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di Rosa Ana De Santis
La vita nelle carceri, oggetto di numerose denuncie da parte delle associazioni impegnate e al massimo delle interrogazioni di qualche parlamentare, rimane ancora dietro i riflettori delle agguerrite competizioni elettorali. Se ne è parlato nei giorni del digiuno ad oltranza di Marco Pannella e se ne parla in questi giorni per la vicenda Corona, a seguito delle sue parole di timore alla sola idea di trascorrere qualche anno nelle prigioni italiane, tanto da meritare una super puntata in tempo di elezioni del Porta a Porta di Vespa.
Molti i sostenitori delle tre leggi di iniziativa popolare presentate per affrontare i nodi più problematici del sistema penitenziario italiano. Tra i tanti “A buon diritto”, “Antigone”, Arci e numerosi altri. I tre testi sono arrivati in Cassazione e riguardano: l’introduzione del reato di tortura, il problema del sovraffollamento dei detenuti e dei loro diritti e, infine, la modifica della legge che regolamenta la questione delle droghe a firma Fini - Giovanardi, responsabile numero uno di una gestione poco ragionevole ed efficace dei flussi d’ingresso nelle carceri.
Il piano carceri varato dal governo Berlusconi nel giugno del 2010 è stato nei fatti completamente disatteso anche a causa di un progressivo impoverimento dei fondi destinati, anche se la gestione dei detenuti in termini di sole opere edili non risolve alla radice una disfunzione che nasce dalla legge e dalla sua attuazione.
Le proposte vanno dalla rivisitazione della legge Cirielli sulla recidiva, all’attuazione della misura cautelare solo in casi di extrema ratio, fino all’abrogazione del reato di clandestinità tanto per citare alcuni esempi, scempio dell’ultima politica, fino all’investitura di un Garante nazionale per i detenuti.
Il 37% dei detenuti ha violato la legge sulle droghe a firma Giovanardi-Fini ed è soprattutto questa norma ad aver generato un fiume di carcerati non solo aggravando le condizioni delle carceri, ma vanificando quell’aspetto di recupero e di rieducazione che è fondamentale e che va garantito nell’idea di pena prevista dalla legge italiana. Peraltro i "drogati" non sono tutti uguali e oggi la legge è strutturata in modo tale che un fumatore di spinello non ha la chance di non finire in carcere con l’accusa di spaccio per pochi grammi in più, solo grazie al buon senso dei giudici.
L’idea che la detenzione sia uno strumento utile a recuperare i tossicodipendenti mostra clamorosamente nella cronaca tutti i suoi fallimenti. Occorre che torni alla centralità dei servizi sociali la funzione di sostegno e recupero delle persone affette da tossicodipendenza.
Bisogna raggiungere almeno 50 mila firme e l’urgenza di portare avanti una legge in materia nasce anche dal prossimo appuntamento del gennaio 2014 in cui l’Italia dovrà rispondere alla Corte Europea sulla situazione carceraria con numeri che ad oggi disegnano un quadro sconfortante in cui le uniche speranze sono spesso affidate al lavoro delle cooperative sociali.
Sono 66.000 i detenuti in Italia e accedono al lavoro regolare in carcere solo 800.
La recidiva per chi non lavora è del 90 per cento e va da sé che il carcere che rappresenta esso stesso una ferita del Paese per le condizioni in cui vivono i detenuti, non risolve uno dei problemi che la società ha con chi ha infranto la legge dello stato. Le misure alternative relativamente alla diversificazione dei reati servono non soltanto a salvaguardare i diritti umani di chi è in prigione, ma a consentire con concretezza la reintroduzione nel contesto sociale e il recupero di tante vite per le quali il carcere diventa l’unica condanna senza appello.
Non c’ nemmeno più il sapore di vecchie e superate contestazioni di ordine ideologico dal momento che è la polizia penitenziaria in prima fila a definire “disumane” le condizioni delle carceri italiane. Luoghi in cui sembra non esser mai arrivata l’Europa delle convenzioni e dei grandi trattati. Quella che la politica nazionale invoca come un bollino di garanzia senza interrogare sul serio la più antica tradizione dei diritti che all’Europa ha dato l’unica dignità che resta dietro alle algebre della finanza.
