di Antonio Rei

Ci vuole del talento a dribblare le responsabilità, negare le colpe, nascondere i propri interessi sempre e comunque. La classe politica italiana ne ha da vendere, ma questo non basta a cancellare l'evidenza. Giuseppe Orsi, ormai ex amministratore delegato e presidente di Finmeccanica, non ha ottenuto i suoi incarichi per caso. La sua nomina è stata indiscutibilmente politica: decisa sotto l'ultimo governo Berlusconi, sancita e confermata dalla squadra di Mario Monti. E' una verità scomoda, visto che siamo in campagna elettorale e Orsi è appena stato arrestato per corruzione. Ma rimane pur sempre una verità.

Lo scaricabarile degli ultimi giorni fa sorridere per una ragione elementare: il Tesoro è azionista di Finmeccanica con oltre il 30% del capitale ed è quindi assolutamente ovvio che sia l'Esecutivo a scegliere il management. E a dover rispondere di quelle scelte.

Vediamo di ricostruire in breve la storia di Orsi, che è diventato ad del gruppo della difesa il 4 maggio 2011. La sua investitura è arrivata dopo una lunga battaglia fra l'allora ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, e l'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, che sosteneva la candidatura di Pier Francesco Guarguaglini, già da nove anni presidente della società.

A spuntarla è stato il numero uno del Tesoro, che poteva contare sull'appoggio della Lega e dell'Udc (attuale alleata di Monti). Oltre a una certa dimestichezza con l'ambiente cattolico, Orsi poteva contare in particolare sull'amicizia di Roberto Maroni. Per quanto il leader leghista oggi possa cercare di smarcarsi, minacciando perfino querele a pioggia, ci sono dei dati (o dei sospetti) innegabili.

Il primo è un'intercettazione in cui Orsi si rivolge al buon vecchio Bobo in questi (sgrammaticati) termini: "Io dico sempre comunque se non c'è Roberto Maroni a fare l'ultimo miglio, col cavolo che io qua c'ero". E Maroni risponde serafico: "Esatto… Esatto…". Secondo: la moglie del capo del Carroccio lavora da anni all'Aermacchi, società del gruppo Finmeccanica.

Proseguiamo con l'era dei tecnici. Orsi è diventato presidente della società (carica che ha cumulato a quella di ad) a inizio dicembre 2011, il che ha fatto di lui il primo manager nominato dal governo Monti. Il via libera decisivo è stato quello del ministero dell'Economia, in quei giorni guidato dal Professore in persona, con Vittorio Grilli a fare il vice.

In un'altra intercettazione, Orsi rivela all'amico Ettore Gotti Tedeschi (ex IOR) di aver visto "consulenze inutili" di Finmeccanica all'ex moglie di Grilli e dice: "Gli ha lasciato qualche casino in giro, di buchi. (...) Gli ho sistemato la cosa". Le consulenze sono state poi smentite da Orsi, da Grilli e dall'ex moglie. Nessuno però ha mai capito per quale assurdo motivo l'ex dominus di Finmeccanica ne abbia parlato a Gotti.

Fingendo d'ignorare tutto questo, diversi commentatori sostengono che l'anno scorso - quando Orsi ricevette l'avviso di garanzia - Monti avrebbe voluto sostituirlo, ma non ha potuto farlo per l'opposizione di Pdl e Lega. Che i due partiti di destra fossero contrari è facile da credere, ma questo non toglie che per rimuovere i manager di una controllata pubblica non ci sia bisogno di una votazione in Parlamento. Insomma, se davvero avesse voluto, Monti avrebbe potuto decapitare Finmeccanica. Difficile che il Pdl potesse far cadere il governo per il licenziamento di un manager indagato.

Ma quali sono le accuse contro Orsi? La sospetta corruzione risale a quando il manager era a capo della Agusta Westland, controllata di lusso di Finmeccanica. I pm parlano di una tangente da 51 milioni di euro versata ad alti funzionari e generali indiani su una commessa da 550-600 milioni di euro per la fornitura di 12 elicotteri.

