di Fabrizio Casari

Nel suo esagerato peregrinare televisivo di questi ultimi giorni si è potuto ammirare come il professor Monti abbia nei suoi privilegi e nella sua personale convenienza la stella polare di ogni ragionamento. Si candida dietro le quinte per non rischiare il vitalizio, pensa di governare senza vincere le elezioni, moltiplica le liste per lucrare in termini di par conditio e interdizione parlamentare. Ma non era un sobrio tecnico super-partes?

Vediamo il metodo. Propone d’innovare con Casini e Fini, di modernizzare battezzando la coalizione in un convento, parla di diritti delle donne compilando l’agenda con altri quattro uomini, utilizza la gestione per gli affari correnti del governo per presentarsi in tutte le reti a fare propaganda per lui e la sua agendina mentre chiede agli avversari di silenziare i suoi critici. Insomma, non solo sceglie solo lui i suoi, ma pensa di farlo anche per gli altri. Dove sia lo spirito moderato resta un mistero.

Della vituperata tradizione politica italiana, il professore pare cogliere gli aspetti meno nobili, quali intitolarsi personalmente un progetto politico, imbarcare residuati d’ogni risma e colore, proporre ricette in cui non crede per rastrellare voti, offrirsi come ago della bilancia per future e disinvolte alleanze. Ma il dato nuovo, rispetto ad altre aggregazioni più o meno fortunate, è quello di chiedere potere senza esporsi direttamente, pensando di poter governare senza vincere le elezioni (come un qualunque Ghino di Tacco); esporsi e nello stesso tempo defilarsi, presentando un’operazione che in caso di vittoria si assegnerebbe e in caso di sconfitta scaricherebbe su Fini e Casini che lo sostengono.

Vogliamo passare dal metodo al merito? Con uno dei suoi mirabili giochi di parole, Dagospia ha definito l’agenda Monti “agendina in pelle riciclata”. Ma, ironia a parte, è proprio la sua agenda che merita un’ulteriore riflessione, dal momento che se è vero che poche volte come nell’occasione il nulla cosmico è stato spacciato come il sale della terra, è altrettanto vero che il Monti-pensiero è oggi pericoloso per le pulsioni autoritarie che implica. Non c’è nessun pensiero di livello medio-alto, condivisibile o meno, nelle paginette. In una sostanziale rivoluzione copernicana dell’esistente, Monti spiega che la finanza non è una branca dell’economia e che questa non è uno degli aspetti del vivere determinati dalla politica, bensì il contrario.

Non è un caso che ritenga le elezioni un’inutile rito politicista, pur trovandocisi però a meraviglia. La politica, nell’immaginario montiano, è una fastidiosa variabile dell’organizzazione sociale che non può che essere definita dal mercato, dunque ha un ruolo solo se asseconda il modello. In questo senso non ci sono sinistra e destra che si avversano in quanto portatori di identità e progetti alternativi tra loro, giacché la disputa ideologica è un aspetto ormai anacronistico nell’era del pensiero unico. Dio in chiesa e il mercato liberista fuori dalla chiesa: non c’è molto altro.

Quella che viene fuori dalla lettura dell’agendina è un’idea del governo dei popoli e dei paesi che archivia d’un colpo le contraddizioni epocali sul cui sfondo l’umanità ha costruito, secoli dopo secoli (e guerre dopo guerre), l’ambizione all’elevazione del genere umano. Le grandi questioni che hanno terremotato la storia dell’umanità, nella carne come nello spirito, sono infatti archiviate per sempre.

Da chi? Da una nuova divinità superiore: il pareggio di bilancio, che seppellisce definitivamente la sovranità nazionale degli stati e la loro autonomia nel prefigurare il modello di sviluppo. Scompaiono così la contraddizione tra l’autoritarismo e la democrazia, tra il progresso e la reazione allo stesso, tra la concentrazione monopolistica della ricchezza e l’allargamento al maggior numero di persone della stessa. Diventano anticaglia le culture dei diritti sociali ed economici, la diversità tra i modelli inclusivi e quelli esclusivi di organizzazione sociale, tra l’estremismo liberale e le costituzioni democratiche che hanno favorito il ruolo regolatorio e ordinamentario degli stati e delle organizzazioni internazionali. La democrazia diventa una superstizione o poco più, non è un caso che l’agendina non ne faccia cenno.

