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di Carlo Musilli
Il Cavaliere con le spalle al muro finge il colpo di mano, ma non va fino in fondo. Mentre il Pdl entra in decomposizione insieme alle primarie, Berlusconi rilancia la sua candidatura (la sesta a Palazzo Chigi), dà uno strattone alle redini e ordina ai suoi di astenersi da ben due voti di fiducia, prima al Senato e poi alla Camera. In entrambi i casi però i pidiellini stanno ben attenti a garantire comunque il numero legale. Con un atteggiamento vagamente schizofrenico, si scagliano lancia in resta contro l'Esecutivo e allo stesso tempo evitano di farlo cadere.
In serata si viene a sapere che venerdì mattina Angelino Alfano salirà al Quirinale. “Per coerenza istituzionale informeremo il Capo dello Stato su quanto intendiamo fare”, spiega il segretario, chiarendo però che non intende annunciare una crisi di governo: “Non precipiteremo il Paese nell'esercizio provvisorio, non metteremo a repentaglio la Legge di stabilità”.
Insomma, la crisi rimane nell'aria, ma non arriva. Perché mai allora tanto teatro? In primo luogo Silvio Berlusconi sta cercando di far dimenticare agli italiani che nell'ultimo anno il Pdl è stato il partito più rappresentato in Parlamento.
Il fedelissimo capogruppo alla Camera, Fabrizio Cicchitto, sbotta in Aula contro la politica economica dei professori, snocciola i più drammatici fra i dati Istat e Eurostat, prova a farci credere che le attuali condizioni dell'Italia abbiano qualcosa a che vedere con l'estemporanea isteria dei berluscones. Ma dov'erano tutti loro mentre i tecnici - per dirla con il Cavaliere - gettavano “nel baratro” il nostro Paese? Sono sempre rimasti lì, seduti sui loro scranni, ad approvare le stesse leggi contro cui oggi si accaniscono. Si dissociano, ma non ne hanno diritto.
Il partito è allo sfascio e ormai da tempo si dice che Berlusconi voglia abbandonarlo al suo destino per creare una sorta di Forza Italia 2.0 all'insegna del finto rinnovamento. Il programma politico come sempre non esiste e dai sondaggi arrivano i risultati peggiori di sempre.
Il Cavaliere quindi non ha altra scelta se non quella di puntare sull'antimontismo, sull'antieuropeismo, sull'antigermanismo. Un'ipocrisia insostenibile per chiunque abbia un minimo di memoria storica e oltre ad ascoltare le parole di oggi ricordi anche le azioni di ieri. Ma un intero sistema di potere è alla deriva e ai naufraghi non rimane che appigliarsi alla demagogia più superficiale.
Il blitz parlamentare di ieri ha consentito però ai pidiellini di centrare almeno un obiettivo. Il Consiglio dei ministri ha varato il decreto per l'incandidabilità dei condannati, ma ha limitato l'esclusione a coloro che hanno ricevuto condanne superiori a due anni. In ogni caso il testo si accoda alla fila di decreti in attesa di approvazione ed è probabile che, scaduti i sessanta giorni canonici, cada nel dimenticatoio.
Un altro nodo fondamentale resta poi quello delle elezioni. Quando si terranno? Il sospetto è che Berlusconi punti sulle urne a febbraio con uno scopo preciso: evitare che il Tribunale di Milano abbia il tempo di arrivare a sentenza sul processo Ruby prima del voto. Tornare in campo oggi è difficilissimo, ma farlo dopo un'eventuale condanna per prostituzione minorile lo sarebbe ancora di più.
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di Maura Cossutta
La dichiarazione di Monti circa la sostenibilità del servizio sanitario nazionale non è stata certo una scivolata e anche la sua successiva precisazione tutto è stato fuor che una smentita. “Si dovrà pensare a nuove forme di finanziamento e di organizzazione”: le parole sono state molto chiare e precise e, va detto, per niente condivisibili.
E sono le stesse che il governo aveva scritto quest’estate nel documento ufficiale di presentazione della cosiddetta “spending review”: “Conseguire i risparmi anche attaccando i confini dell’intervento pubblico”, decidendo “se un’attività può essere mantenuta all’interno del settore pubblico, se deve essere rimandata per intero verso il settore privato dell’economia oppure se il coinvolgimento pubblico nel suo sostegno deve essere ridotto”.