La mazzetta sarebbe stata pagata dal vertice della società a intermediari residenti all'estero: Guido Ralph Haschke e Carlo Gerosa, entrambi arrestati in Svizzera. Ma non è finita, perché di quei 51 milioni - sempre secondo l'accusa - 10 sarebbero stati girati all'inglese Christian Michel, indicato dai magistrati di Napoli come "uomo di Orsi". I pm - stando a quanto riporta Gianni Dragoni su Il Sole 24 Ore - scrivono che i 10 milioni sarebbero tornati "a Orsi per soddisfare le richieste di alcuni partiti politici italiani, la Lega Nord e Cl ed in particolar modo la Lega Nord che lo avrebbero appoggiato per la sua nomina ad amministratore delegato di Finmeccanica". Perché è così che si fa con gli amici.

di Fabrizio Casari

Pare colta da improvvisa eccitazione la campagna elettorale italiana. C’é il candidato Monti, che non è candidabile e che mira solo a non far vincere gli altri; poi il candidato Berlusconi, che finge di non esserlo e punta solo al (suo) condono tombale. Adesso c’è anche il candidato Bersani che si batte per vincere ma che sembra aver paura di governare. Insomma, tra chi è candidato senza poterlo essere, chi lo è senza confessarlo e chi vuole vincere ma senza incassare, questa campagna elettorale è l’emblema di quel gigantesco equivoco che si chiama, ostinatamente e quasi a rischio di querela, politica italiana.

La destra, in loden o col borsalino, si agita molto. Monti si candida a tutto o quasi: alla guida del suo raggruppamento, ma contemporaneamente ad allearsi con la destra senza Berlusconi e, perché no, con la sinistra senza Vendola. Disturbo della personalità evidente: pensava di essere quello che tutti chiamano e poi ha scoperto essere colui che nessuno vuole.

Berlusconi, invece, ha chiarito qual’era il “quid” che mancava al segretario Alfano: la proprietà del partito. Ha due risultati su tre a disposizione: vincere o, comunque, cercare di perdere con minor margine possibile per continuare a ricattare il paese a vantaggio suo e delle sue aziende.

Per Bersani il discorso è diverso: i sondaggi che mutano negativamente, sembrano subire l’influenza di una campagna elettorale priva di grinta e di polemica politica. Sembra confondere la serietà e la credibilità con l’assenza di qualunque innovazione; tutto compostezza e niente entusiasmo, ritiene che sia opportuno dichiarare che, anche vincendo, si regolerà come se non fosse successo, affermando che anche ove ottenesse il 51%, si muoverà come se avesse ottenuto il 49. Significa, né più né meno, dire che si vorrebbe vincere ma non governare.

Un caso privo di precedenti, l’unico nel quale chi ottiene la maggioranza assoluta dichiara che prenderà solo quella relativa. Retaggio di vecchie tesi sul compromesso storico, sembra non tener conto che il centro dei moderati ce l’ha già in casa. O si ritengono i Tabacci e i Fioroni dei giacobini, o dei pretoriani della laicità dello Stato?

Se i sondaggi dicono il vero, quello di Bersani sta diventando un tipico esempio di come tentare di perdere le elezioni che si potevano solo vincere. Ogni qualvolta che nomina Monti come interlocutore immediato del dopo voto, il PD perde qualche migliaio di voti. La domanda è netta e senza possibilità di risposta multipla: Bersani ha capito quale sia la differenza di opinioni e aspirazioni tra chi vota PD-SEL e chi vota Lista Civica di Monti? Ritiene che la ragioneria sia più forte della politica? Che il voto popolo della sinistra sia acquisito quale che sia la campagna elettorale? Sarebbe un errore madornale.

La comunicazione, particolarmente in campagna elettorale, non è un accessorio secondario. Proprio Berlusconi ha insegnato quanto valore abbia nello spostare milioni di voti. La campagna elettorale non è solo una competizione tra due programmi diversi; è anche il momento nel quale l’evocazione di un sogno, l’emozione di una battaglia, serve a far identificare milioni di elettori con un programma, con un simbolo persino, costruendo una relazione inscindibile con l’aspirazione ad un futuro diverso. O davvero si crede che invece che di giustizia sociale, equità e diritti civili i sogni raccontino del riordino dei conti?

