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di Fabrizio Casari
Passato attraverso due guerre mondiali, sette papi, la monarchia, il fascismo, la Liberazione, l’Assemblea Costituente, la prima e la seconda Repubblica, per sette volte presidente del Consiglio (dal ’72 al ’92) e ventidue volte ministro (Difesa, Esteri, Finanze, Bilancio, Tesoro e Interni) Giulio Andreotti è stato, quale che sia il giudizio che si voglia dare sul suo operato, un protagonista assoluto della storia politica italiana e in qualche modo lo specchio riflesso delle idiosincrasie del nostro paese.
Per alcuni un divo, per altri un diavolo, Andreotti è stato un leader politico a tutto tondo. Insieme ad Aldo Moro e Amintore Fanfani ha rappresentato l’anima più profonda della storia della Democrazia Cristiana e, per certi aspetti, nella parte conclusiva della sua attività, il tentativo meglio riuscito, pur se mai vincente, di dare un respiro autonomo sul piano delle politiche internazionali.
Per tutta la prima parte della sua infinita stagione politica, Andreotti è stato uomo fedele al Patto Atlantico e fedelissimo a Oltretevere. Nella seconda parte della sua vita politica, invece, il rapporto con il Vaticano rimase a prova di fedeltà assoluta mentre lo stesso non poté dirsi di quello con gli Stati Uniti. Da anticomunista deciso si adoperò con ogni mezzo per impedire l’arrivo del PCI al governo, non lesinando sforzi nella stessa costruzione di Gladio, la struttura clandestina anticomunista che venne creata per far fronte sul piano militare ad una eventuale vittoria elettorale del PCI. Partecipò attivamente alla costruzione del muro che doveva impedire lo sfondamento delle sinistre in Italia e si dedicò con ogni energia al raggiungimento dell’obiettivo, così come del resto prevedeva la divisione del mondo in sfere d’influenze sancita con il Trattato di Yalta.
Non era Dossetti e la stessa scuola di De Gasperi gli andava stretta. Machiavelli era il mentore ideale. Come disse Indro Montanelli, "quando andavano in chiesa insieme, De Gasperi parlava con Dio, Andreotti col prete". Il potere, la sua stabilità, la capacità di gestire, con Andreotti conobbero la dimensione dell’obiettivo in sé. Il potere non come mezzo per governare, ma il governare come strumento per raggiungere e conservare il potere. Il potere che "logora chi non ce l'ha", come disse.
In questo senso non si fece troppi scrupoli a costruire e rafforzare la sua corrente interna alla DC quali che fossero i rapporti da tenere: da Lima a Ciancimino per il rapporto con la mafia, così come Gava per quello con le parti meno nobili della Campania e poi Sbardella nel Lazio, tanti altri ovunque. Che Andreotti fosse l’anello di congiunzione tra Roma e Palermo è cosa ormai accertata, pur non essendo ancora del tutto chiaro chi usava chi. Forse sarebbe utile, per capire, mettere le mani sui 3.500 faldoni che, dal 1944 in poi, custodiscono i suoi “appunti riservati”. I segreti inconfessabili di quasi sessant’anni di potere, se li è portati con lui.
Restò fermamente anticomunista anche nella prima metà degli anni ’70, quando il PCI varava il compromesso storico e iniziava la separazione da Mosca, scontrandosi duramente con Aldo Moro che avviava la stagione delle cosiddette “convergenze parallele”. Per Andreotti invece il problema non era coinvolgere il PCI nell’area di governo, ma salvaguardare il ruolo centrale della Democrazia Cristiana. Sul piano dell’elaborazione politica coniò la strategia dei due forni, che vedeva la Dc al centro del sistema politico e che, di volta in volta, sceglieva il "panettiere" più conveniente tra sinistra e destra.