Altro che scivolata, è un intervento a gamba tesa che ha lasciato spiazzato lo stesso ministro Balduzzi, che si affanna a precisare, a negare quello che ormai a tutti è palese: l’attacco è al sistema universalistico, “una conquista che non ci possiamo più permettere”. E’ questo il refrain del momento, supportato da argomentazioni apparentemente molto “tecniche”, ma in realtà molto ideologiche.
Allora, proviamo a mettere le cose in ordine. Non sostenibile? Davvero la sanità italiana non è finanziariamente sostenibile? Cominciamo con il dire che la spesa sanitaria italiana (pubblica e privata) è al 9,3% del PIL (di cui il 7,3% di spesa pubblica). La media Ocse è al 9,5%, con punte del 12% (Olanda) e con Francia e Germania che arrivano all’11% del PIL mentre la Gran Bretagna si ferma al 9,6%.
Dunque l’Italia è il paese tra i più avanzati in Europa che spende meno, esattamente - secondo il rapporto CEIS 2012 - per ogni italiano un quarto in meno di quanto spendono Germania, Francia e gli altri tre Paesi dell’Europa a 6 (Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi).
Inoltre - come evidenziano le relazioni della Corte dei Conti - il finanziamento pubblico alla sanità è stato via via pesantemente ridotto, la spesa da almeno sette anni è al di sotto delle previsioni, mentre il disavanzo da sei anni continua a scendere. Addirittura nel 2011 la spesa sanitaria è stata di 112 miliardi, cioè 2,9 miliardi in meno rispetto al dato previsto e riconfermato nel quadro di preconsuntivo contenuto nella Relazione al Parlamento. Per la prima volta, rispetto all’anno precedente, la spesa sanitaria ha ulteriormente ridotto sua incidenza sul Pil: dal 7,3 % al 7,1%.
E poi sono arrivati i tagli della spending review e della manovra finanziaria, 26 miliardi dal 2010 al 2015. Non è certo retorica dire che ormai per la sanità pubblica è vero “allarme rosso”, mentre aumentano le disuguaglianze nello stato di salute della popolazione, con un divario crescente tra nord e sud del paese, con sole otto regioni che riescono a garantire i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Di cosa parliamo quindi? La spesa sanitaria pubblica non è sostenibile? Rispetto a cosa?
Giova per altro ricordare - visto che il Premier ricorda ogni giorno che sono solo i saldi finali ad avere importanza contabile - che la spesa sanitaria pubblica pesa sì per il 7,3% del PIL, ma restituisce valore per quasi il 13%. E, come afferma il rapporto CEIS 2012, “potenzialità straordinarie di sviluppo economico per il Paese si potrebbero realizzare invertendo l’approccio tradizionale che ha considerato fino ad oggi la sanità solo come spesa e mai come risorsa.
Il comparto sanitario dà al Paese più di quanto costa in termini di PIL; una politica di investimenti nel settore potrebbe accrescere ulteriormente il valore aggiunto in termini di ricchezza prodotta dalla filiera salute e dal suo indotto”. Insomma una fonte di ricchezza oltre che l’affermazione di un diritto, altro che una spesa insostenibile.
E poi Monti lancia il sasso ma ritira la mano: parla di “nuove” forme di finanziamento, ma a quali precisamente si riferisce? Parla di un aumento della compartecipazione a carico dei cittadini? Parla dei Fondi integrativi? Ma queste non sono forme “nuove” di finanziamento. Infatti il sistema dei tickets è già da tempo un’aberrante forma di finanziamento del sistema, che non ha certo disincentivato la domanda inappropriata, ma ha colpito invece proprio le fasce fragili e chi ha più bisogno di assistenza. Si intende insistere su questa iniquità?
Fondi integrativi? Anche questi fanno già parte del sistema, perché sono appunto “integrativi” e non sostitutivi della copertura pubblica (e magari si affrontasse con rigore il tema della loro riorganizzazione, vincolandoli per esempio alla copertura di quello che ancora il nostro sistema non garantisce, come la non autosufficienza). E allora?
Monti dica chiaramente se i risparmi che intende ottenere con i tagli alla sanità pubblica servono per essere reinvestiti per l’adeguamento del sistema (assolutamente necessario e urgente, per esempio nell’ambito della prevenzione o dell’assistenza territoriale) o se invece andranno a coprire il debito. Dica soprattutto senza infingimenti se la sua è la linea (non certo nuova, anzi ben tristemente nota da molti anni di stagione liberista) del cosiddetto “secondo pilastro” del sistema pubblico, rappresentato dal mercato assicurativo.
