di Antonio Rei

Tutto è cominciato con una violazione a cui nessuno ha dato peso: la nomina a senatore a vita. Senza quell'incarico piovuto dal cielo oltre un anno fa, ieri Mario Monti non avrebbe potuto giocare a nascondino con il Parlamento e i partiti. Tutti si aspettavano che nella conferenza stampa di fine anno il Premier dimissionario facesse chiarezza su come intende gestire il suo futuro politico.

E la risposta è stata un capolavoro d'opportunismo: il suo nome non comparirà su alcuna lista, ma il Professore si è detto disponibile a guidare un altro Esecutivo, a patto che la nuova maggioranza condivida la sua beneamata Agenda. Insomma, Monti vuole tornare a Palazzo Chigi senza passare per il fastidioso ostacolo delle elezioni. Vuole essere investito della carica per acclamazione.

Ora, nominare per la seconda volta a capo del governo una persona che non ha avuto il coraggio di presentarsi alle elezioni non vuol dire forse svuotare di significato il voto degli italiani, o quantomeno umiliarlo? A quanto pare no. Monti si difende da questa accusa sempre allo stesso modo: "Non ho bisogno di candidarmi perché sono senatore a vita". Dunque il posto in Parlamento gli è garantito di qui al giorno del trapasso.

Sorvoliamo sull'ignoranza o la malafede di chi sostiene che ai senatori a vita non sia concesso di correre per le elezioni politiche (è semplicemente falso). Torniamo invece a quella nomina, il vero peccato originale. L'anno scorso, prima di accettare l'incarico e formare il suo governo tecnico, Monti pretese che il Capo dello Stato gli concedesse uno dei massimi onori previsti nel nostro ordinamento repubblicano. L'articolo 59 della Costituzione recita così: "È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario".

Com'è evidente, la nomina di Monti fu più che una forzatura. Ad oggi, tanto per fare un esempio, ne avrebbe maggior diritto Fabiola Gianotti, la fisica italiana che ha guidato uno degli esperimenti che hanno portato alla scoperta del bosone di Higgs. Quello che si dice un "merito altissimo", che però fin qui le è valso solo il quinto posto nella classifica stilata dal Time sulle persone dell'anno.

Nel novembre 2011, invece, Monti divenne senatore a vita non tanto per aver "illustrato la Patria" in qualità di professore d'economia e commissario europeo, ma in vista del successivo sbarco a Palazzo Chigi e quindi, inevitabilmente, in politica. Solo oggi tuttavia siamo in grado di capire il reale valore di quella carica, un vero e proprio salvacondotto attraverso le regole della democrazia.

Il Professore ha così schivato il pericolo delle urne, che molto probabilmente gli avrebbero riservato un risultato assai misero. Ma dopo tutto questo, riuscirà davvero a bissare il mandato da presidente del Consiglio? E' una domanda che turba i sonni del candidato favorito a Palazzo Chigi, Pier Luigi Bersani. Ieri il leader del Pd ha ricevuto da Monti il placet definitivo ("è più che credibile", ha detto il Professore) e al tempo stesso ha garantito che ascolterà ogni proposta in arrivo (Agenda compresa), ma ora "la parola deve tornare agli elettori". Frasi di rito che non sbrogliano il groviglio inestricabile delle alleanze.

Le certezze al momento sono davvero poche. Quello che resta del Pdl sembra inevitabilmente fuori dai giochi, soprattutto dopo le frecciate scagliate dal premier dimissionario contro Silvio Berlusconi e Angelino Alfano, il segretario (per modo di dire ), del PDL è stato netto: “Dopo le parole di oggi, con Mario Monti è preclusa ogni ipotesi di collaborazione”). Il vero problema è nell'altro schieramento. Se davvero pensa di dialogare con l'Udc e la pletora di listine montiane spuntate come funghi al centro, il Partito Democratico dovrà necessariamente rinnegare l'alleanza annunciata con Sel.