A detta dei soliti fini strateghi della politica, Bersani cercherebbe di rassicurare i mercati con il timore che questi possano attivarsi in un attacco speculativo sui nostri titoli di Stato che indurrebbe così gli elettori a ritenere che solo la presenza di Monti ci mette al riparo. Dunque, volendo evitare che il premier sia considerato l’unico elemento di garanzia per i risparmiatori e le imprese, cerca di cooptarlo nell’Italia post-berlusconiana, ipotizzando una sorta di Grande coalizione tra il centro e il centrosinistra.

Peccato però che l’obiettivo si riveli un boomerang: perché proprio questa linea assegna a Monti una centralità che diversamente non avrebbe, e perché dal momento che l’unica utilità di Monti è quella di togliere voti a Berlusconi, insinuando la futura alleanza con il professore si ottiene il risultato di regalare un formidabile strumento di propaganda a Berlusconi, che sa ricompattare la destra. Nello stesso tempo, si rischia anche di irritare l’elettorato di sinistra che avverte l’inciucio e può spostare così i suoi voti da Vendola verso Ingroia o Grillo.

Che Bersani voglia governare con Monti non è ovviamente vero, non del tutto almeno. Bersani ha certamente in programma una ricetta decisamente diversa da quella del presuntuoso professore bocconiano e ritiene Monti necessario sia per l’interlocuzione con l’Europa dei poteri forti che per le riforme istituzionali, temi che l’agenda politica del prossimo governo dovrà affrontare alla pari del risanamento dei conti pubblici e del rilancio dell’economia del Paese. Ma illudersi che l’appoggio del centro sulle riforme istituzionali e su alcune leggi (conflitto d’interessi al primo posto) sia gratuito, è una grossa ingenuità.

Se invece, come sicuramente è, si è consapevoli che Monti sia tutto meno che un uomo di parola ed affidabile, sarebbe ora di smetterla, per i prossimi 15 giorni di campagna elettorale di evocarlo ad ogni piè sospinto. Sarà bene che Bersani capisca in fretta una cosa: Monti è letteralmente detestato dalla maggior parte degli italiani, oggi più di ieri. Tentare un abbraccio può risultare davvero fatale.

Bene fa quindi Nichi Vendola a porre un argine e a ricordargli che il programma comune non prevede l’applicazione delle politiche neoliberiste delle quali il professore è noioso interprete. E risulta specioso stabilire se Vendola alza il tiro per ritrovare spazio dentro la coalizione; fa bene a ricordarlo comunque. Diversi esponenti del PD, da Fassina a D’Alema, persino Boccia, ricordano ora la centralità di Vendola nella coalizione e lo stesso Bersani ripete che l’alleanza con SEL non si tocca. Sarà, ma nemmeno la si può svuotare giorno dopo giorno con i continui ammiccamenti al professore. Dal momento che proprio il professore e Vendola si ribadiscono la reciproca incompatibilità, Bersani la smetta di proporre unioni contro natura e contro logica politica.

E a proposito di chi dovrebbe cambiare registro nella comunicazione politica, ci rivolgiamo a Ingroia. Le esigenze di visibilità del pm fanno sì che il centrosinistra sia l’unico suo obiettivo polemico. Trovare un attacco alla destra nelle parole di Ingroia è semplice come trovare un operaio candidato con Monti. Ma il giorno dopo il voto lui uscirà di scena e torneranno i partiti che lo sostengono, esattamente come avverrà con la lista Monti; dunque si goda il momento di celebrità e provi a dare il suo contributo alla sconfitta della destra, se ne è capace.