Per tenerlo in equilibrio, bisogna far uscire dal sistema i contribuenti più ricchi? E come verrà finanziata allora la sanità pubblica? L’esperienza degli Stati Uniti insegna che lo sbocco non potrà che essere da una parte una sanità pubblica sempre meno finanziata e quindi più dequalificata e dall’altra sistemi assicurativi sempre più inefficienti e iniqui.
Chi li obbligherà a garantire la copertura per i malati cronici, quelli più complessi, più “costosi”? E quale sistema assicurativo potrà garantire con la stessa spesa pro capite del nostro sistema sanitario nazionale (che è di 1.981 euro l’anno) le 4.500 prestazioni comprese nei LEA? Se il nostro sistema è insostenibile, allora vuol dire che nessun sistema sanitario è sostenibile, tanto più aprendo ai mercati assicurativi.
La discussione è serissima, perché è ormai apertamente in discussione l’universalità del modello pubblico italiano, un sistema che ancora l’Organizzazione Mondiale della Sanità colloca ai primi posti al mondo, anche se - avverte il Censis - “la qualità della sanità sta subendo un peggioramento diffuso, tagliare ancora le risorse per l’assistenza sanitaria vuol dire privare milioni di cittadini di servizi essenziali per la loro salute”.
Una conquista che non ci possiamo più permettere? Un universalismo insostenibile? Sempre di più la parola ora non spetta ai cosiddetti “tecnici” - che in realtà sono solo i portavoce di posizioni squisitamente politiche - ma ai cittadini.
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di Rosa Ana De Santis
All’infausta scelta di applicare la scure dei tagli trasversalmente anche su chi patisce la crudele sorte di essere malato di SLA, si aggiunge la beffa di stime assolutamente sballate, quasi create ad arte per continuare a togliere risorse magari con un pizzico di imbarazzo mediatico in meno. Mauro Pichezzi, presidente dell'associazione Viva la Vita, in merito ai dati riferiti in Commissione Affari sociali alla Camera dal sottosegretario alla Salute Elio Cardinale, in risposta all'interrogazione della deputata Pd Margherita Miotto, si dice sconcertato. Secondo il governo sarebbero poco più di 4.000 i malati di SLA. Peccato che ad oggi l’Istituto Superiore di Sanità non ha mai visto decollare un effettivo registro delle cosiddette malattie rare e alcune regioni si sono “arrangiate” da sole con tutte le incognite del caso.
Nel Lazio, secondo il sottosegretario, ci sarebbero un centinaio e poco più di persone con la SLA, mentre l’associazione impegnata sul campo Viva la Vita parla almeno di 334 malati. Quali sono i numeri di cui si terrà conto nella gestione delle risorse finanziarie? Probabilmente non quelli reali di chi entra nelle case delle persone, ma quelli di un registro nazionale che non è mai nato e che è pieno di buchi, in cui le Istituzioni preposte non hanno coraggio di entrare.
Se l’associazione può non essere considerata una fonte esaustiva o sufficientemente autorevole, cosi pare, bastano le ASL a smentire Cardinale con dati superiori di 3 volte (per il Lazio) a quelli declamati in Commissione. Il vertice del dicastero della Salute mostra tutto il suo pericoloso scollamento dalla base e da chi opera sul territorio. Pericoloso perché saranno in tanti a rimanere senza sostegno e senza servizi.
“Cosi ci fanno morire tutti” aveva detto con gli occhi e guidando la mano della figlia, il papà bloccato a letto dalla SLA e ripreso dalla trasmissione Servizio Pubblico un paio di settimane fa.
Se infatti è intollerabile pensare ad uno stato sociale assente proprio per chi è più nel bisogno, diventa assolutamente pericoloso spacciare numeri e dati falsi, ancorati al nulla o quasi che rischiano, dopo aver lasciato a piedi tanti ammalati, di renderli persino invisibili all’opinione pubblica. E’ questo l’atto di irresponsabilità e impreparazione che oggi desta più biasimo.
Il capogruppo Idv in Commissione Affari Sociali della Camera, Antonio Palagiano, con un’interrogazione parlamentare, chiede di tornare sui numeri reali della Sclerosi Laterale Amiotrofica, incrociando - ad esempio - la bozza del Registro delle malattie rare ad oggi esistente con i dati regionali, magari interpellando le Asl che operano sul territorio e le associazioni di chi opera spesso per puro volontariato assistenza e aiuti in ogni forma.