Per rafforzare il suo potere, non esitava a scegliere qualunque tipo di terreno. E, così come sul piano della raccolta dei voti non guardava per il sottile, nell’ambito di questa strategia non si sottraeva a nessun tipo di compagine governativa: dal monocolore all’alleanza con la destra, dal pentapartito a quella con i socialisti, fino all’unità nazionale che, poche ore dopo il rapimento di Aldo Moro, vedeva la nascita di un monocolore democristiano con Presidente Andreotti grazie all’astensione del PCI.
Nei primi anni '80, giudicando ormai sostanzialmente superato il rischio di una presa del potere da parte dei comunisti, Andreotti si convinse che era giunto per l’Italia il momento di allentare i cordoni che tenevano il paese nella dimensione del protettorato Usa e si adoperò, per il resto della sua vita politica, ad un disegno strategico che tendeva a inglobare il PCI ormai lontanissimo da Mosca e da qualunque ipotesi di conquista del potere e, nel contempo, a sviluppare una politica estera improntata al dialogo con i paesi del Medio Oriente.
Andreotti pensava che una forza come il PCI non poteva rimanere a lungo vittima della conventio ad excludendum e che più utile sarebbe stato farla approdare con decisione nell’alveo europeo delle sinistre moderate piuttosto che tenerla ai margini del sistema nel quale, peraltro, il PCI costruiva la sua forza, governando tutte le principali città italiane e molte delle sue regioni. Come disse una volta, “senza il PCI la Camera non può fare nemmeno gli auguri di Natale”. Dell’appoggio del PCI c’era bisogno sia per governare l’Italia, sia per un ruolo determinate italiano in Europa.
Sedette alla Farnesina dal 1983 al 1989 svolgendo in prima fila il ruolo di collegamento e dialogo politico tra Occidente e Oriente. Fu protagonista indiscusso dell’apertura al dialogo con l’Est europeo e svolse con assoluta efficacia il ruolo sempre in sintonia con le posizioni vaticane. Aveva un disegno di politica estera preciso: riteneva che la salvaguardia degli equilibri geopolitici dell’area del Mediterraneo era la sola strada possibile per la costruzione di una Europa che avesse un senso politico oltre che economico e che, in tale contesto, l’Italia doveva e poteva svolgere un ruolo di cerniera importante con la sponda mediorientale.
Proporsi come interlocutore privilegiato in Medio Oriente era da lui ritenuto il viatico principale per il riconoscimento della funzione fondamentale italiana, altrimenti ridotta a dimensione minore nel contesto europeo, visto lo strapotere politico, diplomatico, militare ed industriale di paesi come la Francia, la Gran Bretagna e le stessa Germania.
L’Unione dell’Europa era un progetto al quale l’ex esponente democristiano credeva (è sua la firma italiana sul Trattato di Maastricht, peraltro) e la crescita poderosa della Germania ricostruita lo inquietava a sufficienza, al punto che tra le sue battute più celebri si ricorda quella successiva alla riunificazione tedesca. Al giornalista che lo intervistava chiedendogli un parere sulla riunificazione, rispose con l’abituale ironia: “Amo così tanto la Germania che preferirei fossero due”.
La ostpolitik verso i paesi arabi gli valse però lo scontro frontale con la strategie statunitense, che culminò nel fronteggiamento dei VAM italiani con la Delta Force USA sulla pista dell’aereoporto militare di Sigonella, dove Reagan aveva ordinato di farsi consegnare Abu Abbas e Andreotti e Craxi decisero di opporsi. Si scontrarono due idee ormai contrapposte di quale dovesse essere il ruolo dell’Italia in Medio Oriente: se gli USA pensavano al nostro Paese come ad una sostanziale loro portaerei, alla propaggine ultima del loro impero, Andreotti (e anche Craxi) ritenevano invece che, pur senza mai mettere in discussione la scelta atlantica, per Roma era giunta l’ora di elaborare e condurre una propria politica estera nel Mediterraneo, contesto geopolitico di riferimento.
