di Mariavittoria Orsolato

Esattamente un mese fa, alle soglie della sua prima campagna elettorale per le politiche, Beppe Grillo aveva detto senza mezze misure che chiunque non la pensasse come lui all’interno del Movimento 5 Stelle poteva «prendere e andare fuori dalle palle». L’invettiva, diretta in primis ai “dissidenti emiliani” Giovanni Favia e Federica Salsi - il primo reo di aver messo in discussione l'orizzontalità del progetto di Casaleggio, la seconda colpevole di aver infranto il diktat sulle presenze in tv - è stata certamente illuminante rispetto ai canoni democratici che animano quello che ormai è a tutti gli effetti il partito di Beppe Grillo.

Un partito certamente esclusivo (nel senso letterale del termine) cui, secondo quanto affermato dal comico genovese, possono fare parte solo quanti non hanno obiezioni rispetto alla sua idea di governance. Certo una brusca retromarcia rispetto agli inizi, quando i meetup crescevano come i funghi e l'irrinunciabilità del dibattito veniva sbandierata in opposizione alle nomenklature della politica tradizionale.

Probabilmente conscio che su scala nazionale i numeri contano parecchio, in questi primi concitati giorni di campagna elettorale, Beppe Grillo ha deciso di cambiare strategia, optando per la via dell’inclusione e, non tanto a sorpresa, ha aperto le porte del suo movimento ai sedicenti fascisti del terzo millennio. L’occasione è stata la veglia per il deposito dei simboli per la tornata dei prossimi 24 e 25 febbraio.

Nella lunga coda formatasi davanti al Viminale, il comico e blogger genovese ha intrattenuto un’amabile conversazione (a favore di telecamera) con il vice presidente di Casa Pound Simone Di Stefano, sottolineando le numerose convergenze programmatiche e invocando “l’ecumenismo” della sua formazione, pronta ad abbracciare anche i neofascisti a patto che si riconoscano nel suo programma in 51 punti. In soldoni, il braccio di Casaleggio ha affermato candidamente che il grillismo non è ideologicamente contro il fascismo, che l’antifascismo «non è un problema che gli compete» perché «le questioni importanti sono altre».

Un'uscita perlomeno infelice per quanti si sono avvicinati al Movimento 5 Stelle da sinistra, ma assolutamente giustificabile per buona parte della base che difende a spada tratta il comico genovese. E lo fa adducendo la semplicistica motivazione che per i grillini le divisioni ideologiche tra destra e sinistra, tra comunisti e fascisti, appartengono alla vecchia politica e dunque sono da scardinare o quantomeno da ignorare in vista di un risultato politico. Come scrive Andrea Scanzi sul Fatto “le regole del M5S sono semplici e chiare (“ecumeniche”, direbbe Grillo): incensurati, niente tessere, due mandati, programma. Stop. Se poi alcune battaglie sono condivise da fascisti, comunisti, talebani, mengoniani o venusiani, il M5S le vota. Se Casa Pound è contraria agli inceneritori, il M5S vota con Casa Pound ”. Ma guai a chiamarlo opportunismo politico: il Movimento 5 Stelle ci tiene a ballare da solo e poco importa che le parole di Grillo facciano intendere tutt'altro riguardo quella che sarà l'effettiva prassi politica una volta giunti a Montecitorio.

Che questa strategia stia però lentamente cominciando a mostrare la sua inefficacia lo dimostrano i numeri. Il gradimento del comico genovese è sceso al 16% e, sebbene le proiezioni preconizzino un numero di seggi alla Camera che oscilla tra i 90 e 100, sono in molti a storcere il naso di fronte all’apertura del Movimento ai neofascisti di Casa Pound - grillini emiliani prima di tutti - e tra gli eletti alle amministrative cominciano le prime defezioni. Se Giovanni Favia si è candidato come da copione con la lista civica di Antonio Ingroia, a Carpi, in provincia di Modena, Lorenzo Paluan, consigliere comunale sostenuto dalla Lista civica 5 stelle e da Rifondazione comunista, ha deciso di sconfessare il simbolo di Grillo.