C'é da augurarsi che ciò non avvenga. Una sterzata da sinistra a destra causerebbe quasi certamente la spaccatura più grave mai vista all'interno di un partito in cui le diverse componenti non si sono mai amalgamate del tutto (ex-dc, ex-comunisti, liberal, ex-socialisti, ecc.). La leadership di Bersani si annuncia quindi difficilissima e la sua probabile maggioranza quanto mai precaria. In compenso, ormai sappiamo chi sarà il suo successore. 

 

di Rosa Ana De Santis

L’emergenza carceri per cui Pannella porta avanti la sua estenuante battaglia, raccogliendo solidarietà d’eloquio e poco altro, trova un ennesimo, assurdo stop ai tentativi di arginarne l’urgenza e l’indecenza. A dirlo con amarezza è proprio il Guardasigilli, il Ministro Severino, che sperava di concludere l’esperienza di governo portando a casa almeno il ddl sulle pene alternative, che invece viene bocciato al Senato.

La misura, che sarebbe stata sempre posta al vaglio dei giudici, avrebbe riguardato almeno 2.100 destinatari, ma il balletto dei numeri, spesso sottostimati dallo stesso DAP ai relatori in Commissione Giustizia, ha fatto passare il provvedimento come una soluzione di scarsa efficacia. Detenzione domiciliare o messa alla prova sarebbero state le alternative al carcere, ma non si sarebbe trattato di un diritto acquisito.

Eppure è stata fatta ad arte la mistificazione, secondo il Ministro, insinuando il dubbio che si trattasse di indulto o di un’amnistia permanente. Il risultato è uno stop che paralizza ogni possibile intervento delle Istituzioni per adeguare a criteri di civiltà e giustizia la situazione delle carceri italiane che ormai abbandonate al degrado non assolvono più a quella funzione rieducativa della pena,  che specie per reati minori,  è il primo obiettivo di giustizia di una democrazia moderna.

Le pene alternative infatti avrebbero riguardato le sanzioni detentivo fino a quattro anni con opzione della pena domiciliare o di lavori di utilità sociale. Il disegno di legge del governo, il 5019 bis, avrebbe di fatto esteso la platea di quanti già adesso possono avvalersi di queste alternative che ad oggi poteva riguardare solo chi avesse commesso reati previsti dal comma 5 dell’art. 73 (produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti di lieve entità), o  dagli articoli 186 comma 9-bis e 187 comma 8-bis del d.lgs.285/1992 del Nuovo codice della strada, per la guida in stato di ebbrezza.

Il Ministro ha cercato di portare avanti questo disegno di legge mettendolo al riparo dalle strumentalizzazioni della campagna elettorale che invece, già iniziata, come sempre trova nella questione carceraria un tema eccellente per orchestrare retorica a caccia di voti sulla pelle dei detenuti, di cui poco importa all’opinione pubblica,  e nessun reale impegno per risolvere l’emergenza.
Si farà un estremo tentativo entro fine legislatura e il Ministro ripartirà dal presidente Schifani e dai capigruppo al Senato. L’immobilismo è l’unico tratto comune degli ultimi governi sull’emergenza carceri, nonostante i rapporti “Antigone” e non solo abbiano continuato a testimoniare i numeri dell’emergenza: sovraffollamento, condizioni disumane, malattie e suicidi.

Un carcere che funziona come una gabbia e non come un luogo in cui allo sconto della pena si unisce, parallelamente, il percorso di recupero e reintegro nella società. Un carcere che apre le porte per i più poveri e i meno difesi: gli immigrati, i clandestini, i tossicodipendenti che possono rimanere a marcire come fossero i peggiori criminali. Peggiori tanto quanto chi uccide una donna con violenza, chi evade il fisco, chi ruba con i falsi in bilancio e manda sul lastrico migliaia di onesti cittadini.