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di Carlo Musilli
Se la campagna elettorale diventasse disciplina olimpica, Silvio Berlusconi avrebbe la medaglia d'oro assicurata nei secoli dei secoli. Il punto ora è capire dove si classifica l'elettorato italiano nella graduatoria della sprovvedutezza. La"proposta shock" arrivata ieri dal Cavaliere si è rivelata degna di una televendita alla Vanna Marchi: oltre ad abolire l'Imu sulla prima casa, il Pdl intende restituire agli italiani i soldi pagati l'anno scorso per l'imposta sull'abitazione principale.
"Le famiglie italiane saranno rimborsate, sarà un risarcimento ad un' imposizione sbagliata - ha annunciato Berlusconi -. Sarò io, come ministro dell'Economia, a restituire agli italiani i soldi dell'Imu, l'imposta che ha dato il via a questa crisi. Non possono essere messe tasse sulla prima casa, che rappresenta la sicurezza per le famiglie". Il rimborso avverrà "sul conto corrente, oppure, specie per i pensionati, in contanti, attraverso gli sportelli delle poste". I cinque miliardi necessari all'operazione saranno recuperati "chiudendo l'accordo con la Svizzera per la tassazione delle attività finanziarie detenute in quel Paese da cittadini italiani. Il gettito è una tantum di 25-30 miliardi, e poi 5 miliardi l'anno".
Ma non è finita: "In cinque anni elimineremo l'Irap, imposta che pesa sulle imprese, un'imposta odiosa che deve essere pagata dalle aziende anche se non chiudono i bilanci in utile - ha continuato il Cavaliere -. Poi non ci sarà alcun aumento dell'Iva e ovviamente nessuna patrimoniale". Il tutto sarà piuttosto semplice da realizzare: basterà un piccolo "aumento delle accise su giochi, scommesse, lotto e tabacchi". Insomma, non diventeremo le Isole Cayman, ma a quanto pare ci andremo vicini.
La credibilità delle proposte berlusconiane è inversamente proporzionale al livello d'informazione e alla buona memoria di cui dispongono gli elettori. Iniziamo con il ricordare quello che dovrebbe essere ovvio: l'Imu non è stata introdotta dai tecnici con un colpo di Stato, ma proprio grazie alla complicità decisiva del Pdl. Era contenuta nel Salva-Italia, ovvero il primo decreto del governo Monti, varato nel dicembre 2011 con i voti favorevoli di Pdl, Pd e Udc (ma non dimentichiamo che il partito di Berlusconi era il solo numericamente indispensabile alla maggioranza: l'unico che avrebbe potuto far cadere il Professore in un batter d'occhio).
All'epoca l'opinione del Cavaliere sull'Imu era ben diversa da oggi: "Monti ha fatto intendere che porterà la tassazione degli immobili in linea con la media europea, mentre ora è al di sotto. È possibile che questo comporti l'introduzione di un'imposta simile all'Ici, da noi già prevista con il federalismo, ma completamente diversa rispetto alla precedente impostazione già nella nostra riforma. Dunque una continuità di linea con il nostro governo, con un probabile anticipo dei tempi rispetto al 2014 che noi avevamo previsto". Queste le parole di Berlusconi in un'intervista al Corriere della Sera datata 20 novembre 2011. Chi non trova alcuna contraddizione ha davvero una creatività invidiabile.
Non ci dilunghiamo sull'affermazione secondo cui "l'Imu" avrebbe "dato il via all'attuale crisi". E' un'evidente falsità per chiunque abbia vissuto in Italia negli ultimi anni. Aumentare la pressione fiscale significa certamente aggravare la contrazione del Pil, ma sostenere che l'economia italiana sia entrata in crisi solo nel 2012 è semplicemente una barzelletta. D'altra parte, stiamo parlando della stessa persona che, sempre nel novembre 2011, ci deliziò con la seguente analisi econometrica: "I consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, si fatica a prenotare un posto sugli aerei".