Lo scrive in un lungo comunicato d’addio: “Possiamo dirci non antifascisti, quindi, per quanto mi riguarda, la mia esperienza con il Movimento 5 Stelle, si interrompe qui, perché quello che per me era chiaro ed evidente nella pratica quotidiana di questo movimento, non può compensare certe uscite ed esternazioni di quello che (purtroppo anche qui venendo meno rispetto alle premesse di due anni fa), si definisce il suo capo politico”.

Quello che infatti manca a Grillo e a (buona) parte del suo seguito - e di cui invece pare far tesoro Paluan - è la memoria della storia recente e la consapevolezza di quanto stia accadendo fuori dai confini nazionali. L’ignoranza della storia recente (attenzione, non antica: recente) che emerge dalle parole di Grillo e da quelle dei selezionatissimi commentatori del suo blog è palese e incontrovertibile. La violenza fascista viene sempre declinata al passato remoto, relegata al nefasto Ventennio, mentre tutti i rigurgiti del nostro passato prossimo vengono derubricati o bellamente ignorati: come se non fossero esistite le trame nere, le bombe nelle banche e nelle piazze, e negli ultimi dieci anni non si fossero verificate in tutta Italia aggressioni fasciste contro migranti e attivisti di opposte idee politiche, omicidi, incendi di centri sociali ed altre amenità che certamente non appartengono alla categoria dell'antifascismo.

Allo stesso modo, l'attualità internazionale non viene minimamente tenuta in conto: i grillini “se ne fregano” del fatto che ora, in Europa, si stiano sviluppando forze apertamente neonaziste che, in certi casi - come in Grecia e Ungheria - si radicano nella società formando dei veri e propri movimenti popolari di massa, radicali, razzisti, ultraviolenti e tendenti al pogrom, il cui obiettivo dichiarato è la distruzione di ogni organizzazione sindacale, politica e culturale dei lavoratori, l’appiattimento di qualsiasi resistenza civile, la negazione del diritto alla differenza e lo sterminio (anche fisico) dei “diversi” e dei più deboli.

Insomma, se per far parte del movimento di Grillo è necessario pensarla allo stesso modo del leader  e se il modo di pensare del leader è uguale o comunque vicino a quello dei neofascisti di Casa Pound, allora il Movimento 5 Stelle, dinanzi al bivio valoriale (storicamente impossibile da eludere) tra sinistra e destra, sarà più portato a svoltare verso quest'ultima. E poco importa che prima dello scambio di battute con Di Stefano, Beppe Grillo avesse rimarcato come il Movimento 5 Stelle fosse un argine all’esplosione del radicalismo di destra, riferendosi ai successi di “Alba Dorata” e Marine Le Pen: affermare apertamente di essere né di destra né di sinistra, la storia ce lo insegna, significa reazione e conservazione. E solitamente non promette mai nulla di buono.


di Fabrizio Casari

Personalità di spicco del mondo della cultura? Poche. Rappresentanti del mondo del lavoro? Ancora meno. Nelle liste elettorali, per la parte riservata alle personalità esterne ai partiti, abbondano invece i senza storia, i senza titolo, il niente con la fama intorno. La campagna elettorale dei partiti, più che dipanarsi sullo scontro tra programmi e identità politiche e culturali, per ora si esprime nel reclutamento dei famosi. Ed é tutto un fiorire di candidature della cosiddetta “società civile”, con ciò intendendo ogni persona che non vive facendo politica attiva, quelli cioé per cui la politica è la continuazione dell’esposizione mediatica con altri mezzi.

Sono i cosiddetti “prestati alla politica”, ma pare che soprattutto si prestino a farsi usare come specchietto per le allodole. Tra i partiti si è scatenata una guerra a chi si accaparra il nome più famoso, sia esso appartenente ad un campione dello sport (ma anche un ex può andar bene) come ad un esponente dello star system cinematografico e televisivo. Non saranno i nani e le ballerine dell’epoca craxiana, tantomeno le amiche traformate in deputate, ma certo è che lo spettacolo di bassa lega continua a giocare un ruolo determinante. Un ruolo da sottobottega, intendiamoci, giacché pochissimi dei candidati avranno la capacità e la disponibilità di ritagliarsi un ruolo preciso.