E così mentre la legge diventa sempre meno uguale per tutti, le carceri lo sono già. Nel silenzio generale di un Paese che dimentica la sua legge madre, come l’ha definita Benigni in RAI, o che, miseramente, non la conosce.


di Fabrizio Casari

Si può approvare o disapprovare il metodo utilizzato da Marco Pannella per richiamare l’attenzione sull’urgenza di una amnistia che svuoti almeno in parte le carceri italiane. La forma estrema dello sciopero della fame e della sete non può essere giudicata da chi mai vi si presterebbe. Il rapporto con il proprio corpo, con la propria vita e il grado di compenetrazione profonda con le proprie idee e i propri convincimenti non è sottoponibile a giudizi terzi.

Si può solo discutere se l’allarme lanciato dal leader radicale sia giusto o fuori luogo e se la soluzione che propone sia idonea o sbagliata. Ma quello su cui è difficile obiettare, è la fondatezza delle ragioni che l’anziano guerriero dei diritti civili sbatte con forza sul tavolo di un’agenda politica che ignora come sempre il dato drammatico dello stato delle nostre carceri.

Sono spaventosi i numeri che raccontano la vergogna del regime carcerario italiano. Pur essendo il nostro paese in una posizione intermedia per quanto riguarda il rapporto tra popolazione generale e detenuta, le condizioni nelle quali la pena viene scontata sono barbare. In 47.500 posti disponibili sono stipati 63.300 detenuti, accatastati in celle anguste e prive dello spazio vitale. Non spaventassero abbastanza queste cifre, si può aggiungere che sono già 60 nel 2012 i suicidi e otto detenuti su cento sono autori di atti di autolesionismo fisico. Negli ultimi cinque anni, i suicidi sono stati 306.

In un paese dove ci sono 9 milioni di giudizi pendenti tra penale e civile e che vede 170.000 prescrizioni all’anno, il governo dei tagli ha stabilito, per il 2013, un taglio di 22 milioni di euro di spese per il vitto e di 19 milioni di euro di spese per l’assistenza e la rieducazione dei detenuti. Quanto alle politiche carcerarie destinate a favorire sin dalla detenzione il reinserimento dei detenuti, come previsto dal nostro ordinamento, nel 2013 verranno tagliati 2,3 milioni di euro destinati alle “mercedi”, cioè i miseri salari che i detenuti percepiscono per i lavori svolti in carcere.

L’amnistia che propone Pannella, pur essendo il minimo risarcimento dovuto da parte di un Parlamento cieco e sordo, difficilmente vedrà la luce. Storicamente, Parlamento e Senato sono ammantati  d’ipocrisia sulla materia, basti ricordare l’applauso che accolse Giovanni Paolo II quando pose con forza il problema all’attenzione dell’aula e lo scrollar di spalle che ne seguì quando il Pontefice fece ritorno in Vaticano. A maggior ragione, con la campagna elettorale alle porte, nessun partito vorrà prestare attenzione al tema. D’altra parte, loro si cautelano con l’estensione oltre ogni decenza del principio d’immunità, perché mai dovrebbero preoccuparsi di chi non ne usufruisce?

Ma indipendentemente dalle scarse possibilità che un provvedimento di amnistia veda la luce, non è forse la strada giusta e risolutrice quella che vede nei provvedimenti di clemenza la soluzione anche parziale e momentanea del problema.

Servirebbe agire su due altri fronti per trasformare una soluzione temporanea in una definitiva. In primo luogo dando via alla legge che istituisce le pene alternative al carcere, dal momento che il 20% dei detenuti è ancora in attesa del primo grado di giudizio e si arriva al 40% con chi si trova in carcere pur non essendo ancora stato condannato in via definitiva. In secondo luogo, si deve agire sul fronte politico, giacché solo la depenalizzazione di alcuni reati risolverà definitivamente il problema del sovraffollamento carcerario e dell’ingorgo atavico dei procedimenti giudiziari.

In Italia, purtroppo, diversamente dal resto del consorzio civile europeo, disponiamo di Fini, Bossi e Giovanardi. Questo inverecondo terzetto, causa autopromozione politica,  si è reso protagonista di due leggi, sull’immigrazione e sugli stupefacenti, che hanno trasformato il diritto penale in un abuso continuato e la giustizia italiana nel carnevale.

