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di Giovanni Gnazzi
Tra domande legittime e reazioni rabbiose, tra dubbi sulle procedure e rifiuti di rispondere, tra sospetti di manipolazione di liste e allungamento di mani sul denaro che verrà, le parlamentarie grilline sono state una vera debacle per il M5S. Dovevano essere la risposta democratica alle primarie del PD, una sorta di messa in rete di un diverso modo di scegliere candidati e liste ma in realtà si sono rivelate soprattutto un disastro d’immagine.
Le proteste, che hanno assunto dimensioni numeriche non indifferenti, lungi dal produrre una discussione in rete sulle procedure e come garantire la trasparenza delle operazioni di acquisizione, selezione e raccolta voti dei candidati, hanno scatenato le ormai quotidiane ire di Grillo che trova in ogni domanda ed ogni richiesta l’occasione per dire a qualcuno di andarsene.
Molti lo hanno già fatto e molti altri lo faranno, scambiare la rete per i vialoni di Pyongyang non era l’ambizione di partenza. Proprio oggi ha espulso Favia e Salsi, proseguendo così le epurazioni, ormai numericamente più significative delle nuove adesioni.
E quasi a voler certificare l’ormai cresciuta distanza tra il comico isterico e i suoi adepti, c’è da segnalare come sia proprio nei numeri che le parlamentarie hanno fatto flop. Secondo calcoli fatti in rete dagli stessi esponenti del Movimento 5 stelle, trentadue mila sarebbero i voti espressi: se così fosse si tratterebbe di un numero decisamente basso, un sostanziale 15% degli iscritti al M5S, giacché lo stesso Grillo aveva dichiarato, lo scorso giugno, essere duecentomila.
La difficoltà per l’accessibilità alla candidatura di alcuni non proprio nelle corde del comico e la farraginosità delle credenziali che si sarebbero dovute esporre per risultare candidabili ha di gran lunga superato sia la cripticità delle regole in casa PD sia anche il senso del ridicolo genericamente inteso.
A chi ha fatto notare come il suffragio universale dovrebbe valere anche in Rete e come l’esiguità del numero dei voti non consentirebbe di giudicare l’operazione riuscita, e chiede perché mai non ci sono dati ufficiali e perché nessun ente terzo ha certificato i numeri, Grillo risponde sul suo blog che “chi all’interno del movimento fa domande su domande e si pone problemi della democrazia del movimento va fuori dalle palle!”. Sobrio e convincente.
L’impressione è che il movimento 5 stelle stia perdendo molto di quel fascino di rottura democratica dei riti anacronistici della politica che aveva rappresentato. Proprio la partecipazione collettiva dove ogni testa valeva un voto e dove ognuno poteva riconoscersi nel rappresentarsi dal basso, senza padroni e senza guinzagli, pare ormai essere diventata un’immagine non più rispondente alla realtà.
Se in qualche modo era inevitabile lo sgretolamento di certezze fideistiche sull’uomo della provvidenza che tutto ha capito e che tutto cambierà, c’era però lo spazio per rappresentare l’Italia dei diritti civili e della buona amministrazione, una sorta di laboratorio permanente di organizzazione dal basso che punta verso l’alto, sovvertendo bruscamente lo schema della politica verticistica dei partiti.
Invece quello che viene fuori dall’atteggiamento di Grillo è un impasto di cesarismo, di cultura proprietaria, di volgarità e di livore che sembrano indicare più la paura di perdere il bottino all’orizzonte che non quella di garantire democrazia e trasparenza per cambiare il paese. Se degli altri non tolleri le opinioni, è fuori luogo chiedergli l’adesione.
Perché puoi essere in Rete o a terra, in cielo o per mare, ma la garanzia del diritto di parola e di dissenso, le procedure e le regole per la gestione della vita interna di una organizzazione e persino la collegialità degli organi di autodisciplina interna sono le stesse e tutte a tutela delle potenziali vittime di abusi di potere. Dove il capriccio del sovrano si sostituisce invece al giudizio fondato e trasparente, c’è solo l’arbitrio del padrone.
Peccato. Per un movimento che (pure in realtà ben lontano dalle palle mediatiche dei sondaggi a due cifre) poteva rappresentare una ventata di nuovo in termini di partecipazione e approccio alla politica per decine di migliaia di persone, c’è ora il rischio che possa fare una fine ingloriosa, auto avvitandosi nell’arroccamento proprietario e dittatoriale del comico genovese e del suo socio Casaleggio.