Passiamo ora allo strumento principe con cui Berlusconi intende rimborsare e abolire l'Imu sulla prima casa: l'accordo con la Svizzera. Le trattative per concludere un'intesa del genere con Berna vanno avanti da mesi e non sono affatto semplici. Di certo non si chiuderanno in tempo per il primo Consiglio dei ministri del nuovo governo. Il Cavaliere lo sa benissimo, per questo sostiene che - in attesa della firma - quei famosi cinque miliardi saranno "presi in prestito dai soldi per la Cassa depositi e prestiti". Peccato che le somme recuperabili seguendo la strada svizzera, in realtà, siano del tutto incerte.
L'unico effetto indiscutibile dell' "annuncio shock" è aver fissato definitivamente i riflettori su Berlusconi nelle ultime settimane di campagna elettorale. Come sempre, il Cavaliere detta l'agenda, stabilisce gli argomenti su cui i suoi avversari dovranno affannarsi a rincorrere. Lo fa usando una demagogia da super-professionista, consapevole che poi non dovrà render conto a nessuno del proprio fallimento. Esattamente come nel 2008, quando a un passo dal voto annunciò agli italiani l'intenzione di abolire l'Ici sulla prima casa. E sappiamo com'è andata a finire.
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di Fabrizio Casari
La sentenza della Corte d’Appello sull’abbattimento sul cielo di Ustica del DC-9 dell’Itavia è uno dei pochi atti di giustizia che la vicenda in sè possa esibire. Si condanna lo Stato italiano a risarcire le famiglie delle vittime, perché la negligenza e l’incapacità di monitorare e difendere adeguatamente lo spazio aereo, l’incolumità dei cittadini viene giustamente considerata mancanza grave di cui dover rispondere.
Ma la sentenza non si limita solo a definire le responsabilità dei vertici militari, perché assume in toto la tesi sostenuta a suo tempo dal giudice Priore e dai familiari delle vittime che hanno sempre sostenuto come il DC9 fu colpito da un missile. E riconoscere che sia stato un missile lanciato da un aereo militare ad abbattere il DC9 e non una bomba a bordo, come per decenni hanno tentato di spacciare per depistare e disinformare i vertici militari e politici, significa ammettere che vi fu un atto di guerra nei cieli italiani. Non fu infatti lanciato per errore il missile che abbatté l’aereo uccidendo 81 persone, tra cui 11 bambini, tra passeggeri ed equipaggio.
Quella maledetta sera del 27 Giugno del 1980, l’aereo che copriva la rotta Bologna-Palermo, partì con due ore di ritardo rispetto all’orario schedulato. Venne seguito nella parte finale del suo volo dai radar di Ciampino e Licola fino a quando scomparve, intorno alle 20,00, mentre era in discesa per atterrare all’aeroporto palermitano di Punta Raisi. Non vi arrivò mai causa coinvolgimento in un combattimento aereo. Ci sono state diverse versioni sull’accaduto, ma quelle fornita dal presidente Cossiga è certamente la più veritiera, peraltro corrispondente a quella fornita dagli stessi libici pur se mai in forma aperta.
Il DC9 dell’Itavia non era, ovviamente, un obiettivo per nessuno, solo si trovò sulla linea di fuoco del combattimento aereo. Tra chi? Tra due Mirage francesi, (la portaerei Clemenceau era di stanza nel Mediterraneo) e due dei Mig libici di scorta all’aereo presidenziale di Muammar Gheddafi, che sorvolava in direzione opposta la stessa tratta per recarsi a Belgrado in occasione di un vertice dei Paesi Non Allineati (NOAL). L’obiettivo, appunto, era Gheddafi.