I suoi deliri forcaioli, come già gli hanno ricordato i migliori esponenti di Magistratura Democratica, non appartengono alla storia della cultura di sinistra; non basta recitare il ruolo di cavallo di Troia di Ferrero e Di Pietro (segue l’intendenza, cioè Diliberto) a colorare di rosso il grigio scuro. L’autonominatosi “partigiano della Costituzione” provi a leggerla e magari sfogli anche Cesare Beccaria, che di Diritto ne sapeva qualcosa più di lui. Un ideale di società con le sbarre alle finestre lo lasci ai residui della reazione, che non mancano purtroppo.

Alla sua lista toccherebbero invece i temi dell’antiliberismo, di una politica estera di pace, di una riconversione ecologica del tessuto produttivo, dei diritti civili, dell’ammodernamento dello stato sociale, della difesa della scuola pubblica e della dignità del lavoro. Sarebbe questo un buon modo per legittimare una scommessa politica altrimenti identificabile solo come pura operazione autoreferenziale e politicista, di pura sopravvivenza di ceto politico.

Il rischio di una sconfitta, del permanere di una maggioranza di destra e di un Parlamento a maggioranza berlusconiana che dovrà eleggere anche il nuovo Capo dello Stato, lo ricordi tutto il centrosinistra, è responsabilità di tutti. Nessuno può permettersi di far perdere tutti noi nell’illusione di far vincere lui.



di Rosa Ana De Santis

La vita nelle carceri, oggetto di numerose denuncie da parte delle associazioni impegnate e al massimo delle interrogazioni di qualche parlamentare, rimane ancora dietro i riflettori delle agguerrite competizioni elettorali. Se ne è parlato nei giorni del digiuno ad oltranza di Marco Pannella e se ne parla in questi giorni per la vicenda Corona, a seguito delle sue parole di timore alla sola idea di trascorrere qualche anno nelle prigioni italiane, tanto da meritare una super puntata in tempo di elezioni del Porta a Porta di Vespa.

Molti i sostenitori delle tre leggi di iniziativa popolare presentate per affrontare i nodi più problematici del sistema penitenziario italiano. Tra i tanti “A buon diritto”, “Antigone”, Arci e numerosi altri. I tre testi sono arrivati in Cassazione e riguardano: l’introduzione del reato di tortura, il problema del sovraffollamento dei detenuti e dei loro diritti e, infine, la modifica della legge che regolamenta la questione delle droghe a firma Fini - Giovanardi, responsabile numero uno di una gestione poco ragionevole ed efficace dei flussi d’ingresso nelle carceri.

Il piano carceri varato dal governo Berlusconi nel giugno del 2010 è stato nei fatti completamente disatteso anche a causa di un progressivo impoverimento dei fondi destinati,  anche se la gestione dei detenuti in termini di sole opere edili non risolve alla radice una disfunzione che nasce dalla legge e dalla sua attuazione.

Le proposte vanno dalla rivisitazione della legge Cirielli sulla recidiva, all’attuazione della misura cautelare solo in casi di extrema ratio, fino all’abrogazione del reato di clandestinità tanto per citare alcuni esempi, scempio dell’ultima politica, fino all’investitura di un Garante nazionale per i detenuti.

Il 37% dei detenuti ha violato la legge sulle droghe a firma Giovanardi-Fini ed è soprattutto questa norma ad aver generato un fiume di carcerati non solo aggravando le condizioni delle carceri, ma vanificando quell’aspetto di recupero e di rieducazione che è fondamentale e che va garantito nell’idea di pena prevista dalla legge italiana. Peraltro i "drogati" non sono tutti uguali e oggi la legge è strutturata in modo tale che un fumatore di spinello non ha la chance di non finire in carcere con l’accusa di spaccio per pochi grammi in più, solo grazie al buon senso dei giudici.

L’idea che la detenzione sia uno strumento utile a recuperare i tossicodipendenti mostra clamorosamente nella cronaca tutti i suoi fallimenti. Occorre che torni alla centralità dei servizi sociali la funzione di sostegno e recupero delle persone affette da tossicodipendenza.

Bisogna raggiungere almeno 50 mila firme e l’urgenza di portare avanti una legge in materia nasce anche dal prossimo appuntamento del gennaio 2014 in cui l’Italia dovrà rispondere alla Corte Europea sulla situazione carceraria con numeri che ad oggi disegnano un quadro sconfortante in cui le uniche speranze sono spesso affidate al lavoro delle cooperative sociali.
Sono 66.000 i detenuti in Italia e accedono al lavoro regolare in carcere solo 800.