Le critiche che lo indicano come un epigono del Duce peccano di senso delle proporzioni e di carenza di letture di libri di storia: la grandezza storica di una tragedia infame non pare equiparabile alle isterìe di un comico e i suoi critici non sembrano indossare i panni dei partigiani. Semmai proprio lui, il Grillo furioso, che spiegava ai suoi quanto fosse l’unico in gradi di fare Tv perché l’unico a conoscere “il mostro”, dovrebbe sapere, da uomo di spettacolo, quando il tormentone insopportabile del “One man Show” rischia solo di accellerare la calata del sipario. Senza applausi o richieste di bis.
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di Fabrizio Casari
Monti candidato? Berlusconi che si candida e si scandida nel giro di poche ore? Il grande centro che a giorni alterni c’è o scompare? Come una maionese impazzita, la politica italiana stenta a trovare un punto di partenza e uno d’arrivo per confezionare proposte e programmi in vista del voto. Non che ci sia molto di nuovo da dire, dal momento che i fatti sembrano lasciare meno margine che in passato alle parole, però almeno il tentativo di dire cose si vuole, con chi ci si schiera e per ottenere cosa, andrebbe fatto.
Proviamo a dare uno scorcio veloce al panorama, partendo da Monti, oggettivamente ago della bilancia nella formazione degli schieramenti di centro-destra. Le sue dimissioni annunciate mettono tutti in una situazione di difficoltà, giacché le diverse opzioni - a destra come anche a sinistra - si erano costituite su uno scenario che prevedeva il premier scivolare verso il ritorno alla Bocconi o, al limite, per qualche incarico futuro. In questa seconda ipotesi le varianti erano sostanzialmente due: Quirinale o Ministro dell’Economia nel prossimo governo. La seconda sembra una diminutio vista la superbia del personaggio, mentre la prima appare decisamente troppo.
Il Colle è ancora la sede più alta della nostra sovranità nazionale, non adatto quindi a chi ha dimostrato di essere socio di troppe sigle e tutte estere per definirlo uomo di garanzia costituzionale. Inoltre l’avversione per la politica e i suoi strumenti - sindacati, partiti e parlamento - davvero non consente d’immaginare l’ex-advisor di Goldman Sachs a garante della nostra indipendenza nazionale e della regolarità del processo democratico, missione principale del Presidente della Repubblica. A parte ciò, Giuliano Amato – ma soprattutto Romano Prodi per restare nell’angusto ma indicativo terreno degli ex-premier - rivendicherebbero con buone ragioni una loro candidatura al Quirinale, avendo in particolare Prodi dei titoli di merito indiscutibili, quali aver risanato i conti del Paese e consentito di entrare nell’euro senza la benché minima macelleria sociale così invece abbondantemente presente nelle politiche dei professori che hanno portato il paese in recessione ed aumentato il debito pubblico.
A chiedere al premier di entrare in campo con una sua lista ci sono Confindustria, Vaticano e comunità degli affari a trazione tedesca in Europa, che vedono al momento sia l’affermazione di Bersani che il ritorno del cavaliere come pericoli, pur essendo per Berlusconi l’allarme maggiore. A costoro si aggiungono Casini, Montezemolo, Fini e i titoli di coda del filmino tipo Lanzillotta e Rutelli. Si potrebbe candidare Monti? Certo che sì, basta solo che si dimetta da senatore a vita.
Ma non è una scelta facile quella che dovrà prendere il professore: un conto è godere di nomina presidenziale e di maggioranza bulgara per governare, un altro è presentarsi ai milioni di italiani che andranno alle urne e saggiare ciò che pensano del suo operato. Difficile che il suo sovrano disprezzo per chiunque non sieda nel board di una banca possa piegarlo alle ragioni dell’inevitabile arena politica e, stando ai sondaggi che girano (danno la sua lista al massimo tra il sei e l’otto per cento), non sarebbe certo un successone. A passare da uomo della provvidenza a uomo del sei per cento ci si mette un attimo.
Nel frattempo, però, la sola minaccia che si presenti con una sua lista mette in angoscia per motivi diversi sia Bersani che Berlusconi. Bersani si troverebbe a dover competere per la vittoria con chi continua a dire tre volte al giorno aver fatto un ottimo lavoro. E allora, se Monti ha fatto un ottimo lavoro e potrebbe continuarlo, perché si dovrebbe cambiare con Bersani?
Ovvio quindi che il segretario del PD proverà ad insistere perché Monti non si presenti con una sua lista, offrendogli magari in cambio l’ascesa al Colle. Monti potrebbe rifiutare o accettare, si tratterà di vedere quale peso avrà la volontà degli oligarchi europei di continuare a tenere l’Italia a loro disposizione. E, persino, potrebbe scegliere una strada oggi ed essere pronto a rimangiarsi tutto quando lo reputasse conveniente. Bersani, che lo conosce, sa cosa rischia. C’è da dire però che se Monti formerà la sua lista, Casini ne sarà tra i promotori; almeno in questo l’alternativa tra lui e Vendola nella coalizione di centrosinistra potrebbe trovare soluzione.