Dopo averli visti sotto Palazzo Chigi e in tv, dove un santo Briatore concedeva la sua elemosina di 500 euro al mese per la figlia di un malato di SLA, sarà il caso che il governo inizi a contare con onestà intellettuale le conseguenze dell’austerità trasversale.
Sarebbe auspicabile che non si ripetesse la vergognosa figura degli esodati, ad esempio. Anche in quel caso alla conta scomoda di chi rimaneva senza sostegno per vivere era stata preferita la matematica creativa. Numeri sparati come al lotto o al casinò che avevano fatto saltare sulla sedia Mastrapasqua, presidente dell’INPS e non solo i sindacati.
La stessa strategia sembra ripetersi ora. Ora che la protesta silenziosa di queste vite bloccate nella prigione di un corpo inerte mai è stata così forte e così sonora da stroncare le coscienze di tutti.
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di Antonio Rei
Il nostro diritto di voto rischia di trasformarsi in un contentino. Le elezioni in una mera formalità. Pd e Pdl sono impegnati in una campagna per le primarie in cui si parla di tutto, tranne che delle riforme su cui punterebbero in caso di vittoria alle politiche. Quello che una volta si chiamava "il programma". E mentre i maggiori partiti si dilungano in un teatrino il cui unico scopo è evitare l'autodistruzione, chi sta realmente governando il Paese scrive il copione del prossimo esecutivo. Una traccia obbligatoria, a prescindere dal risultato elettorale.
Ieri il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si è espresso in questi termini: "Quando ci sono elezioni libere nessuno può prevedere il risultato. C'è sempre un certo grado di rischio quando si vota. Vogliamo per questo non votare? O, per essere tranquilli, vogliamo scrivere a tavolino il risultato delle elezioni? Vedremo come si esprimeranno i cittadini".
E quale sarà mai questo "grado di rischio" collegato alle elezioni? Il Capo dello Stato fuga ogni dubbio esibendosi nell'ennesimo panegirico del governo tecnico: "Sono convinto che si è segnato un cammino da cui l'Italia non potrà discostarsi. I partiti dicono che vogliono aggiungere qualcosa" all'operato dell'attuale esecutivo, "non distruggere". A onor del vero, Presidente, non lo dicono tutti.
Sembra evidente quindi che, quando parla di "rischio", Napolitano si riferisca esclusivamente alle forze anti-Monti: Sel, Idv, Lega e soprattutto Movimento 5 Stelle. Stando ai sondaggi e alle ultime elezioni comunali e regionali, i grillini possono contare su percentuali ben superiori a quelle degli altri tre partiti non allineati. Per questa ragione nei mesi passati si sono meritati più d'una frecciata dal Quirinale.
E' difficile capire come tutto questo si concili con l'imparzialità richiesta a un presidente della Repubblica. Ormai con una certa regolarità, da Napolitano arrivano due messaggi che violano i limiti imposti alla sua carica: da una parte il Presidente orienta il voto dei cittadini (se non altro lasciando intendere per chi non bisogna votare); dall'altro si rivolge direttamente ai partiti, tracciando il solco che dovranno seguire quando torneranno formalmente al governo. In sostanza, il Quirinale impone una linea politica e né il Pd né il Pdl hanno la forza di sottrarsi all'umiliazione.
Alla fine però il sottotesto è chiaro: per Bruxelles, per i mercati e per i fantomatici investitori esteri sarebbe preferibile che gli italiani non votassero affatto. Se ancora andiamo alle urne è solo perché davvero non possiamo fare a meno. Un simulacro di democrazia va mantenuto, per quanto sbiadito. E allora qual è la soluzione più ovvia? Svuotare le elezioni del loro reale significato, ovvero l'espressione di una libera scelta dei cittadini. In una logica da Gattopardo: "Cambiare tutto perché nulla cambi".
E davvero nulla sembra destinato a spostarsi di una virgola. In assenza di una legge elettorale decente e di schieramenti definiti, oggi l'ipotesi più verosimile è che il prossimo esecutivo (probabilmente di centrosinistra) sarà talmente fragile da rimanere in carica solo qualche mese. A quel punto Monti tornerà come il Conte di Montecristo. Ancora senza partito, ancora senza legittimazione elettorale, ancora con l'Europa pronta ad acclamarlo. Insomma, con il massimo potere possibile. E molto più tempo a disposizione.
