatto una preoccupazione primaria della tecnocrazia al potere, ma allo stesso tempo questa è probabilmente l'ultima delle ragioni per cui dovremmo lamentarci. Il vero problema non è scritto nelle carte della Ragioneria di Stato. Mentre i conti pubblici non migliorano, a ridursi sono le nostre prospettive.