I killer designati dalla Nato, per l’occasione, erano i Mirage francesi con l’appoggio degli americani. L’operazione, che era un obiettivo primario degli Usa (ci riprovarono bombardando Tripoli e la casa di Gheddafi nel 1986) venne condivisa con la Francia. Parigi d’altra parte non era certo ritrosa ad occuparsi del problema, visto lo scontro con la Libia in Africa, dove era ormai palese l'incremento del ruolo di Tripoli, particolarmente in Ciad.
I servizi di sicurezza libici vennero avvertiti all’ultimo momento (presumibilmente dai russi, gli stessi che li avvisarono dell’attacco su Tripoli nel 1986 e diedero di nuovo il tempo di mettere in salvo Gheddafi) di ciò che attendeva il loro leader sull’Adriatico. I libici invertirono così immediatamente verso Malta la rotta dell’aereo presidenziale con Gheddafi a bordo e mandarono due dei quattro Mig di scorta ad impegnare i Mirage per evitare che inseguissero l’aereo con il leader libico. Uno dei due Mig libici venne ritrovato sulla Sila, abbattuto nello scontro con i francesi, l’altro, presumibilmente, si trova nei fondali dello Jonio.
Il DC9 dell’Itavia è stato quindi vittima di un’azione di guerra destinata all’eliminazione fisica di un Capo di Stato straniero. La domanda di fondo è sostanzialmente una: l’Italia, intesa come sua intelligence e vertice politico-militare, era al corrente di quanto era in programma? Oppure venne tenuta all’oscuro per evitare che i ben noti buoni rapporti di Roma con la Libia potessero determinare un sabotaggio del piano criminale?
A sostegno della prima ipotesi c’è il modello operativo consueto della Nato, che prevede sempre il coinvolgimento attivo del suo paese-membro di maggiore prossimità territoriale nelle operazioni. Difficile dunque che la Nato potesse pensare ad un’azione di guerra nelle nostre acque territoriali senza consultarci. Difficile, ma non impossibile.
A sostegno della seconda ipotesi c’è invece la storia di relazioni positive tra l’Italia e buona parte del Medio Oriente (libici e palestinesi in particolare) che in diverse occasioni ha garantito gli interessi italiani, non senza irritare profondamente l’asse Washington-Tel Aviv. Dal caso Mattei alla vicenda di Argo 16, l’aereo dei servizi segreti italiani esploso sul cielo di Marghera nel 1973 (vendetta dagli israeliani in risposta alla liberazione dei palestinesi accusati di voler programmare un attentato a Roma contro la compagnia israeliana El Al) sono numerosi gli avvenimenti che hanno caratterizzato la differenza politica tra Italia e USA nella politica verso il Medio Oriente.
Nell'ambito di questo scontro ci furono i reciproci atti di sfida sulla gestione dei detenuti palestinesi tra Stati Uniti, Israele. Il più eclatante si registrò a Sigonella, dove il governo Craxi-Andreotti schierò i VAM dell’aereonautica militare contro la Delta Force statunitense che pensava di togliere con la forza dalle mani del governo italiano Abu Abbas, capo del commando che sequestrò l’Achille Lauro dove venne ucciso il cittadino americano Leo Klingoffer. Lo scontro tra Roma e Washington divenne una dimostrazione eclatante di come le strategie occidentali raramente coincidevano con quelle italiane nell'area, quando l'Italia era un paese.
C’è comunque ad avviso di molti una parte di entrambe le ipotesi in quanto avvenne in quelle ore. I vertici politici del governo italiano furono probabilmente ignorati nella costruzione dell’attentato. Probabilmente si ritenne che informare gli italiani avrebbe potuto mettere a rischio la riuscita dell’operazione, dal momento che Roma non aveva nessun interesse nella fine del regime.
Non solo con Gheddafi i rapporti erano improntati alla reciproca convenienza, ma l’incertezza che sarebbe seguita alla sua uccisione avrebbe messo fortemente a rischio il rapporto privilegiato tra Eni e aziende italiane con la Libia.