E, insieme a ciò e forse prima di ciò, che la politica estera dovesse accompagnarsi ad una politica economica che vedesse nell’import-export con i paesi mediorientali un’occasione importante per cementare reciproca fiducia politica, crescente interdipendenza economica e crescita esponenziale della nostra industria, oltre che garanzia di salvaguardia delle forniture energetiche.
Gli Stati Uniti, che non hanno mai apprezzato l’indipendenza altrui, fecero pagare caro ad Andreotti e Craxi quella ribellione, quello spunto di autonomia arrivato qualche decennio dopo Enrico Mattei. Non è un caso che i sei processi per mafia subìti da Andreotti (che vi partecipò da imputato senza mai chiedere leggi ad personam o legittimi impedimenti) sul piano accusatorio siano stati montati anche grazie alla collaborazione del FBI che manovrò a dovere Tommaso Buscetta.
La P2 e l’uccisione di Pecorelli (il direttore di OP), Sindona, Calvi e Marcinkus; nessuna delle vicende più oscure del potere italiano lo vide estraneo, ma nessuna condanna venne pronunciata. Venne sconfitto a un passo dalla Presidenza della Repubblica nel 1992; troppi i nemici non dichiarati rispetto agli amici presunti. Del resto Andreotti non fu certo un santo e la sua passione per il potere (unica, oltre a quella per la Roma) ne ha fornito costantemente un’immagine cinica, accostandolo ora a Machiavelli, ora a Belzebù. Difficile stabilire a chi assimilarlo, forse a entrambi o forse a nessuno dei due. Perché se l’esistenza del diavolo è una grande invenzione della chiesa cattolica, smentire l’esistenza del diavolo è il capolavoro del diavolo stesso.
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di Fabrizio Casari
Come previsto ma con velocità imprevista, ottenuta la fiducia delle Camere, Letta si è recato a rendere omaggio a Berlino. Nemmeno un passaggio veloce al Quirinale, che non è tempo di proconsoli: direttamente a corte, a riferire e a chiedere, rigorosamente in ginocchio, un via libera al suo programma e, soprattutto, un’apertura, anche minima, verso una nuova fase.
Solo così, infatti, il neonato governicchio potrebbe trovare un qualche sostegno dai mercati. Unione bancaria, fiscale, economica, politica: le parole con le quali Letta prova a dimensionare strategicamente un governo che non ha nemmeno spessore tattico, sono puro artificio retorico, termini obbligati per distrarre dalla polvere accumulata sulle ginocchia. Che la Cancelliera Merkel si faccia convincere a invertire o anche solo modificare le politiche rigoriste, che hanno garantito il maggiore surplus della storia per la Germania a danno delle altre economie europee appare decisamente comico.
La partita vera si gioca su due tavoli, uno a breve e l’altro a medio termine. Si gioca nell’immediato sulla richiesta di aiuti per ovviare alla ridotta liquidità se si volesse operare sulla riduzione o abolizione dell’IMU, come chiede Berlusconi, azionista di maggioranza del governo insieme ad operazioni contabili (già suggerite da Monti) per migliorare il quadro d’insieme nei parametri tra debito e PIL.
L’altro si gioca su una riduzione delle misure di tenuta sotto controllo del debito che causano recessione; viene declinata sotto forma di sostegno alla ripresa, ma in realtà si tratta di un’impresa disperata, stabilito che la forza politica dell’Italia, della stesa Francia e degli altri paesi europei non trova terreno unitario, essendo ancora dominante il virus monetarista che impedisce di affrontare il differenziale tra PIL e debito aumentando il primo invece che riducendo il secondo.
Le politiche per la crescita, lo sanno tutti, prevedono un allentamento della psicosi inflattiva, giacchè non vedono un punto o due in più d’inflazione come minaccia mortale; anzi, lo ritengono inevitabile per costruire la ripresa economica, unico volano per migliorare nel breve, medio e lungo termine, la condizione dell’economia europea. Prevedono altresì un sostegno diretto all’occupazione, necessario per riequilibrare socialmente i diversi paesi e fondamentale per far ripartire i consumi, unico volano per ricostruire il ciclo vitale di produzione, distribuzione e consumo.