Nessuna illusione può essere coltivata: i partiti hanno obiettivi ben diversi da quelli che coltivano le starlette che salgono sul pulmino per il giro turistico della campagna elettorale. Loro sono solo la nota di colore, il tentativo di dimostrare che il partito che li presenta è aperto alla società civile e, soprattutto, che di quel partito c’è da fidarsi. La speranza implicita dei partiti è grosso modo quella d’intercettare i voti dei fans dei personaggi in questione, ritenendo (giustamente) che una parte dell’elettorato vota in ragione della simpatia e dell’antipatia, che decine di migliaia di voti vadano pescati nel tifo sportivo, nelle divoratrici di rotocalchi.

E loro, le starlette, in questo vuoto pneumatico, in questa licenza forzata dell’intelletto e della capacità critica di lettura dei fatti e dei misfatti, ci sguazzano. Sembrano più che altro soprammobili di un arredo vecchio, fungono da richiamo per i gonzi, servono ad occupare qualche mezza pagina dei settimanali di gossip ad uso del voto femminile. Non sono portatori di nessun valore aggiunto e ripropongono semmai, per i palati fini, il tema dei partiti ormai ridotti a puri comitati elettorali.

Il parvenu della politica, un tempo definito il sobrio professore, con il consueto tono metallico e monocorde tenta di cimentarsi nella sfida con il PD anche reclutando l’improbabile. L’ultima in ordine di tempo è la schermitrice Valentina Vezzali, un tempo disponibile, ovviamente in senso schermistico, a “farsi toccare” dal cavaliere di Arcore. Colpisce nella campionessa di scherma l’approccio alla politica: “Ho detto sì con piacere, adesso dovrò leggere il programma e cercare di capirci qualcosa”. Quando si dice una scelta ponderata e motivata.

Cosa dire? Non siamo nemmeno più di fronte ad un sussulto di protagonismo politico che invita a lasciare il campo dove ci si è guadagnata fama e onore per mettersi al servizio di un’idea, di un progetto, di uno straccio di proposta. Siamo in un’altra dimensione: quella della priorità del proprio status a prescindere dall’interesse per la materia. Si aderisce perché si ritiene che sia una buona operazione di marketing e d’immagine personale, un viatico economico importante, un modo come un altro di allargare le frontiere della propria personale fama. E a noi, che alla politica crediamo, ci viene forte la malinconia.

di Rosa Ana De Santis

Come nella migliore tradizione, anche in questa campagna elettorale Casini gioca a fare da sponda  senza alcun sussulto di autonomia. Questa volta è il turno del professore cui l’Udc ha garantito fedeltà assoluta, in modo a dir poco schienato. Novello avvocato difensore dell’agenda Monti, in barba ad ogni preoccupazione sociale sulla situazione del Paese, sembra piuttosto desideroso di blindare gli interessi che ruotano intorno alla lobby nascente della “lista dei carini” che finge di non avere collocazione politica (come se questo poi fosse un dato di merito) e che utilizza pretestuosamente la scusa della competenza tecnica tirannizzando la politica, ridotta ad accessorio servile con la disponibilità di due sconfitti cronici illustri: Casini e Fini.

Il picco di questa amnesia politica di Casini, che per anni ha adescato consensi con la retorica della neo democrazia cristiana, della tradizione dei La Pira e dei Moro, dello spirito costituente cristiano che ha dato molto alla giovane repubblica italiana, arriva nello scontro con Nichi Vendola. Alla denuncia del leader di Sel dello scandalo della ricchezza rimasta intoccabile sotto il governo dei tecnici, della divorante povertà popolare, all’iperbole dell’inferno per i ricchi, Casini reagisce con un impeto sorprendente, come soltanto il portaborse del professore Monti, ma nemmeno, forse come sua moglie o suo figlio farebbero.

Si indigna il leader di quella che voleva essere la nuova DC per un linguaggio marxista-leninista da anni 70: superato, fuori moda, insidioso, pensa lui. Molto poco adeguato ai rampanti della finanza, nominalmente imprenditori, che si sentono più giusti solo indossando il maglioncino al posto della cravatta.

Eppure “è più facile che un cammello passi nella cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli” non è esattamente un frammento dei Lineamenti di economia di Marx, ma il Vangelo secondo Matteo. Non stupisce che sia Vendola a dare lezioni di cristianesimo e cattolicesimo a Casini, il quale è sempre stato solo un credente d’ufficio come quando la chiesa gli ha commissionato in Parlamento le campagne su aborto e eutanasia, ma non lo è mai stato abbastanza quando la politica avrebbe avuto il dovere di ragionare di laicità, equità e giustizia sociale.