Dunque Parigi e Washington decisero con tutta probabilità di non ingaggiare il governo italiano nell’operazione. A conforto ulteriore di un’ipotesi di estraneità delle autorità politiche italiane nella specifica vicenda del DC9 Itavia, c’è poi da dire che difficilmente le autorità italiane avrebbero scelto le rotte civili dello spazio aereo nazionale per un’operazione che poteva essere realizzata in qualunque altro luogo e momento.
Ma questo non esclude affatto la responsabilità dei vertici militari italiani nella gestione delle indagini successive a quanto accaduto nel cielo di Ustica. Responsabilità attiva al momento non provata ma certamente non esclusa. Ci si riferisce, ovviamente, allo sbarramento offerto ad ogni tentativo di ricerca della verità.
La clausola della “doppia obbedienza” (al governo e alla Nato), infatti, può benissimo aver determinato un ruolo attivo della nostra aereonautica militare nell’insabbiamento delle responsabilità nell’operazione, attraverso il “muro di gomma” alzato negli anni successivi. Un muro fatto di bugie, depistaggi e dimenticanze strane che ha visto alcuni generali impegnati a fondo nell’ignominia dell’occultamento della verità ai propri vertici politici e alla nazione.
Nell’abbattimento dell’aereo dell’Itavia sono numerosi i tasselli del mosaico che ha caratterizzato in negativo la storia del nostro paese.
La servitù militare nei confronti della Nato, l’uso della forza da parte dei nostri alleati contro il ruolo dell’Italia in Medio Oriente, la doppia obbedienza dei nostri vertici militari e l’opera di depistaggio e disinformazione operata dai nostri servizi segreti civili e militari sono stati elementi decisivi. La rinuncia ad ogni elemento di sovranità nazionale e la gelosa custodia del segreto che si vorrebbe di Stato ma che in realtà riguarda spesso le attività dei settori deviati della nostra sicurezza nazionale e la copertura delle azioni d’intelligence occidentale con le connivenze italiane, sono alcuni dei tasselli del puzzle italiano, che da Mattei fino a Calipari raccontano la verità nascosta di un'alleanza a senso unico.
La sentenza arriva trentatrè anni dopo i fatti e spazza via d’un colpo trent'anni di menzogne raccontate da militari felloni e traditori. Spazza via anche le vergognose scelte dello Stato che schierò la sua avocatura per difenderli, salvo poi scoprire trattarsi di funzionari infedeli.
Per Daria Bonfietti, instancabile presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di Ustica, il governo italiano deve agire coerentemente: qualcuno sapeva e ha taciuto, qualcuno ha negato, qualcuno ha intralciato. Ha pienamente ragione: ora bisogna arrivare alla verità. Perché serve la verità storica, e non solo politica, sull’accaduto.
Ma perché questo sia possibile, é necessario che il prossimo governo italiano ponga con fermezza inderogabile sul tavolo della Nato e su quello del Quay D’Orsay la questione Ustica. L’Italia dispone dei mezzi necessari per ottenere la verità; conosce le leve da azionare per sollecitarla ed è in grado di determinare con esattezza la differenza che separa l’alleanza dal fuoco amico. Se solo vuole farlo. Se non ha paura di sentir dire quello che è successo la notte del 27 Giugno del 1980 e di voler smascherare le coperture utilizzate negli anni a venire per nascondere la verità.
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di Fabrizio Casari
Come previsto, il Presidente del Consiglio in carica per il disbrigo degli affari correnti, utilizza sfacciatamente la sua posizione istituzionale per svolgere la sua personale campagna elettorale. Sdoppiamento non nuovo, ne avevamo avuto dimostrazione con Berlusconi; ma da cotanto esponente della “salita” in campo, qualcuno si sarebbe aspettato un maggiore aplomb, una più sobria gestione del doppio livello di presidente non eletto e candidato non eleggibile. Invece, senza nessun accenno al buon gusto istituzionale, senza nessun rispetto per una terzietà che s’imporrebbe visto che non è formalmente candidato a nulla, il professor Monti non cessa di esibirsi in una campagna elettorale sferrando colpi in ogni direzione al riparo della sua veste istituzionale.