L’Italia è l’unico paese europeo che imputa ai migranti il reato di immigrazione clandestina. Non facendo nessuna differenza tra lo scafista mercante di uomini e il migrante che attraversa disperato il mare, mette sullo stesso piano vittima e carnefice. Stesso discorso per quanto riguarda le norme in vigore sull’uso degli stupefacenti. Qui la follia è doppia: da un lato, indifferenti ai principi scientifici e ai protocolli sanitari vengono equiparate droghe leggere e pesanti: inoltre si equipara il possesso allo spaccio laddove la quantità è superiore ad un paio di spinelli. Si stabilisce arbitrariamente la dose prevista per “uso personale” e si prevedono pene pazzesche (da 6 a 26 anni) per chi detiene più di quattro grammi.

Ci si trova di fronte ad un mostro giuridico che offende il diritto e prima ancora il senso comune e che stride fortemente con il costume consolidato del paese. In barba a qualunque considerazione scientifica e sanitaria, indifferente a qualunque valutazione di opportunità, senso delle proporzioni e ragionevolezza, l’art.73 esprime una visione talebana ispirata dalla sottocultura della destra, che vede la libertà degli affari come orizzonte e la libertà degli individui come una minaccia. Non a caso lo stesso terzetto votò entusiasta l’abolizione del reato di falso in bilancio: chiaro quindi cosa li preoccupa e cosa li rasserena.

Ma anche sul piano del funzionamento della giustizia l’impatto delle norme talebane è pesantissimo. Perché rappresenta un costo enorme per la comunità; distrae dalla lotta al crimine l’attività della polizia giudiziaria, intasa il lavoro dei pubblici ministeri e dei tribunali e le conseguenze ricadono pesantemente anche sul sistema penitenziario. Quasi il 40% del totale dei detenuti, infatti, è imputato o condannato ai sensi dell'art. 73 del Testo Unico di disciplina degli stupefacenti, inerente l'acquisto, la ricezione e la detenzione di droghe.

Abolire la legge Fini-Bossi sul reato d’immigrazione clandestina e la legge Fini-Giovanardi sugli stupefacenti, riconsegnerebbe la questione carceraria e, con essa, quella più ampia della giustizia, ad una dimensione fisiologica dal punto di vista dei numeri. Ma è ovvio che i tempi di un superamento delle due leggi liberticide sarebbero lunghi, anche ove ci fosse la volontà politica. Nel frattempo, dunque, per affrontare l’emergenza, l’amnistia è l’unica soluzione possibile insieme all’approvazione rapida del disegno di legge sulle misure alternative al carcere.

Si dice che la libertà di un paese, così come il grado di civiltà, stia scritto sui muri nelle celle delle sue prigioni. Se questo è vero non c’è certo da rallegrarsi per lo stato di salute della nostra democrazia. I luoghi del disagio sociale e della marginalità risentono più di qualunque altra situazione dell’indifferenza di un sistema malato, autocentrato sull’ombelico dei potenti. Per questo va comunque ringraziato Pannella quando a nome di tutti noi, anche di chi non lo sa, accende i riflettori sull’ingiustizia disumana della giustizia. Occuparsi degli ultimi è un ottimo metodo per guardare cosa fanno i primi.

 

di Fabrizio Casari

Sembra che siano tutti con il fiato sospeso in attesa che il professor Monti, premier per ancora qualche settimana, decida quale sarà il suo futuro. Il professore accarezza l’idea di rimanere a Palazzo Chigi più di qualunque altra prospettiva d’incarico, ma i sondaggi non confortano ambizioni e aspirazioni, mentre la sola scelta di mantenersi le mani libere gli ha già fatto perdere l’appoggio del suo sponsor istituzionale più importante, il presidente Napolitano.