Non c’è più spazio per manovre recessive e, pur essendo urgente un riordino della spesa pubblica con il taglio di quella improduttiva (fatta di corruzione, sprechi e clientele, enti inutili e consulenze d’oro, dotazioni costose e vergognose), è arrivato il momento di considerare il recupero dell’attività produttiva con investimenti pubblici e la riduzione del cuneo fiscale (unica via praticabile per la riduzione del costo del lavoro) per i privati che riaprano il mercato del lavoro, cui prima la speculazione poi i dotti incapaci dei Monti-boys hanno sferrato pugnalate mortali.
Sarà il governo di Letta nipote ad approntare le misure necessarie? I curricula di molti dei suoi ministri sfuggono con destrezza al rigore delle competenze con il quale ci hanno decantato negli ultimi venti anni la cosiddetta autoregolamentazione del mercato del lavoro. In un paese nel quale persino il personale ausiliario nei servizi deve esibire titoli e certificazioni, il governicchio Letta propone senza cenno di vergogna ancelle improbabili del merito.
A cominciare dalla signora Lorenzin, spedita ad amministrare una delle due gambe fondamentali della spesa pubblica, la sanità, senza avere non solo le competenze specifiche, ma nemmeno la cultura generica, essendo priva di laurea e di ogni altro certificato che ne attesti cultura generale e competenze tecniche, a meno di non voler considerare la sua attività di segretaria di Paolo Bonaiuti come formativa per governare l’Italia.
La Meg Ryan de’ noantri (l’attrice americana ci perdonerà) dovrà gestire una macchina da circa 110 miliardi di Euro l’anno senza aver avuto mai nessuna esperienza nel settore.
Lo stesso dicasi per Nunzia Di Girolamo, ormai nota come signora Boccia, che va ad occuparsi di un altro settore strategico, quello dell’agricoltura, vitale per la ripresa produttiva e per altre “banalità”, tipo la riduzione del differenziale tra import ed export. Quale competenza ha nel merito la signora? Nessuna. Non si tratta di non voler difendere la democrazia paritaria nei generi, ma le stesse donne impallidiscono a leggere funzioni e curricula. E l’elenco potrebbe estendersi lungamente.
Dunque Letta potrà recarsi in Europa a dire che serve l’unità di tutti i governi per invertire il ciclo e, contemporaneamente, dimostrare come l’Italia per prima non crede che i governi siano il luogo più alto della capacità politica e gestionale di un paese. Accettare i diktat del PDL sui nomi, oltre che sulla linea politica, è in fondo la premessa per accettare le bacchettate tedesche al primo segno di movimento delle dita per liberarsi dalla morsa. Sono il primo e il secondo tempo di una partita già persa. In fondo, la differenza tra un cristiano e un democristiano è tutta qui: il cristiano s’inginocchia davanti a dio, il democristiano davanti a tutto.
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di Fabrizio Casari
E’ già cominciata la litania pubblicistica sul governo “giovane”, con un maggior numero di donne, con i “volti nuovi”, il primo ministro di colore e via dicendo. Ma la verità è che quello presentato da Enrico Letta al Quirinale è un governicchio. Una versione 2.0 di quelli che nella Prima repubblica venivano definiti “governi balneari”. S’indicava con ciò lo scopo fondamentale della loro esistenza: bypassare l’estate, durante la quale le varie correnti democristiane affilavano le armi che poi avrebbero scagliato alla vigilia dell’autunno in vista dei nuovi assetti congressuali.
Quello presentato dal premier incaricato Letta spicca per la conclamata incompetenza dei ministri nella materia del loro dicasteri e si caratterizza per l’accentuata debolezza intrinseca, certificata dal profilo minore dei suoi esponenti. Una compagine nella quale si avverte, assordante, l’assenza dei big dei diversi partiti che partecipano all’alleanza di governo.