La recidiva per chi non lavora è del 90 per cento e va da sé che il carcere che rappresenta esso stesso una ferita del Paese per le condizioni in cui vivono i detenuti, non risolve uno dei problemi che la società ha con chi ha infranto la legge dello stato. Le misure alternative relativamente alla diversificazione dei reati servono non soltanto a salvaguardare i diritti umani di chi è in prigione, ma a consentire con concretezza la reintroduzione nel contesto sociale e il recupero di tante vite per le quali il carcere diventa l’unica condanna senza appello.

Non c’ nemmeno più il sapore di vecchie e superate contestazioni di ordine ideologico dal momento che è la polizia penitenziaria in prima fila a definire “disumane” le condizioni delle carceri italiane. Luoghi in cui sembra non esser mai arrivata l’Europa delle convenzioni e dei grandi trattati. Quella che la politica nazionale invoca come un bollino di garanzia senza interrogare sul serio la più antica tradizione dei diritti che all’Europa ha dato l’unica dignità che resta dietro alle algebre della finanza.

di Carlo Musilli

Se la campagna elettorale diventasse disciplina olimpica, Silvio Berlusconi avrebbe la medaglia d'oro assicurata nei secoli dei secoli. Il punto ora è capire dove si classifica l'elettorato italiano nella graduatoria della sprovvedutezza. La"proposta shock" arrivata ieri dal Cavaliere si è rivelata degna di una televendita alla Vanna Marchi: oltre ad abolire l'Imu sulla prima casa, il Pdl intende restituire agli italiani i soldi pagati l'anno scorso per l'imposta sull'abitazione principale.

"Le famiglie italiane saranno rimborsate, sarà un risarcimento ad un' imposizione sbagliata - ha annunciato Berlusconi -. Sarò io, come ministro dell'Economia, a restituire agli italiani i soldi dell'Imu, l'imposta che ha dato il via a questa crisi. Non possono essere messe tasse sulla prima casa, che rappresenta la sicurezza per le famiglie". Il rimborso avverrà "sul conto corrente, oppure, specie per i pensionati, in contanti, attraverso gli sportelli delle poste". I cinque miliardi necessari all'operazione saranno recuperati "chiudendo l'accordo con la Svizzera per la tassazione delle attività finanziarie detenute in quel Paese da cittadini italiani. Il gettito è una tantum di 25-30 miliardi, e poi 5 miliardi l'anno".

Ma non è finita: "In cinque anni elimineremo l'Irap, imposta che pesa sulle imprese, un'imposta odiosa che deve essere pagata dalle aziende anche se non chiudono i bilanci in utile - ha continuato il Cavaliere -. Poi non ci sarà alcun aumento dell'Iva e ovviamente nessuna patrimoniale". Il tutto sarà piuttosto semplice da realizzare: basterà un piccolo "aumento delle accise su giochi, scommesse, lotto e tabacchi". Insomma, non diventeremo le Isole Cayman, ma a quanto pare ci andremo vicini.

La credibilità delle proposte berlusconiane è inversamente proporzionale al livello d'informazione e alla buona memoria di cui dispongono gli elettori. Iniziamo con il ricordare quello che dovrebbe essere ovvio: l'Imu non è stata introdotta dai tecnici con un colpo di Stato, ma proprio grazie alla complicità decisiva del Pdl. Era contenuta nel Salva-Italia, ovvero il primo decreto del governo Monti, varato nel dicembre 2011 con i voti favorevoli di Pdl, Pd e Udc (ma non dimentichiamo che il partito di Berlusconi era il solo numericamente indispensabile alla maggioranza: l'unico che avrebbe potuto far cadere il Professore in un batter d'occhio).