Monti deciderà quale strada gli converrà percorrere sulla base delle richieste alle quali non potrà rifiutarsi di aderire. Le pressioni che gli piovono addosso dall’estero dicono molto su quali siano interlocutori e referenti del professore, mentre quelle che arrivano dall’interno indicano più che altro la disperazione politica nella quale versa la destra italiana.

La monocorde eurocrazia a guida tedesca, preoccupata di un eventuale arrivo della politica alla guida dell’Italia, ricorda a mo’ di minaccia il “contributo di Monti al risanamento dell’Italia”. Il fatto che il debito pubblico sia aumentato, che lo spread tra i titoli italiani e tedeschi sia rimasto altissimo e che l’economia del paese sia in piena recessione non riducono affatto, dal loro punto di vista, i meriti del professore. Anzi, le sue politiche ultraliberiste, che stroncano la ripresa italiana, sono utili proprio al rafforzamento della guidance tedesca sull’intero continente. In fondo, grazie a Monti le banche internazionali dispongono di un controllo totale sull’economia e sul sistema paese; insieme alla Grecia, oggi, l’Italia è la nazione europea che ha nelle vesti di Primo Ministro un fidato funzionario dei poteri forti, nazionali e stranieri.

Chiaro che un mandato elettorale che riportasse al governo la politica - e magari una politica riformatrice - metterebbe in discussione la funzione supina del Paese verso i centri della speculazione finanziaria. I quali dapprima hanno causato la crisi e poi, grazie appunto ai loro funzionari, sono riusciti non solo a non pagarla ma addirittura a lucrarci ulteriormente guadagnandoci due volte: la prima con le operazioni folli sui derivati, la seconda accollando sui bilanci pubblici le perdite dei loro azionisti. Qui si collocano le ragioni di tante pressioni: nel timore che un nuovo governo, pur mantenendo sotto controllo le politiche di spesa, acquisisca una diversa politica economica in Europa e fuori che potrebbe mettere in discussione la guidance tedesca del continente.

Ove Monti decidesse per sua tranquillità personale di non voler scendere in campo, riservandosi il ruolo di “tecnico” a disposizione del Paese, sa perfettamente che perderebbe la fiducia dei poteri forti europei, che fin qui gli è servita in tutta la sua carriera politica. Allo stesso tempo è però consapevole di quanto il sacrificio che gli viene chiesto sia duro: pensare di rispettare i patti scellerati che prima Berlusconi e poi lui hanno firmato con l’Europa dei banchieri significa governare un paese che rischia la definitiva disgregazione sociale. Uno per tutti, l’impegno al pareggio di bilancio nel 2013, già improponibile in condizioni di crescita, é del tutto impossibile in una fase recessiva che anche per il 2003 prevede un meno 1,5 di PIL. L’idea di partenza era quella di scaricare su chi lo avrebbe seguito i costi della sua devozione alla Merkel, non di assumerli su di sé in prima persona.

Nel frattempo, tocca ai suoi fidati cominciare a muovere pedine per vedere quali potrebbero essere le mosse per una lista Monti, sia essa con il premier espressamente candidato, sia come ispiratore dall’esterno. La sostanza cambierebbe poco, dunque quello che sembra chiaro è come la mossa di Riccardi ed altri sia un sondaggio esplorativo su incarico del professore per cercare di vedere nel concreto i margini di manovra possibili e gli spazi di una sua lista.

Un panorama diverso, ma non più nobile, è quello all’interno della destra italiana, dove anche solo allungando lo sguardo si nota lo stato di decomposizione permanente e la dispersione in mille rivoli del suo ceto politico, oltre che del suo blocco sociale. Il tentativo da parte di Berlusconi d’ingaggiare Monti nasce dalla consapevolezza di un’impossibile ritorno di fiamma degli italiani per le sue promesse.

Una destra ormai affatto credibile ha bisogno proprio della credibilità del professore per mettersi al riparo dalla memoria degli italiani, che ben ricorderanno venti anni di governo che hanno alimentato solo prostitute e faccendieri, rubagalline e corrotti di ogni risma senza che nemmeno una delle sue annunciate riforme per liberalizzare il paese sia stata realizzata. L'ultima trovata l'ha lanciata ieri da Vespa, quando ha proposto di rinviare il voto di due settimane, per evitare "fretta eccessiva".