E’ chiaro che il governo nascerà, che otterrà cioè la fiducia dei due rami del Parlamento. Il voto palese con il quale si assegna o si nega la fiducia rende del resto politicamente impossibile agguati dei franchi tiratori. Ma il profilo minore della compagine governativa fotografa in maniera chiara la situazione: PD, PDL e Lista Civica prendono atto dell’ineludibilità del percorso ma sono perfettamente coscienti che nemmeno una parte degli obiettivi che vorrà raggiungere sono alla portata di questo governo.
Alla Camera e al Senato potranno ascoltarsi programmi che indichino nella riforma del sistema politico e nelle politiche economiche obiettivi alti, ma i risultati concretamente ipotizzabili, per la distanza tra i partiti nella lettura del processo riformatore e per l’oggettiva crisi economica e la scarsa disponibilità ad ingaggiare un braccio di ferro con Bruxelles sulla ricetta anticrisi, questo governicchio non dispone nemmeno di una quota minima dell’autorevolezza che sarebbe necessaria. Per questo i partiti impegnano nell’avventura le seconde e terze file, così da lasciarsi libere le mani per decidere quando staccare la spina.
Vi sono comunque alcuni elementi di lettura politica nella vicenda interna dei partiti e nella linea politica che questo Esecutivo rappresenta che possono essere evidenziati. Per il primo aspetto, per quanto riguarda il PD emerge nettamente come la compagine ministeriale veda la corrente democristiana vecchia e nuova (popolari e renziani) la sola ad essere rappresentata. D’altra parte è la stessa componente che ha segato le gambe al tavolo di Bersani, non risparmiando la richiesta di un governo d’unità nazionale dal giorno dopo il voto fino alla rielezione di Napolitano.
I numeri indicano come l’area della componente più legata alla solidarietà sociale sia stata schiacciata da quella più liberista. La spiegazione possibile dell’assenza degli esponenti provenienti dai DS è che la contrarietà all’operazione politica è molto più netta di quello che appare e che sarà il congresso straordinario a sancire l’ormai insostenibile convivenza tra ex-PCI ed ex DC.
Nel campo del PDL lo scontro tra “falchi e colombe”, è stato ricomposto dal proprietario del partito, che ha però ben presente quanto il governo serve a spaccare definitivamente il PD ma si tiene ben stretta l’arma del voto. La presenza di Alfano e Lupi, infatti, impegna fino a un certo punto il PDL, pronto a cogliere l’opportunità di mosse politiche utili a mettere in sicurezza il suo capo, ma contemporaneamente disponibile, tra qualche mese, a staccare la spina. Intanto si potrà dire arrivederci al progetto di legge sul conflitto d'interessi e alla legge sull'ineleggibilità, così come alla proposta di legge a firma dell'attuale Presidente del senato sulla corruzione. Anche solo cominciare a discuterne comporterebbe il ritiro del PDL e la conseguente caduta del governo.
Una volta che il PD abbia regolato i suoi conti e il centro si sia riorganizzato, sarà pronto a correre alle urne indicando come Monti prima e Letta poi siano stati inutili alla soluzione dei problemi del Paese. Nel frattempo, il segno delle larghe intese pare essere rappresentato dalla presenza di Nunzia Di Girolamo: non conosce niente delle politiche agricole, ma è la compagna dell’esponente democristiano del PD, Boccia. Zii e nipoti non erano sufficienti a chiudere le trattative?
La parte più preoccupante è però rappresentata dalla linea politica di questo governo, segnatamente sul piano delle politiche economiche. Il Premier è notoriamente un esponente dell’area dell’idolatria europea, da intendersi come Commissione non certo come la intendeva Altiero Spinelli.