L’ultima esibizione è andata in scena a Davos, dove ha (come sempre) addossato colpe a partiti e sindacati per quello che è stato il fallimento totale suo e della sua compagine di demiurghi improvvisati. Se nelle scorse settimane in alcune delle sue innumerevoli ospitate televisive aveva accusato i partiti di non avergli dato carta bianca per disegnare l’Italia a piacimento suo e dei suoi sponsor, stavolta l’obiettivo principale del premier candidato per procura è stata la CGIL, accusata di avere fermato la riforma del mercato del lavoro: "Non abbiamo potuto andare avanti abbastanza - ha detto - perché uno dei sindacati ha opposto una consistente resistenza e non ha firmato neanche l'accordo per la produttività come fatto dagli altri".
Già solo queste parole, visti il merito e l’impatto sul paese delle cosiddette riforme del governo dei professori e presunti tali, configurano un dato di merito inoppugnabile per il sindacato guidato da Susanna Camusso. Sia sulla riforma delle pensioni che su quella del mercato del lavoro i guasti prodotti dalla coppia Monti-Fornero sono stati pesantissimi. Nella vicenda degli esodati, poi, l’incapacità conclamata, miscelata con l’idolatria narcisista ed autoreferenziale dello scombinato duetto, ha prodotto una situazione drammatica per centinaia di migliaia di lavoratori, d’un colpo privi di lavoro e di pensione al tempo stesso.
Una gestione da dilettanti allo sbaraglio, incapace di leggere il quadro e persino i numeri. Ed è proprio grazie al sindacato a al PD che le misure previste dalla ministra del pianto non siano passate del tutto, cosa della quale, evidentemente, l’ex-advisor di Goldman Sachs ed ex di molto altro ancora non riesce a capacitarsi. Nel suo immaginario, il professore ritiene che partiti e sindacati siano un intralcio, e che i governi (come disse in una intervista) non devono dare troppo ascolto al Parlamento. Un bel governo tecnocratico e teocratico, invadente verso l’interno e invaso dall’esterno è il suo orizzonte preferito.
Ma il fatto è che il fallimento della sua politica economica non è stato solo denunciato dai sindacati, ma anche dal Rapporto di Bankitalia e dal Fondo Monetario Internazionale nelle stime di crescita ridotte rispetto alle previsioni causa recessione indotta dalle politiche rigoriste e prive di equilibrio e tagli agli sprechi che il governo Monti ha somministrato all’Italia. Ovviamente, a detta di Monti sono Bankitalia e FMI in errore. Anzi, scopo la ricerca di voti, promette una ripresa dell’economia proprio nel 2013, benché tutti gli studi dicano sia improbabile. Bersani, che scemo non è, ha già fiutato l’inghippo sui conti e da qualche giorno fa presente come sia concreto il rischio di trovare “polvere sotto il tappeto”. Ovvero, rischiamo una nuova manovra di aggiustamento dei conti pubblici causa dati sbagliati.
E’ nervoso il professore. E ciò si spiega con il delinearsi costante della caduta dei consensi che la sua lista di riciclati incontra nelle intenzioni di voto. Fino a poco prima dello scioglimento delle camere, alcuni organi di stampa spacciavano sondaggi pallonari dai quali emergeva che Monti era l’uomo di cui si fidavano maggiormente gli italiani; una sorta di cucina Scavolini, insomma. Poi però, quando le promesse di non candidarsi hanno fatto la fine di quelle sull’equità, i sondaggi elettorali veri e propri hanno iniziato a delineare un ben più misero quadro per il centrino del professore, giustamente definito da Fassina una “lista del Rotary”.