Non si era mai sentito nella storia della Repubblica l'accomodamento delle elezioni ai tempi di uno dei candidati ed è un'ulteriore segno di difficoltà dovuto alle mosse e contromosse che agitano la partita tra Berlusconi e Monti. Il primo ha voluto lanciare un ultimatum e il professore lo lascia sospeso, costringendolo a cambiare versione almeno quattro volte al giorno sul cosa fare, con chi e con che sigla.

Il bilancio penoso del ventennio di governo della destra rende impossibile pensare di ripresentarsi agli italiani come se nulla fosse successo ma, allo stesso tempo, la rottura al suo interno e la debolezza al suo esterno la proiettano verso la debacle elettorale e spianano la strada alla vittoria del centrosinistra.

E’ qui, su quest’ultimo aspetto, che le pressioni internazionali e quelle interne s’incontrano; nel tentativo d’impedire che il centrosinistra conquisti il governo del paese, a maggior ragione dopo non essere stati in grado di modificare la legge elettorale. Con il porcellum, il partito di maggioranza relativa ottiene quella assoluta e, in questo modo, disporrà del margine numerico e politico per poter governare e riformare il paese senza nemmeno dover ricorrere al sostegno del centro.

Non a caso Bersani, nel colloquio di ieri con il Premier, ha avvertito che ove Monti scendesse direttamente nell’arena elettorale, “lo sconto sarebbe inevitabile”. Il PD, che ha dato oltre ogni immaginazione il suo sostegno al governo dei cosiddetti “tecnici”, si troverebbe però nella condizione di dover marcare una presa di distanza più netta da Monti e dalle sue inefficienze e proporre un’agenda di governo molto diversa da quella sulla quale il professore chiamerebbe al voto. Non tanto sull’operato del governo Monti, quanto sulle diverse ricette per accompagnare la ripresa economica e impedire la disgregazione sociale.

Che poi il centrosinistra abbia lo spessore necessario per modificare le linee guida economiche, anche volendo mantenere i saldi invariati del bilancio, è tutta un’altra storia. Ma è sufficiente il timore di vedere Bersani e Vendola varcare il portone di Palazzo Chigi a scatenare paure ed esercitare pressioni. Tanto per avere un’idea degli interessi che sono in ballo.

di Antonio Rei

Non gli conviene, lo sa benissimo. I numeri gli danno torto e la sua carriera rischia di implodere subito dopo aver toccato l'apice. Eppure, a questo punto, è addirittura probabile che Mario Monti si candidi alle prossime elezioni politiche. Se non per convinzione, quantomeno per obbedienza, visto che da settimane subisce pressioni indicibili dai suoi principali referenti: i tecnocrati europei e il gotha finanziario.

Non c'è dubbio che da Bruxelles e Francoforte arrivino i messaggi più espliciti. L'ultimo in ordine di tempo è stato quello di Mario Draghi: "Le riforme economiche danno frutto, anche se, nel breve termine, il costo per i cittadini è considerevole - ha detto ieri il presidente della Bce davanti al Parlamento europeo -. Ma le riforme sono il giusto corso e i governi devono perseverare. L'aggiustamento dei conti è visibile, ad esempio, guardando all'aumento dell'export in Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo". Inevitabile leggere in queste parole un invito al nostro Paese, chiamato a proseguire lungo la strada tracciata del Professore.

Sempre ieri, un'altra pacca sulla spalla del Premier è arrivata dalla Commissione europea, che ha dato il via libera alla ricapitalizzazione del Monte dei Paschi di Siena tramite 3,9 miliardi di euro in "Monti bond". Aiuti di Stato, per intenderci, che solitamente a Bruxelles non vedono affatto di buon occhio.