La Farnesina consegnata alla Bonino, che sulle politiche economiche è persino più ultraliberista di Monti, indica già con nettezza quale sarà la disponibilità alla riconversione in senso keynesiano delle politiche di bilancio ultraliberiste. Per quanto messe ogni giorno più in discussione da ormai una parte significativa dell’Europa e del mondo politico e accademico internazionali, le ricette ultramonetariste dei custodi della Bundesbank non vedranno certo in Letta e nella Bonino i loro avversari più accaniti.
D’altra parte, nemmeno Napolitano ha mai voluto aprire lo scontro politico con Bruxelles, del cui rigorismo si è fatto anzi interprete principale. Napolitano, Letta e la Bonino esprimono con relativi distinguo una linea di politica economica incompatibile con le necessità di riforma strutturale delle politiche economiche continentali. Una riforma del patto di stabilità, la revisione dei parametri di Maastricht, la modifica dei compiti della BCE e l’accellerazione del processo di unità fiscale a livello continentale rimarranno lettera morta, e sarà ancora Draghi, per il tempo che gli resta a disposizione alla guida della BCE, a dover ridurre il danno attraverso iniezioni regolari di liquidità.
Il dato politico generale è però uno: il PDL, uscito sconfitto dalle urne, dove ha perso sei milioni di voti, ha la golden share del governo. Il PD, che comunque le elezioni le aveva vinte, ha scritto l’ultima pagina del suo Bignami. L’uomo delle televendite, ancora una volta, ha umiliato gli uomini delle scuole di partito.
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di Carlo Musilli
Comunque vada a finire, non si vede come il Partito Democratico possa trovare una via di scampo. Il governo "di servizio" targato Enrico Letta dovrebbe vedere la luce oggi e ottenere la fiducia del Parlamento lunedì. A quel punto inizierà uno stillicidio che molto probabilmente consoliderà il vantaggio elettorale riacquisito negli ultimi mesi dal centrodestra. E alle prossime elezioni il Paese si consegnerà per la quarta volta nelle mani di Berlusconi.
La missione del nuovo Esecutivo, a prescindere dai giudizi di merito sui singoli provvedimenti, è senz'altro proibitiva. Sarebbe stata difficile anche se Pd e Sel avessero ottenuto da soli la maggioranza assoluta nelle due Camere. Ma ora che nella squadra di Letta si apprestano a entrare personaggi come Angelino Alfano e Mara Carfagna, ogni proposito riformista in senso socialdemocratico acquisisce i contorni della burla. E questo, purtroppo, vale in primo luogo sul piano dell'economia.
L'esempio più eclatante è certamente quello dell'Imu. Fra gli "otto punti" indicati da Berlusconi come condizioni essenziali per la partecipazione al nuovo governo, l'abolizione dell'imposta sulla prima casa e la restituzione delle somme pagate nel 2012 costituiscono certamente il capitolo dal peso specifico maggiore. Si tratta della solita promessa fumosa lanciata nelle fasi finali di campagna elettorale - un'arte in cui il Cavaliere è davvero insuperabile - che oggi i pidiellini non hanno alcun interesse a rinnegare.
Le risorse indicate a suo tempo da Berlusconi per finanziare un'operazione del genere sono più che mai incerte, dal momento che non è possibile calcolare in anticipo e con sicurezza il gettito prodotto da misure come l'accordo con la Svizzera (ammesso che si faccia) e il rincaro fiscale su alcol, tabacchi e vizi vari.
Il centrodestra lo sa benissimo, ma non è questo il punto. Il vero obiettivo è continuare a sbandierare il vecchio vessillo del "meno tasse per tutti". Se poi il nuovo Esecutivo non riuscirà a liberare gli italiani dall'imposta sugli immobili - com'è ampiamente prevedibile - sarà facilissimo far ricadere per intero la colpa sul Pd. Si tratta pur sempre del partito di maggioranza e, agli occhi degli elettori, dovrà assumersi il carico più pesante di responsabilità.