Il Natale dei poveri, appena trascorso tra le mense di S. Egidio e la Caritas con le famiglie prostrate, avrebbero dovuto trovare in un politico di ispirazione cristiana un delatore pubblico delle immorali politiche di welfare adottate per omaggiare la finanza e per togliere le virgole dello spread; invece lo hanno visto osannare l’IMU dei ricchi, persone perbene, quasi come una prova di generosità. E’ bastata l’elemosina, come quella promessa ai malati di SLA, a dare a Casini la pace del confessionale per aver svenduto una tradizione, quella si davvero nobile pur con le nefandezze storiche,  al primo mercante del tempio.

Non è questione di romanticismo delle idee, ma di quel binomio morale-coerenza politica che rende le istituzioni degne della loro funzione. Rimane poco di tutto questo quando ci si lamenta della legge elettorale dopo però averla votata; oppure quando si dice no all’amnistia mentre ci si batte per tenere in lista un Lorenzo Cesa, condannato in primo grado per corruzione aggravata con sentenza annullata per vizio di forma ma che rimane ben custodito nella casa dell’Udc. La stessa di Cuffaro del resto.

L’ultra cattolico Casini deve aver letto male anche i Dieci Comandamenti, ma è perfettamente conscio di come, anche il perdono della Sacra Rota, possa arrivare quando si accompagni a legiferazioni utili alla causa di Santa Romana Chiesa o anche solo a giuste e comode appartenenze di censo. E’ proprio così che le prerogative di pochi uomini di Chiesa diventano peccati per il popolo di Dio.

di Fabrizio Casari

Nel suo esagerato peregrinare televisivo di questi ultimi giorni si è potuto ammirare come il professor Monti abbia nei suoi privilegi e nella sua personale convenienza la stella polare di ogni ragionamento. Si candida dietro le quinte per non rischiare il vitalizio, pensa di governare senza vincere le elezioni, moltiplica le liste per lucrare in termini di par conditio e interdizione parlamentare. Ma non era un sobrio tecnico super-partes?

Vediamo il metodo. Propone d’innovare con Casini e Fini, di modernizzare battezzando la coalizione in un convento, parla di diritti delle donne compilando l’agenda con altri quattro uomini, utilizza la gestione per gli affari correnti del governo per presentarsi in tutte le reti a fare propaganda per lui e la sua agendina mentre chiede agli avversari di silenziare i suoi critici. Insomma, non solo sceglie solo lui i suoi, ma pensa di farlo anche per gli altri. Dove sia lo spirito moderato resta un mistero.

Della vituperata tradizione politica italiana, il professore pare cogliere gli aspetti meno nobili, quali intitolarsi personalmente un progetto politico, imbarcare residuati d’ogni risma e colore, proporre ricette in cui non crede per rastrellare voti, offrirsi come ago della bilancia per future e disinvolte alleanze. Ma il dato nuovo, rispetto ad altre aggregazioni più o meno fortunate, è quello di chiedere potere senza esporsi direttamente, pensando di poter governare senza vincere le elezioni (come un qualunque Ghino di Tacco); esporsi e nello stesso tempo defilarsi, presentando un’operazione che in caso di vittoria si assegnerebbe e in caso di sconfitta scaricherebbe su Fini e Casini che lo sostengono.

Vogliamo passare dal metodo al merito? Con uno dei suoi mirabili giochi di parole, Dagospia ha definito l’agenda Monti “agendina in pelle riciclata”. Ma, ironia a parte, è proprio la sua agenda che merita un’ulteriore riflessione, dal momento che se è vero che poche volte come nell’occasione il nulla cosmico è stato spacciato come il sale della terra, è altrettanto vero che il Monti-pensiero è oggi pericoloso per le pulsioni autoritarie che implica. Non c’è nessun pensiero di livello medio-alto, condivisibile o meno, nelle paginette. In una sostanziale rivoluzione copernicana dell’esistente, Monti spiega che la finanza non è una branca dell’economia e che questa non è uno degli aspetti del vivere determinati dalla politica, bensì il contrario.