In quest'ottica non è difficile spiegare l'ultimo scivolone con retromarcia del Professore. Due giorni fa il Presidente del Consiglio aveva detto di non poter dare garanzie sul futuro riguardo all'affidabilità dell'Italia dopo il suo mandato. Un'ovvietà, a pensarci bene: chi mai potrebbe garantire per qualcosa che teoricamente non dipenderà più da lui? I partiti però si sono offesi. Hanno interpretato quelle parole come un ricatto, perché sanno benissimo cosa li aspetta. O quantomeno lo cominciano a intuire.
Inevitabile però che il Premier fosse costretto alla rettifica. Senza nemmeno aspettare la domanda di un giornalista qualsiasi, ieri Monti si è prodotto nella più ipocrita delle rettifiche: "Qualsiasi cosa accadrà nella politica italiana, penso che si tratterà di governi responsabili, che faranno ancora meglio per far progredire l'economia italiana" rispetto all'esecutivo dei professori. E poi ancora: "Sono certo che, dopo il voto, i governi che verranno opereranno per il risanamento e le riforme". Magari cadendo il più velocemente possibile.
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di Fabrizio Casari
Sono 23 i paesi nei quali le proteste di lavoratori, disoccupati, precari e studenti si sono manifestate. Uno sciopero europeo ampio, partecipato, che ha visto l’adesione di centinaia di sigle politiche, sociali e sindacali in tutto il continente contro le scelte folli delle politiche finanziarie europee, che non solo non risolvono la crisi ma che hanno trasformato una debacle finanziaria degli speculatori internazionali in una crisi economica profonda e drammatica delle popolazioni sulle quali si sono scaricati i costi, mentre i profitti continuano a veleggiare sui centri finanziari.
Quasi ovunque le manifestazioni hanno avuto negli incidenti di piazza un aspetto evidente, pur non essendo la cifra politicamente più importante della giornata. Ma non c’è dubbio che la loro estensione in quasi tutta Europa, ha reso gli incidenti l’aspetto prevalente nei commenti del giorno dopo. Da parte dei media è comprensibile: immagini e racconti degli scontri sono ad impatto mediatico più forte e immediato di quanto non lo siano articoli che entrano nel merito dei contenuti dello sciopero europeo, il primo da quando la crisi economica ha cominciato a mordere il vecchio continente. Da parte dei governi, che la maggior parte dei media ossequiano, le espressioni di sdegno per le violenze accompagnate dalla immancabile, scontata solidarietà alle forze dell’ordine, sono state premessa e conclusione di ogni presa di posizione.
Ma i media dovrebbero fare un altro mestiere: è sulle cause della protesta e sulle mancate risposte dei governi che bisognerebbe porre tutta la necessaria attenzione, facendo prevalere per una volta il tentativo di comprendere e non quello di stigmatizzare. Una domanda non andrebbe mai evasa: hanno ragione e diritto di protestare gli esclusi? E’ una protesta di tipo ideologico o invece le piazze sono la risposta unica di chi non ha voce nei luoghi delle decisioni?
Si chiede agli studenti pacifici di isolare quelli violenti, assegnando così alla protesta il ruolo del governo della stessa. Ma queste sono condizioni non semplici e che comunque si determinano quando la protesta diventa matura, quando trova il suo sbocco politico, la sua rappresentazione organizzata. E, soprattutto, quando i soggetti che protestano diventano interlocutori delle istituzioni che al momento, invece, restano cieche e sorde. L’idea di una società piagata e disperata, colpita e umiliata, che sceglie la protesta educata e discreta, é paradossale.
Nello specifico italiano la protesta viene descritta come “rabbia”. Ma quando un governo conferma le spese folli per l’inutile TAV, il ridicolo Ponte sullo Stretto e l’assurdo acquisto dei bombardieri di ultima (e già tecnologicamente superata) generazione, mantiene inalterati i privilegi delle diverse caste mentre toglie i fondi per i malati di sla, lascia indenni i costi pazzeschi del Palazzo ma abbatte i fondi per l’istruzione, riduce alla fame le pensioni e toglie ogni tutela ai lavoratori, quale sentimento popolare dovrebbe produrre?
Il Governo Monti è, per cifre e per segno, il peggiore degli ultimi 40 anni. Mai l’Italia ha avuto numeri peggiori, mai ha avuto un debito pubblico e una disoccupazione così alta; in preda ad una spirale recessiva, mai come oggi è stata sull’orlo dell’azzeramento della sua struttura industriale e appare decisamente privata di ogni speranza di ripresa a breve-medio termine.