Per cercare un punto d'incontro sull'Imu, gli uomini del Pd si sono già messi al lavoro. Pur sapendo che i desideri della destra sono al momento velleitari, i democratici cercano una via per alleggerire l'imposta, per renderla più progressiva. Negli ultimi tempi si è parlato di alzare le detrazioni da 200 a 500 euro, incrementando al contempo la pressione sulle abitazioni di lusso. Ma non è così semplice, i margini di manovra sono stretti.
Soprattutto perché questi non sono affatto gli unici soldi che il nuovo governo dovrà trovare. Oltre alla partita ancora aperta sul pagamento dei debiti della pubblica amministrazione (40 miliardi in due anni), bisognerà coprire anche le "spese indifferibili" dimenticate dai professori, come la Cassa integrazione e le missioni internazionali. Rimarrebbero da finanziare inoltre le detrazioni sulle ristrutturazioni.
Già questo sarebbe sufficiente a rendere necessaria una nuova manovrina nel 2013. Ma non bisogna dimenticare altre due stangate che rischiano di deprimere ulteriormente l'economia italiana, perfino peggio di quanto abbia fatto l'anno scorso la tanto vituperata Imu. Parliamo dell'aumento della terza aliquota Iva dal 21 al 22% (previsto per luglio) e dell'aggravio della tassa sui rifiuti (con il balzello della Tares), che i tecnici sono riusciti solamente a rinviare a fine anno.
Facciamo un po' di conti. Il governo "di servizio" dovrà mettere insieme un miliardo di euro per la cig in deroga, due miliardi per evitare l'aumento dell'Iva (che diventano quattro dal 2014), un miliardo per cancellare la Tares e altri quattro per abolire l'Imu sulla prima casa (restituire quella già pagata è un'altra storia: La Russa propone di distribuire Btp a pioggia). Negli ultimi mesi di stallo assoluto ci hanno fatto credere che tutto questo sia possibile senza una nuova manovra. Anzi, lo stesso Letta continua a parlare anche di sgravi alle imprese per favorire le assunzioni di giovani e di nuove risorse per le piccole e medie imprese, il nostro cuore produttivo. Con quali soldi, Presidente?
E' evidente che tutti questi obiettivi sarebbero auspicabili, ma è altrettanto ovvio che non possono essere conseguiti rimanendo nel solco degli accordi europei che abbiamo sottoscritto. Bisognerebbe negoziare con Bruxelles un allentamento del cappio. Letta lo sa, dice di volerlo fare e per questo ha già incassato l'arrogante reprimenda di Wolgang Schaeuble, semi-onnipotente ministro tedesco dell'Economia. Riaprire la trattativa con l'Europa sarebbe sacrosanto, ma per un compito del genere avremmo bisogno di un governo quanto mai forte, coeso, sicuro della meta che intende raggiungere. Quello che stiamo creando è invece un Esecutivo zeppo di persone che hanno passato gli ultimi anni a detestarsi fra loro. E a guidarlo è un partito sull'orlo dell'esplosione.
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di Carlo Musilli
Dopo i diamanti e la Tanzania, mancava solamente un sobrio yacht da due milioni e mezzo per completare il quadretto. E' questo l'ultimo tocco di classe attribuito a Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega Nord arrestato ieri dalla Guardia di Finanza. Pare che l'obiettivo dell'acquisto fosse il diletto di Riccardo Bossi, figlio dell'ex imperatore padano Umberto. Un pensierino comprato con fondi pubblici destinati al Carroccio.
L'ennesimo, grottesco dettaglio di colore emerge dalle carte dell'inchiesta sui conti del partito coordinata dalla procura di Milano. Belsito - ora nel carcere milanese di San Vittore - è finito in manette con una discreta sfilza di accuse: associazione a delinquere, truffa aggravata, appropriazione indebita e riciclaggio. Secondo i pm, aveva creato un "comitato d’affari" che era "in grado di influenzare le decisioni di istituzioni e grandi imprese pubbliche e private", tra cui Fincantieri (di cui lo stesso Belsito era vicepresidente), sempre alla ricerca di business e protezioni politiche.