Fin qui gli ultimi segnali della comunità internazionale, che si sommano alle esortazioni sfacciate arrivate nei giorni scorsi dai più influenti leader europei. Su tutti la cancelliera tedesca, Angela Merkel, che ha lasciato intendere chiaramente la sua predilezione per Monti. Ma non basta: il Partito popolare europeo si è prodotto in una serie di anatemi anti-berlusconiani per sottolineare il contrasto con la presunta lungimiranza del Professore, mentre l'ambasciatore Usa in Italia ha composto l'ennesimo panegirico del montismo.

In tutti questi casi l'obiettivo più ovvio è evitare che in Italia prenda il potere un governo credibile di centrosinistra, il quale rischierebbe d'indebolire il teorema del turbomonetarismo all'europea, danneggiando i signori della speculazione.

In questo turbine di smancerie, per il momento, il diretto interessato non si sbilancia. A ben vedere, tuttavia, anche dal fronte interno arrivano dei segnali che fanno pensare a una prossima discesa in campo del Professore. Ieri il governo ha presentato in commissione Bilancio al Senato un subemendamento per rinviare da gennaio ad aprile il pagamento della prima rata della Tares, la nuova (pesante) tassa sui rifiuti e su altri servizi comunali. Si tratta della correzione a un emendamento che a sua volta era stato presentato dall'Esecutivo un paio di giorni fa.

E' possibile che ci siano ragioni tecniche (sembra che ancora non sia affatto chiaro come calcolare il prelievo), ma è anche verosimile che lo slittamento sia riconducibile a motivi elettorali. Con il ricordo dell'Imu ancora fresco, come potrebbe il super-tecnico candidarsi alle elezioni mentre infligge l'ennesima stangata fiscale ai suoi connazionali?

C'è poi un'altra squadra di burattinai da tenere in considerazione. Oltre all'Europa, tifano per Monti anche i grandi poteri finanziari italiani. Parliamo di quello che una volta era conosciuto come "il salotto buono", riunito intorno al tavolo della Mediobanca di Enrico Cuccia. Grandi istituti di credito, grandi assicurazioni, grandi fondi d'investimento. Un intero universo che dopo Tangentopoli ha perso il suo naturale riferimento politico (la Dc), senza mai riuscire a far pace con la volgarità paesana del berlusconismo. Basti ricordare la guerra aperta dell'avvocato Agnelli contro l'ingresso del Cavaliere nel capitale di Mediobanca.

Sarà forse una speranza velleitaria, ma questi feudi oggi sognano che il Professore riesca a creare intorno a sé il nuovo, grande partito della borghesia italiana. Una destra liberista, europeista, fintamente cattolica e progressista, all'occorrenza trasformista. Una destra che finalmente se ne frega della Procura di Milano e tira dritto lungo la sua strada speculativa.

E' possibile che Monti riesca a resistere a questo genere di pressioni? Se si limitasse a valutare pro e contro, il Professore farebbe meglio a puntare sul Quirinale. Ma l'ambizione personale mal si concilia con una carica ingessata dalle strettezze della Costituzione. E allora ecco che d'improvviso si favoleggia di un nuovo soggetto politico: non certo il fantomatico "rassemblement" di cui vaneggia Berlusconi, ma una formazione che occuperebbe lo spazio lasciato vuoto dall'inconsistenza di Montezemolo.

Una visione realistica assegna a un partito del genere pochi voti (il 10%, a essere generosi). Ma in politica non è da sottovalutare l'effetto domino: cosa farebbero a quel punto i pidiellini scontenti? Meloni, Crosetto e La Russa stanno già abbandonando la nave e il Cavaliere potrebbe ritrovarsi ben presto molto più isolato di quanto temesse.

Un discorso speculare vale per il centrosinistra: Bersani accarezza in modo ambiguo una possibile alleanza con l'Udc, ma questa porterebbe certamente all'abbandono di Sel e probabilmente anche a una guerra civile nel partito. Casini non è un'alternativa presentabile per chi si ritiene di sinistra. Monti, invece... 

 

 

 


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