E’ un’agendina minimal, di spessore intellettuale pari a zero, quella con la quale il funzionario dell’Unione europea chiude la storia europea; libertà, fratellanza, uguaglianza, i principi cardine dall’illuminismo fino alla Rivoluzione d’Ottobre, diventano oscure tracce del passato e persino la diversa concezione dello sviluppo economico che ha animato lo scontro secolare tra socialismo e capitalismo e, all’interno di quest’ultimo, tra economia sociale di mercato e liberismo, tra modello inclusivo ed escludente, sono artefatti ormai superati. Siamo quello che mangiamo, niente di più. Parola di Monti.

Quello che c’è di chiaro nell’agendina è davvero poco, ma è quello che viene malcelato ad essere più preoccupante. Non si parla di democrazia, di governance, di diritti sociali e di lotta alle diseguaglianze, perché sono temi che suscitano la riflessione e l’azione politica; di per se stessi, perciò, portatori di regole d’ingaggio per i popoli in chiave di allargamento della sfera dei diritti, che trasformano i sudditi in protagonisti, i governati in cittadinanza attiva. Pulsioni pericolose e controproducenti per i mercati, che non sopportano distrazioni quali la sovranità popolare; i controllori non tollerano essere controllati, men che mai regolamentati.

L’Europa dei banchieri e dei tecnocrati non prevede infatti allargamento della sfera dei diritti sociali e politici, riduzione delle diseguaglianze, ricerca degli equilibri attraverso la mediazione sociale. Perché la lotta alle diseguaglianze, utile anche per le politiche di crescita oltre che sacrosanta e persino in linea con l’originario spirito europeista, viene temuta in qualità di freno oggettivo al comando centralizzato dell’Europa delle banche e della speculazione finanziaria, proseguimento con altri mezzi della supremazia industriale un tempo vigente.

E la famosa Europa? Il disegno contenuto nell’agendina non la propone come continente unito e unitario, come dimensione sovranazionale di un’identità politica pur difficile da raggiungere, ma solo come Europa della finanza e della moneta, concependo l’ortodossia della ragioneria finanziaria ultraliberista come Alfa e Omega dell’orizzonte politico europeo.

Non ci si pone mai l’interrogativo sull’efficacia del modello e sul deficit profondo che vige tra le aspirazioni contenute nel disegno dei padri fondatori della UE e l’egemonia assoluta del panzern tedesco, che continua da secoli a immaginare il vecchio continente come la sede geografica del suo impero, il luogo da quale estrarre ricchezza e forza destinate alla proiezione internazionale del Reich. Tantomeno si ricorda come proprio l’esigenza di arginare la pulsione imperiale tedesca sia stata una delle motivazioni che hanno determinato la costruzione del Manifesto di Ventotene.

Non sono dimenticanze figlie della fretta, non si tratta di omissioni interessate o di superficialità dell’analisi, pure colpe presenti a dosi massicce nell’esposizione di Monti, autodenominatosi economista senza esserlo (è professore di economia, che è cosa assai diversa) statista (senza mai esserlo stato) e indipendente (ruolo smentito da tutta la sua carriera al servizio di banche e partiti).

Quello che dalle paginette emerge con chiarezza è l’assoluta assenza di un pensiero mentre abbonda la dottrina del primato assoluto dei numeri. Come fosse stata redatta a Manchester, emerge come l’idea che Monti e i suoi ispiratori hanno dell’Europa è la stessa da sempre: non un continente dove sperimentare un modello democratico e federale, ma governato dal comando assoluto dei centri finanziari, pronti, all’occorrenza, ad occupare le istituzioni, come appunto nel caso di specie.

In una classica nemesi, sarà la dura realtà dei numeri a riporre Monti nell’abito che gli appartiene, saranno le percentuali elettorali a definire una volta per tutte lo spessore del personaggio e la fiducia popolare di cui gode. Nei circoli dell’Europa che conta (e persino in seno al suo primo sponsor, il Vaticano) sembra ci siano già le prime delusioni, non si credeva che il livello di consenso potesse essere così basso. Previsioni? Niente di strano che l’omino con i poteri forti alle spalle che voleva mangiarsi l’Italia, tra meno di due mesi si trovi con le spalle scoperte e l’Italia sul gozzo, inducendo i suoi riferimenti a cercare un uomo diverso con cui riprendere il gioco. Tornerà utile allora non aver comodamente rinunciato al “sobrio” vitalizio da senatore a vita.

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