All'epoca l'opinione del Cavaliere sull'Imu era ben diversa da oggi: "Monti ha fatto intendere che porterà la tassazione degli immobili in linea con la media europea, mentre ora è al di sotto. È possibile che questo comporti l'introduzione di un'imposta simile all'Ici, da noi già prevista con il federalismo, ma completamente diversa rispetto alla precedente impostazione già nella nostra riforma. Dunque una continuità di linea con il nostro governo, con un probabile anticipo dei tempi rispetto al 2014 che noi avevamo previsto". Queste le parole di Berlusconi in un'intervista al Corriere della Sera datata 20 novembre 2011. Chi non trova alcuna contraddizione ha davvero una creatività invidiabile.

Non ci dilunghiamo sull'affermazione secondo cui "l'Imu" avrebbe "dato il via all'attuale crisi". E' un'evidente falsità per chiunque abbia vissuto in Italia negli ultimi anni. Aumentare la pressione fiscale significa certamente aggravare la contrazione del Pil, ma sostenere che l'economia italiana sia entrata in crisi solo nel 2012 è semplicemente una barzelletta. D'altra parte, stiamo parlando della stessa persona che, sempre nel novembre 2011, ci deliziò con la seguente analisi econometrica: "I consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, si fatica a prenotare un posto sugli aerei".

Passiamo ora allo strumento principe con cui Berlusconi intende rimborsare e abolire l'Imu sulla prima casa: l'accordo con la Svizzera. Le trattative per concludere un'intesa del genere con Berna vanno avanti da mesi e non sono affatto semplici. Di certo non si chiuderanno in tempo per il primo Consiglio dei ministri del nuovo governo. Il Cavaliere lo sa benissimo, per questo sostiene che - in attesa della firma - quei famosi cinque miliardi saranno "presi in prestito dai soldi per la Cassa depositi e prestiti". Peccato che le somme recuperabili seguendo la strada svizzera, in realtà, siano del tutto incerte.

L'unico effetto indiscutibile dell' "annuncio shock" è aver fissato definitivamente i riflettori su Berlusconi nelle ultime settimane di campagna elettorale. Come sempre, il Cavaliere detta l'agenda, stabilisce gli argomenti su cui i suoi avversari dovranno affannarsi a rincorrere. Lo fa usando una demagogia da super-professionista, consapevole che poi non dovrà render conto a nessuno del proprio fallimento. Esattamente come nel 2008, quando a un passo dal voto annunciò agli italiani l'intenzione di abolire l'Ici sulla prima casa. E sappiamo com'è andata a finire. 



di Fabrizio Casari

La sentenza della Corte d’Appello sull’abbattimento sul cielo di Ustica del DC-9 dell’Itavia è uno dei pochi atti di giustizia che la vicenda in sè possa esibire. Si condanna lo Stato italiano a risarcire le famiglie delle vittime, perché la negligenza e l’incapacità di monitorare e difendere adeguatamente lo spazio aereo, l’incolumità dei cittadini viene giustamente considerata mancanza grave di cui dover rispondere.

Ma la sentenza non si limita solo a definire le responsabilità dei vertici militari, perché assume in toto la tesi sostenuta a suo tempo dal giudice Priore e dai familiari delle vittime che hanno sempre sostenuto come il DC9 fu colpito da un missile. E riconoscere che sia stato un missile lanciato da un aereo militare ad abbattere il DC9 e non una bomba a bordo, come per decenni hanno tentato di spacciare per depistare e disinformare i vertici militari e politici, significa ammettere che vi fu un atto di guerra nei cieli italiani. Non fu infatti lanciato per errore il missile che abbatté l’aereo uccidendo 81 persone, tra cui 11 bambini, tra passeggeri ed equipaggio.

Quella maledetta sera del 27 Giugno del 1980, l’aereo che copriva la rotta Bologna-Palermo, partì con due ore di ritardo rispetto all’orario schedulato. Venne seguito nella parte finale del suo volo dai radar di Ciampino e Licola fino a quando scomparve, intorno alle 20,00, mentre era in discesa per atterrare all’aeroporto palermitano di Punta Raisi. Non vi arrivò mai causa coinvolgimento in un combattimento aereo. Ci sono state diverse versioni sull’accaduto, ma quelle fornita dal presidente Cossiga è certamente la più veritiera, peraltro corrispondente a quella fornita dagli stessi libici pur se mai in forma aperta.