Non è un caso che ritenga le elezioni un’inutile rito politicista, pur trovandocisi però a meraviglia. La politica, nell’immaginario montiano, è una fastidiosa variabile dell’organizzazione sociale che non può che essere definita dal mercato, dunque ha un ruolo solo se asseconda il modello. In questo senso non ci sono sinistra e destra che si avversano in quanto portatori di identità e progetti alternativi tra loro, giacché la disputa ideologica è un aspetto ormai anacronistico nell’era del pensiero unico. Dio in chiesa e il mercato liberista fuori dalla chiesa: non c’è molto altro.

Quella che viene fuori dalla lettura dell’agendina è un’idea del governo dei popoli e dei paesi che archivia d’un colpo le contraddizioni epocali sul cui sfondo l’umanità ha costruito, secoli dopo secoli (e guerre dopo guerre), l’ambizione all’elevazione del genere umano. Le grandi questioni che hanno terremotato la storia dell’umanità, nella carne come nello spirito, sono infatti archiviate per sempre.

Da chi? Da una nuova divinità superiore: il pareggio di bilancio, che seppellisce definitivamente la sovranità nazionale degli stati e la loro autonomia nel prefigurare il modello di sviluppo. Scompaiono così la contraddizione tra l’autoritarismo e la democrazia, tra il progresso e la reazione allo stesso, tra la concentrazione monopolistica della ricchezza e l’allargamento al maggior numero di persone della stessa. Diventano anticaglia le culture dei diritti sociali ed economici, la diversità tra i modelli inclusivi e quelli esclusivi di organizzazione sociale, tra l’estremismo liberale e le costituzioni democratiche che hanno favorito il ruolo regolatorio e ordinamentario degli stati e delle organizzazioni internazionali. La democrazia diventa una superstizione o poco più, non è un caso che l’agendina non ne faccia cenno.

E’ un’agendina minimal, di spessore intellettuale pari a zero, quella con la quale il funzionario dell’Unione europea chiude la storia europea; libertà, fratellanza, uguaglianza, i principi cardine dall’illuminismo fino alla Rivoluzione d’Ottobre, diventano oscure tracce del passato e persino la diversa concezione dello sviluppo economico che ha animato lo scontro secolare tra socialismo e capitalismo e, all’interno di quest’ultimo, tra economia sociale di mercato e liberismo, tra modello inclusivo ed escludente, sono artefatti ormai superati. Siamo quello che mangiamo, niente di più. Parola di Monti.

Quello che c’è di chiaro nell’agendina è davvero poco, ma è quello che viene malcelato ad essere più preoccupante. Non si parla di democrazia, di governance, di diritti sociali e di lotta alle diseguaglianze, perché sono temi che suscitano la riflessione e l’azione politica; di per se stessi, perciò, portatori di regole d’ingaggio per i popoli in chiave di allargamento della sfera dei diritti, che trasformano i sudditi in protagonisti, i governati in cittadinanza attiva. Pulsioni pericolose e controproducenti per i mercati, che non sopportano distrazioni quali la sovranità popolare; i controllori non tollerano essere controllati, men che mai regolamentati.

L’Europa dei banchieri e dei tecnocrati non prevede infatti allargamento della sfera dei diritti sociali e politici, riduzione delle diseguaglianze, ricerca degli equilibri attraverso la mediazione sociale. Perché la lotta alle diseguaglianze, utile anche per le politiche di crescita oltre che sacrosanta e persino in linea con l’originario spirito europeista, viene temuta in qualità di freno oggettivo al comando centralizzato dell’Europa delle banche e della speculazione finanziaria, proseguimento con altri mezzi della supremazia industriale un tempo vigente.

E la famosa Europa? Il disegno contenuto nell’agendina non la propone come continente unito e unitario, come dimensione sovranazionale di un’identità politica pur difficile da raggiungere, ma solo come Europa della finanza e della moneta, concependo l’ortodossia della ragioneria finanziaria ultraliberista come Alfa e Omega dell’orizzonte politico europeo.