La verità è che le proiezioni migliori per la sua lista non vanno oltre il 12% e che anzi, alcuni sondaggi che restano ancora chiusi nei cassetti, indicano il possibile risultato in una forchetta tra l’otto e il dieci per cento dei voti in conseguenza del recupero di Berlusconi. Ove così fosse, per Monti sarebbe una debacle totale, giacché la sola UDC ha sempre viaggiato tra il 5 e il sei per cento, al quale si dovrebbe aggiungere un 2% di FLI. Dunque quale sarebbe l’apporto del professore? Un due o tre per cento? Tanta boria per così pochi voti?
L’operazione elettorale di Monti, Casini e Fini, d’altra parte, è destinata solo a impedire che la destra o la sinistra possano vincere, che il paese abbia una chiara direzione politica dalle urne, che il bipolarismo si consolidi. Il progetto è impedire qualunque progetto. Il riferimento è alla stagione craxiana, caratterizzata dal tentativo piratesco di porsi a mo’ di Gino di Tacco sulla Rocca di Radicofani a taglieggiare i viandanti (cioè imporre i suoi al vincente relativo per trasformarlo in cambio in un vincente assoluto); ma potrebbe risultare inutile in assenza dei numeri necessari al Senato. Se infatti il PD e SEL dovessero riuscire ad avere la sufficiente maggioranza, il “dialogo” con il professore sarebbe di natura soprattutto “istituzionale”, relativo cioè alle riforme di sistema cui il prossimo governo dovrà mettere mano.
Ma c’è di più. Quale che sarà il risultato finale, sia esso l’otto o anche il dodici per cento, incombe il voto di Grillo. Se il M5S superasse il centrino, allora davvero Monti e Casini si ritroverebbero con il loro assemblaggio al quarto posto. Sarebbe la peggiore delle bocciature per il professore: gli italiani, che militano nei partiti, s’iscrivono ai sindacati ed eleggono i parlamenti sovrani, dimostrerebbero di saper mettere i voti ai professori.
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di Fabrizio Casari
Sembra decisamente ringalluzzito Berlusconi. L’accordo con la Lega gli ha certamente elevato le possibilità di non finire nel tritacarne elettorale; senza l’alleanza con i leghisti qualunque ipotesi, pur straordinariamente ottimista, non avrebbe retto alla logica prima ancora che alle urne. I cosiddetti padani, d’altra parte, o sottostavano al patto con il cavaliere o perivano in Lombardia, Veneto e Piemonte. E, sia chiaro, non è il coraggio che abbonda in Via Bellerio. Adesso che il ricatto si è compiuto e i beoti padani hanno abbozzato, l’ex premier si sente convinto di poter risalire la china; seppure non dovesse riuscire a vincere, ha detto ad alcuni suoi collaboratori, il suo risultato sarà sufficiente ad impedire che vinca la sinistra; e nel caso essa dovesse farcela, sarà costretta a penalizzanti accordi poco digeribili con Monti e la noiosissima schiera del censo che lo appoggia.
Difficile dargli torto, giacché passare dal ruolo di uomo da battere a guastatore sarà anche meno affascinante, ma per certi aspetti è molto più nelle sue corde; se infatti dal punto di vista della capacità di governo il fidanzato della Pascale è tutt’altro che un punto di riferimento, in quello dell’uomo della propaganda (nel senso peggiore del termine) è veramente abile. Non solo per il fatto di possedere tre reti televisive, giornali e periodici vari (pure questione di fondo), ma per l’assoluta disinvoltura con la quale distribuisce menzogne sul passato e sul presente scekerate con irrealizzabili promesse sul futuro utilizzando una sapiente tecnica di marketing di vendita, cioè proprio quello che i progressisti non sanno nemmeno dove sia di casa.
La processione ad Arcore di quanti nel suo cerchio magico lo avevano mollato e i sondaggi che lo danno in risalita sono due tra gli elementi che hanno riportato il buon umore a Palazzo Grazioli. Ma dal momento che ne sa una più del diavolo, il cavaliere è perfettamente cosciente che tutto ciò non basta e che una campagna elettorale che alla fine non si concludesse con una mezza vittoria non gli darebbe soverchie possibilità di rinegoziare poi una via d’uscita onorevole e conveniente per lui e per le sue aziende. Perciò s’industria e mette in campo ogni energia, non lesina sforzi e non sottovaluta il benché minimo dettaglio.