Il DC9 dell’Itavia non era, ovviamente, un obiettivo per nessuno, solo si trovò sulla linea di fuoco del combattimento aereo. Tra chi? Tra due Mirage francesi, (la portaerei Clemenceau era di stanza nel Mediterraneo) e due dei Mig libici di scorta all’aereo presidenziale di Muammar Gheddafi, che sorvolava in direzione opposta la stessa tratta per recarsi a Belgrado in occasione di un vertice dei Paesi Non Allineati (NOAL). L’obiettivo, appunto, era Gheddafi.

I killer designati dalla Nato, per l’occasione, erano i Mirage francesi con l’appoggio degli americani. L’operazione, che era un obiettivo primario degli Usa (ci riprovarono bombardando Tripoli e la casa di Gheddafi nel 1986) venne condivisa con la Francia. Parigi d’altra parte non era certo ritrosa ad occuparsi del problema, visto lo scontro con la Libia in Africa, dove era ormai palese l'incremento del ruolo di Tripoli, particolarmente in Ciad.

I servizi di sicurezza libici vennero avvertiti all’ultimo momento (presumibilmente dai russi, gli stessi che li avvisarono dell’attacco su Tripoli nel 1986 e diedero di nuovo il tempo di mettere in salvo Gheddafi) di ciò che attendeva il loro leader sull’Adriatico. I libici invertirono così immediatamente verso Malta la rotta dell’aereo presidenziale con Gheddafi a bordo e mandarono due dei quattro Mig di scorta ad impegnare i Mirage per evitare che inseguissero l’aereo con il leader libico. Uno dei due Mig libici venne ritrovato sulla Sila, abbattuto nello scontro con i francesi, l’altro, presumibilmente, si trova nei fondali dello Jonio.

Il DC9 dell’Itavia è stato quindi vittima di un’azione di guerra destinata all’eliminazione fisica di un Capo di Stato straniero. La domanda di fondo è sostanzialmente una: l’Italia, intesa come sua intelligence e vertice politico-militare, era al corrente di quanto era in programma? Oppure venne tenuta all’oscuro per evitare che i ben noti buoni rapporti di Roma con la Libia potessero determinare un sabotaggio del piano criminale?

A sostegno della prima ipotesi c’è il modello operativo consueto della Nato, che prevede sempre il coinvolgimento attivo del suo paese-membro di maggiore prossimità territoriale nelle operazioni. Difficile dunque che la Nato potesse pensare ad un’azione di guerra nelle nostre acque territoriali senza consultarci. Difficile, ma non impossibile.

A sostegno della seconda ipotesi c’è invece la storia di relazioni positive tra l’Italia e buona parte del Medio Oriente (libici e palestinesi in particolare) che in diverse occasioni ha garantito gli interessi italiani, non senza irritare profondamente l’asse Washington-Tel Aviv. Dal caso Mattei alla vicenda di Argo 16, l’aereo dei servizi segreti italiani esploso sul cielo di Marghera nel 1973 (vendetta dagli israeliani in risposta alla liberazione dei palestinesi accusati di voler programmare un attentato a Roma contro la compagnia israeliana El Al) sono numerosi gli avvenimenti che hanno caratterizzato la differenza politica tra Italia e USA nella politica verso il Medio Oriente.

Nell'ambito di questo scontro ci furono i reciproci atti di sfida sulla gestione dei detenuti palestinesi tra Stati Uniti, Israele. Il più eclatante si registrò a Sigonella, dove il governo Craxi-Andreotti schierò i VAM dell’aereonautica militare contro la Delta Force statunitense che pensava di togliere con la forza dalle mani del governo italiano Abu Abbas, capo del commando che sequestrò l’Achille Lauro dove venne ucciso il cittadino americano Leo Klingoffer. Lo scontro tra Roma e Washington divenne una dimostrazione eclatante di come le strategie occidentali raramente coincidevano con quelle italiane nell'area, quando l'Italia era un paese.