Non ci si pone mai l’interrogativo sull’efficacia del modello e sul deficit profondo che vige tra le aspirazioni contenute nel disegno dei padri fondatori della UE e l’egemonia assoluta del panzern tedesco, che continua da secoli a immaginare il vecchio continente come la sede geografica del suo impero, il luogo da quale estrarre ricchezza e forza destinate alla proiezione internazionale del Reich. Tantomeno si ricorda come proprio l’esigenza di arginare la pulsione imperiale tedesca sia stata una delle motivazioni che hanno determinato la costruzione del Manifesto di Ventotene.

Non sono dimenticanze figlie della fretta, non si tratta di omissioni interessate o di superficialità dell’analisi, pure colpe presenti a dosi massicce nell’esposizione di Monti, autodenominatosi economista senza esserlo (è professore di economia, che è cosa assai diversa) statista (senza mai esserlo stato) e indipendente (ruolo smentito da tutta la sua carriera al servizio di banche e partiti).

Quello che dalle paginette emerge con chiarezza è l’assoluta assenza di un pensiero mentre abbonda la dottrina del primato assoluto dei numeri. Come fosse stata redatta a Manchester, emerge come l’idea che Monti e i suoi ispiratori hanno dell’Europa è la stessa da sempre: non un continente dove sperimentare un modello democratico e federale, ma governato dal comando assoluto dei centri finanziari, pronti, all’occorrenza, ad occupare le istituzioni, come appunto nel caso di specie.

In una classica nemesi, sarà la dura realtà dei numeri a riporre Monti nell’abito che gli appartiene, saranno le percentuali elettorali a definire una volta per tutte lo spessore del personaggio e la fiducia popolare di cui gode. Nei circoli dell’Europa che conta (e persino in seno al suo primo sponsor, il Vaticano) sembra ci siano già le prime delusioni, non si credeva che il livello di consenso potesse essere così basso. Previsioni? Niente di strano che l’omino con i poteri forti alle spalle che voleva mangiarsi l’Italia, tra meno di due mesi si trovi con le spalle scoperte e l’Italia sul gozzo, inducendo i suoi riferimenti a cercare un uomo diverso con cui riprendere il gioco. Tornerà utile allora non aver comodamente rinunciato al “sobrio” vitalizio da senatore a vita.

di Fabrizio Casari

L’agenda. Adesso, nella sobria era in cui imperano gli austeri senza rimedi, i programmi si chiamano così. L’agenda, notoriamente, indica le incombenze giornaliere; predisporre obiettivi di lungo respiro, identificare i problemi e le soluzioni agli stessi non è compito del datario. In questo senso, il programma presentato da Monti è coerente con le caratteristiche di un’agenda. Che però, a misurare lo spessore delle tesine esposte, meglio sarebbe definirla un’agendina. Insomma se qualcuno si aspettava un progetto, un programma, un orizzonte politico e teorico sul quale costruire una nuova forza politica rimarrà deluso.

A sfogliarla vi si trova invece la quint’essenza del montismo e della sua ricetta: una miscela di cilicio e olio di ricino necessari per il ristabilimento dell’unico primato, quello del dio mercato che tutto governa e tutto corregge. Accarezzarne i flussi, sottoporre paesi e persone ai suoi voleri, sarebbe il compito essenziale della politica. L’analisi di quanto combinato in un anno è solo in chiave auto elogiativa. L’economia in recessione, il record assoluto di disoccupazione, la caduta verticale del PIL, il record di pressione fiscale, il taglio della spesa pubblica mentre si aumentavano gli sprechi della stessa, aver alzato un muro invalicabile contro l’accesso al lavoro dei giovani mentre si obbligano gli anziani a rimanervi, sono alcune delle perle che l’ex-advisor di Goldman Sachs evita di citare.

Preferisce raccontare della ritrovata credibilità internazionale, facendo finta di non sapere che chiunque dopo il pagliaccio di Arcore avrebbe ispirato un generale sospiro di sollievo nelle cancellerie europee e che la ritrovata considerazione è figlia della devozione che il governo italiano ha mostrato al sistema bancario e al governo tedesco.

Nell’agendina non c’è nessun accenno alla parola democrazia, così come non s’intravede la questione sociale: come affrontare i temi preminenti di ogni governance, quali diseguaglianze, deficit democratico, emergenza ambientale, sono dettagli che non distraggono la sobria esposizione dei doveri. E ovviamente, non essendoci la politica, non può esserci nessuna divisione tra destra e sinistra, soprattutto perché la prima è “l’oggi” mentre la seconda (un tempo nobile, si riconosce) è diventata “perniciosa”. D'altra parte, se ci fossero destra e sinistra lui che starebbe a fare?