Nelle ultime 48 ore, dopo aver ricevuto un rifiuto secco da parte di Draghi all’offerta di una candidatura al Quirinale, ha provato ad alzare un muro sul processo di Milano, chiedendo di sospenderlo per impegni elettorali. Il tribunale, ovviamente, gli ha dato torto, visto che pur di allearsi con la Lega ha dovuto affermare che non corre per Palazzo Chigi, evidenziando con ciò di essere, sul piano formale, solo uno tra tanti delle migliaia di candidati a seggiole varie tra Senato, Camera, Regioni, Province e Comuni dove si vota. Dunque, nessun legittimo impedimento: non ce l’aveva da Premier, figurarsi da candidato. Questione delicatissima questa, perché il processo dove risulta imputato per concussione e sfruttamento della prostituzione minorile ricorderà a tutti, molto più di quanto abbiano fatto Santoro e Travaglio, chi è davvero l’omino che ha trascinato nel fango l’Italia. Cosa non simpatica mentre si cercano i voti.
Ma se l’istanza al tribunale di Milano fa parte della sua strategia di difesa giudiziaria, la boutade vera è quella di tipo elettorale. Berlusconi ha sostenuto, con la faccia che ha, di essere stato messo in guardia da possibili attentati contro di lui e che per questo dovrà rinunciare ai comizi e limitarsi alla manifestazioni al chiuso! Sembrava l’apertura del Tg di Emilio Fede. Ora, come afferma in una nota il Viminale, non solo nessuno ha mai allertato Berlusconi suggerendogli di rinunciare ai comizi, ma un paese che ha garantito la sicurezza di tutti i capi di stato, da soli o in gruppo, non ha nessun problema a garantirla anche a Berlusconi.
La verità è un’altra: il cavaliere nero sa che l’umore popolare nei suoi confronti è pessimo: non solo non riuscirebbe a riempire nessuna grande piazza italiana, ma correrebbe il rischio di sberleffi e lanci di ortaggi ovunque si presentasse. Riempire un teatro, invece, è molto più semplice, quasi banale.
E seppure una campagna senza comizi è difficile da ipotizzare per chi si dichiara espressione della volontà popolare, inventarsi il rischio attentato è l’unica giustificazione all’assenza da poter offrire, per quanto faccia ridere tutti. Meglio, molto meglio, evitare immagini di contestazioni; e soprattutto meglio, molto meglio, diffondere immagini di teatri pieni piuttosto che di piazze vuote: il rinculo mediatico sarebbe devastante.
Ma sarà bene non sottovalutare le doti del caimano, l’assoluta abilità mediatico-propagandistica e il fiero disprezzo delle regole della politica; mentre il centrosinistra continua ad autoflagellarsi alzando muri e limiti a tutto ciò che non ne fa organicamente parte, in nome di una credibilità di governo, Berlusconi non ha problemi a sommare ogni sigla, ogni personaggio, ogni avanzo, pur di contare numericamente più di quanto è in grado di ottenere da solo. Piccioli e picciotti, questa la summa della strategia elettorale.
Che il centrosinistra voglia darsi un profilo di credibilità è certamente positivo, fino a che non sconfina nell’autoreferenzialità. Poi bisognerà ricordare come vincere le elezioni è cosa difficile, mentre perderle è semplicissimo: basta dimenticare la differenza che c’è tra un convivio di accademici e gli aventi diritto al voto. E allora meglio aver presente la profondità della crisi sociale che discettare sulle formule, meglio aver contezza delle attese popolari che solo di quelle dei mercati. Dunque conviene esibire certificati di esistenza in vita ai lavoratori e ai disoccupati, ai pensionati e agli studenti, oltre che opportune rassicurazioni alla City. E’ bene non vendere la pelle dell’orso finché è vivo e in grado di mostrare le zanne.