C’è comunque ad avviso di molti una parte di entrambe le ipotesi in quanto avvenne in quelle ore. I vertici politici del governo italiano furono probabilmente ignorati nella costruzione dell’attentato. Probabilmente si ritenne che informare gli italiani avrebbe potuto mettere a rischio la riuscita dell’operazione, dal momento che Roma non aveva nessun interesse nella fine del regime.

Non solo con Gheddafi i rapporti erano improntati alla reciproca convenienza, ma l’incertezza che sarebbe seguita alla sua uccisione avrebbe messo fortemente a rischio il rapporto privilegiato tra Eni e aziende italiane con la Libia.

Dunque Parigi e Washington decisero con tutta probabilità di non ingaggiare il governo italiano nell’operazione. A conforto ulteriore di un’ipotesi di estraneità delle autorità politiche italiane nella specifica vicenda del DC9 Itavia, c’è poi da dire che difficilmente le autorità italiane avrebbero scelto le rotte civili dello spazio aereo nazionale per un’operazione che poteva essere realizzata in qualunque altro luogo e momento.

Ma questo non esclude affatto la responsabilità dei vertici militari italiani nella gestione delle indagini successive a quanto accaduto nel cielo di Ustica. Responsabilità attiva al momento non provata ma certamente non esclusa. Ci si riferisce, ovviamente, allo sbarramento offerto ad ogni tentativo di ricerca della verità.

La clausola della “doppia obbedienza” (al governo e alla Nato), infatti, può benissimo aver determinato un ruolo attivo della nostra aereonautica militare nell’insabbiamento delle responsabilità nell’operazione, attraverso il “muro di gomma” alzato negli anni successivi. Un muro fatto di bugie, depistaggi e dimenticanze strane che ha visto alcuni generali impegnati a fondo nell’ignominia dell’occultamento della verità ai propri vertici politici e alla nazione.

Nell’abbattimento dell’aereo dell’Itavia sono numerosi i tasselli del mosaico che ha caratterizzato in negativo la storia del nostro paese.

La servitù militare nei confronti della Nato, l’uso della forza da parte dei nostri alleati contro il ruolo dell’Italia in Medio Oriente, la doppia obbedienza dei nostri vertici militari e l’opera di depistaggio e disinformazione operata dai nostri servizi segreti civili e militari sono stati elementi decisivi. La rinuncia ad ogni elemento di sovranità nazionale e la gelosa custodia del segreto che si vorrebbe di Stato ma che in realtà riguarda spesso le attività dei settori deviati della nostra sicurezza nazionale e la copertura delle azioni d’intelligence occidentale con le connivenze italiane, sono alcuni dei tasselli del puzzle italiano, che da Mattei fino a Calipari raccontano la verità nascosta di un'alleanza a senso unico.

La sentenza arriva trentatrè anni dopo i fatti e spazza via d’un colpo trent'anni di menzogne raccontate da militari felloni e traditori. Spazza via anche le vergognose scelte dello Stato che schierò la sua avocatura per difenderli, salvo poi scoprire trattarsi di funzionari infedeli.

Per Daria Bonfietti, instancabile presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di Ustica, il governo italiano deve agire coerentemente: qualcuno sapeva e ha taciuto, qualcuno ha negato, qualcuno ha intralciato. Ha pienamente ragione: ora bisogna arrivare alla verità. Perché serve la verità storica, e non solo politica, sull’accaduto.

Ma perché questo sia possibile, é necessario che il prossimo governo italiano ponga con fermezza inderogabile sul tavolo della Nato e su quello del Quay D’Orsay la questione Ustica. L’Italia dispone dei mezzi necessari per ottenere la verità; conosce le leve da azionare per sollecitarla ed è in grado di determinare con esattezza la differenza che separa l’alleanza dal fuoco amico. Se solo vuole farlo. Se non ha paura di sentir dire quello che è successo la notte del 27 Giugno del 1980 e di voler smascherare le coperture utilizzate negli anni a venire per nascondere la verità.


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