Qual è ad oggi lo schieramento che sostiene quest’agendina? Tutta la destra conservatrice italiana che, pur avendolo fatto in passato, non riesce più a stare con il cavaliere nero. Dalle gerarchie ecclesiali alla Confindustria, dagli esuli del PDL e di AN agli editorialisti del terzismo, dai nuovi figuranti del terzo polo a trazione vaticana agli ex-sindacalisti CISL. L’intendenza che segue somiglia molto alla grande ammucchiata: ci sono politicanti di spesso pelo e di lungo corso, ex di qualunque cosa e futuristi ipotetici, rampolli di buona famiglia mai sporcatisi di lavoro e giornalisti impegnati a battere la grancassa. Ultimi arrivati, i liberali.

Ma come metterli insieme? Pare sia da sciogliere ancora un dubbio non da poco: lista del professore inzeppata di nomi o di partiti? Il premier non ha ancora deciso se convenga far confluire in essa anche i partiti che lo sostengono (Udc e Fli) anche alla Camera - al Senato la scelta appare obbligata - o se convenga mantenere le diverse identità. L’incognita finale pare essere legata all’attesa del discorso di fine anno del Presidente Napolitano.

Il professore intende - stando alle parole di Ichino - preservare l'originalità di un'offerta politica rivolta soprattutto alla società civile. Ma l' ipotesi lista unica presenta anche diversi svantaggi: ''Con il Porcellum avere più liste alla Camera significa avere più deputati'', ha spiegato all’Ansa una fonte che sta lavorando al dossier. Idem dicasi per la par conditio: più liste significa maggiore spazio.

Sulla questione lista con o senza partiti Casini è preoccupato: rinunciare allo scudocrociato sarebbe un vero peccato soprattutto per lui. Forse per questo il leader Udc ha messo le mani avanti: “Stiamo lavorando ad un’area di responsabilità nazionale in cui troverà spazio chi crede nel valore della buona politica, mentre gli opportunisti dell'ultima ora saranno lasciati fuori”.

Certo, possono sembrare attimi di comicità involontaria, ma Casini non va sottovalutato: è uomo di abilità e di conoscenze importanti, al punto che nella sua circumnavigazione da una parte all’altra dell’emiciclo parlamentare, è sempre stato al centro di tutto e dimostra quotidianamente come il numero dei voti sia inversamente proporzionale al minutaggio nei Tg Rai. Dietro di lui l’ultra-ambizioso Riccardi, che lancia moniti, ordina regole e da luce verde, gialla o rossa al semaforo dei questuanti: sembra ormai il delegato pontificio alla colonizzazione del regno.

La campagna però è partita e la stampa e la propaganda montiana cerca di dimostrare di non essere seconda a quella berlusconiana. Ci sarebbe - dicono fonti vicine al professore - un sondaggio che indicherebbe la formazione elettorale di Monti al 20 per cento. Un sondaggio abbastanza misterioso, dal momento che se Grillo viene accreditato di un 15 per cento, Bersani del 30 e Berlusconi si dice al 20, non si capisce bene dove finirebbe il 35 per cento degli accreditati al “non voto”. Altri sondaggi, più attendibili, danno al professore una forchetta tra l’otto e il dodici per cento, decisamente più credibile, pur se ugualmente generosa.

Il sospetto è che si stia pompando il professore oltre ogni ragionevole meccanismo propagandistico. Stare sui giornali a ricevere incenso quotidiano fornisce certo un aiuto significativo, ma la lettura politica più probabile è quella che vede Monti disputarsi i voti del centro-destra con Berlusconi e con la Lega, mentre la quota di consensi che può sottrarre al PD appare decisamente trascurabile.

Ora, considerando che tutto il centrodestra unito, da Storace fino a Pisanu, prima della disfatta politica del berlusconismo non arrivava al 38 per cento, sembra davvero un miracolo quello di accreditare oggi il centrodestra complessivamente inteso al 40 per cento e poi sommarci pure la Lega. Va bene l’affetto del Vaticano, ma i miracoli sono appunto tali e, com’è noto, non amano esercitarsi in politica.

 

 

 


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