A fine ottobre la richiesta di custodia cautelare è arrivata sul tavolo del gip Gianfranco Criscione, che dopo sei mesi ha firmato l'ordinanza. Stando a quanto si legge nel testo, la figura dell'ex tesoriere leghista sarebbe molto simile a quella di un cassiere di famiglia. Ma non solo. Il dettaglio più interessante è che Belsito avrebbe continuato allegramente nelle sue attività pseudo-amministrative anche dopo aver smesso di essere membro del partito.
Nel testo si fa riferimento a una nota di polizia giudiziaria dello scorso ottobre da cui si deduce che l’espulsione dell'ex tesoriere dalla Lega avrebbe "tutt’altro che interrotto il criminoso e criminogeno rapporto tra il medesimo Belsito e Girardelli, da ultimo incentrato sulle questioni relative a uno yacht". E qui veniamo al regalino "del valore di 2,5 milioni di euro che Riccardo Bossi, figlio di Umberto Bossi, avrebbe a suo tempo acquistato avvalendosi di un prestanome grazie a un’ulteriore appropriazione indebita di Belsito". E' un peccato che Roberto Maroni non abbia portato anche la morigerata barchetta a Pontida, come invece ha fatto con i diamanti, sventolati con somma eleganza davanti alla severa adunata celtica.
Ma l'allegro contabile del cerchio magico non è solo. Anzi, gode di ottima compagnia. Insieme a lui sono state arrestate anche altre due persone: Stefano Bonet (per gli amici, "l'ammiraglio"), ovvero l’imprenditore veneto degli investimenti in Tanzania, e Romolo Girardelli, il presunto segugio sempre a caccia di business redditizi. Una quarta persona è ancora ricercata e a quanto pare si trova all’estero. Si tratta di Stefano Lombardelli, considerato "soggetto in grado di agevolare e procurare la conclusione di affari con le imprese dai quali ricavare proventi illeciti".
In questo stesso "sistema contaminato di malaffare, a cui si alimentavano poteri istituzionali, politici ed economici" - come si legge ancora nell'ordinanza di custodia cautelare - rientrano anche operazioni per tentare di coinvolgere banche come Mps, oltre agli affari milionari di Fincantieri e alle mire di Bonet sulla gestione di una fetta del potere sanitario in capo al Vaticano.
Nell'ambito dell'inchiesta che l'anno scorso ha prodotto la rivoluzione maroniana delle ramazze all'interno del Carroccio, il Senatùr è indagato per truffa ai danni dello Stato, mentre i suoi due figli, Renzo (il mitico "Trota") e Riccardo, sono accusati di appropriazione indebita. Tuttavia, questo filone delle indagini (ribattezzato "The Family") dovrebbe essere chiuso a breve.
Nelle scorse settimane era emerso che - secondo gli inquirenti - l'ammontare dei fondi pubblici spesi in modo sospetto si aggirerebbe intorno ai 19 milioni di euro. A quanto pare, il Carroccio si ritiene parte lesa in tutta questa vicenda e, in caso di processo, si costituirà parte civile.
Eppure, stando ancora a quanto scrive il gip, Bonet e Girardelli parlano in una conversazione intercettata di un "incontro" che il primo avrebbe dovuto tenere "con Maroni, Castelli e Calderoli come di un'opportunità per rilanciare l'attività andando oltre Belsito". Un appuntamento che i due avrebbero cercato di organizzare nel marzo 2012, quando Bossi stava per capitolare. L'obiettivo era accaparrarsi l'eredità dei rapporti dell'ex tesoriere con la Lega. Perché, come spiega eloquentemente Girardelli nelle intercettazioni, "qua ciascuno pensa alla pancia sua".