La proposta che indicavano gli scioperanti era, in sintesi, quella di fermare la guerra del capitale contro il lavoro; di arrestare lo strapotere finanziario e difendere le conquiste di civiltà sociale e giuridica; di ribaltare completamente le politiche di azzeramento del debito pubblico che hanno aggravato lo stesso debito, stremato il tessuto sociale collettivo e ridotto un intero continente ad una variabile dipendente della speculazione finanziaria internazionale.
Lo sciopero è stato un collante di almeno due o tre generazioni, una volta scandite non solo anagraficamente, ma anche nell’usufruire dell’ascensore sociale insito nell’idea di progresso, e che oggi si trovano unite nella totale assenza di presente e futuro, vittime del baratro di prospettiva che viene definito modernizzazione. Gli studenti di oggi saranno i precari di domani mentre i lavoratori di oggi non saranno mai i pensionati di domani. Il ciclo dell’esistenza, tra formazione, lavoro e pensioni si è interrotto. Il lavoro come attività principale nella costruzione del reddito e strumento indispensabile per il miglioramento delle condizioni materiali di vita è - e sempre più sarà - un’opportunità per pochi.
La guerra scatenata dal capitale contro il lavoro è stata la forma complessiva che i paesi liberisti hanno adottato di fronte alla globalizzazione. La concentrazione spaventosa di ricchezza in poche mani ha determinato il drammatico allargamento della povertà alla stragrande maggioranza della popolazione. Lo spostamento della ricchezza dai redditi da lavoro a quelli di Borsa non è stata minimamente contrastata, anzi permane una differenza gravissima nella tassazione a favore della rendita.
La speculazione finanziaria, che continua imperterrita a dettare legge non solo sui mercati, ma anche sui governi, non ha dovuto subire nessun freno, non è sottoposta a nessuna regola e i costi del suo rifinanziamento li ha pagati e li paga la quota maggiore della popolazione mondiale. Mentre tentano di piegare l’Europa intera alla logica dello spread sui titoli, i centri finanziari continuano a detenere e ad usare quote spaventose di titoli spazzatura, ormai arrivati ad un importo superiore all’intero PIL mondiale. Carta straccia e diritti stracciati: é questa l’essenza dell’economia di mercato?
Mai, come nell’epoca attuale, il capitalismo ha offerto il suo volto più truce. Liberato dal confronto con modelli diversi e alternativi, ha potuto togliersi la maschera di sistema inclusivo e scatenare la sua voracità nel processo di accumulazione rapida, violenta ed esclusiva a vantaggio di alcuni centri di potere economico e finanziario. Non si tratta, ovviamente, di sociologica ferocia: portare il 99% della popolazione al minimo è lo strumento unico per tenere l’1% al massimo. Si depaupera in profondità l’economia di ogni paese non in nome di un cinismo e di una ferocia senza limiti, ma dalla necessità di aggiornare i processi di accumulazione dei capitali. Il lavoro, in questo senso, non è un elemento duale di relazione con il capitale, bensì il suo nemico dichiarato, a meno di non essere ridotto a pura schiavitù.
Di fronte a questo scenario, all’assenza di ogni pallida forma di resistenza dei governi nei confronti della speculazione internazionale e alla contemporanea incapacità della politica tout-court di rappresentare la disperazione sociale che fa guardare persino ad un passato difficile con nostalgia, è del tutto inutile affidare le risposte ai manganelli.
Oggi, anche grazie ad una cosiddetta sinistra che ha incamerato e metabolizzato la cultura mercatista, che si dimostra non solo incapace ma addirittura non interessata a proporre un disegno aggiornato di una teoria e una prassi della trasformazione della società, i bisogni di quella parte di popolo espulso dal ciclo economico attivo non sono rappresentati.
L’accettazione supina di questo sistema, la sua definizione di processo ineluttabile, di ultima pagina della storia, lascia sul terreno ogni forma di civiltà e di progresso per le società di massa. E così, a seguito di una crisi che disegna uno scenario generale di precarietà, una caduta verticale del tenore di vita del 99% della popolazione e dell’arricchimento smisurato ed insultante dell’1%, si offre a queste e alle prossime due generazioni un senso di assoluta inutilità della formazione culturale e professionale, il vuoto a perdere di una scala dove i gradini permettono solo di scendere.
E allora davvero sono i manganelli a poter e dover fornire le risposte di intere generazioni? Davvero l’assenza di ordine sociale può essere sostituito da una lettura repressiva dell’ordine pubblico? Le risposte vanno cercate altrove e la politica che oggi finge allarme farà bene a reindossare gli abiti che le competono. Perché se lo studio, il lavoro e il welfare sono precari, anche l’ordine pubblico lo diventerà.