Alla sinistra dell’asse PD-SEL c’è poco: la pur interessante proposta degli arancioni, guidata da De Magistris, Di Pietro e Ferrero (con Ingroia sullo sfondo), è suggestiva ma poco convincente, sia perché un partito che vede tre ex-pm alla guida non appare immediatamente scevro da una lettura particolare della scena politica, sia perché il grande assente - la FIOM - continua a rimanere defilata sullo sfondo. Ad ogni modo non è un mese prima del voto che si costruiscono aggregazioni politiche: in questo modo si fanno cartelli elettorali, che sono cose diverse e, spesso, destinate a raccogliere poca gloria, come la precedente esperienza Arcobaleno ha testimoniato. In queste condizioni la soglia di sbarramento è un ostacolo difficile da superare. L’unica possibilità sarebbe quella di accordarsi per un appoggio alla coalizione del centrosinistra, ma purtroppo non sembra, al momento, uno scenario praticabile per gli uni e per gli altri.
L’incognita Monti ha però soprattutto nel centrodestra la possibilità di rovesciare il tavolo. Berlusconi ha di che preoccuparsi per una eventuale lista del Premier. Sceso nell’agone per poter fronteggiare i processi che ancora lo attendono e per poter immettere benzina fresca nei serbatoi a secco delle sue aziende, il cavaliere di Arcore pensava di lanciare la sua sfida solo a Bersani, riproponendo la storiella della “lotta al comunismo” per vedere se è come la musica melodica, che va sempre bene.
La scesa in campo di Monti lo obbligherebbe a cambiare i piani, giacché la divisione ulteriore del bacino elettorale della destra non farebbe che avvantaggiare ulteriormente il PD e SEL, che potrebbero agevolmente fare a meno di Casini. Sempre che l'alleanza regga: se Bersani continua a riproporre l'agenda Monti, c'é il rischio che la pagina di sinistra si strappi.
I sondaggi ultimi assegnano a Berlusconi tra l’8 e il 15 per cento, in dipendenza dall’alleanza con la Lega e gli ex-AN oppure no. Del resto la diaspora quotidiana dei suoi che ogni mattina propongono un nuovo raggruppamento, certo non aumenta compattezza e coesione e non sarà certo un’operazione di maquillage sul nome che invertirà l’andazzo. Con la Lega che conferma il suo no all’accordo elettorale con Berlusconi candidato, può scordarsi di vincere anche solo in una circoscrizione al Nord e l’alleanza con l’eventuale “Centrodestra italiano” di La Russa e Gasparri avrebbe un’influenza elettorale minima, coerente con lo spessore intellettuale dei due ispiratori.
Ove quindi Monti si presentasse, Berlusconi troverebbe lo spazio politico al centro e il sostegno dei poteri forti del paese schierato con il professore e non avrebbe perciò un bacino elettorale da occupare. D’altra parte, Vaticano, Confindustria, Tv e giornali che oggi appoggiano Monti, sono esattamente gli stessi che gridano contro la ricandidatura di Berlusconi (dopo averlo però sostenuto, alcuni di loro, per vent’anni).
Il cavaliere di Arcore, che non combatte mai battaglie che teme di perdere, pur se in grado di dare il meglio di sé nelle campagne elettorali, che si caratterizzano per le promesse irrealizzabili, troverebbe ostacoli seri e, vista l'impossibilità di vincere, potrebbe decidere di ritirarsi. Lo farebbe raccontando che affronta il sacrificio per impedire che i moderati divisi offrano il governo a Bersani, ma in realtà affiderebbe a Monti il ruolo di garante dei suoi interessi in cambio del ritiro dalla competizione e dell’appoggio mediatico ed elettorale che gli fornirebbe.
Insomma un quadro ancora confuso e suscettibile di cambiamenti repentini. L’aspetto più interessante è che dovendo andare a votare con il Porcellum, chi prende abbastanza avrà tutto. Voleranno scimitarre e si riempiranno i calici di veleni per uno di quei mille scranni circa. Meglio però andare in strada a offrire lezioni di memoria a chi non ce l’ha allenata piuttosto che rimanere sul divano a godersi lo spettacolo.
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di Carlo Musilli
Con un contropiede che nessun vero tecnico avrebbe mai concepito, il politicissimo Mario Monti salta fuori dalla trappola di Silvio Berlusconi. Lo fa annunciando che lui e il suo governo rimetteranno il mandato dopo l'approvazione della legge di stabilità, in arrivo prima di Natale. Il Capo dello Stato a quel punto scioglierà le camere e all'attuale Esecutivo non rimarrà che sbrigare l'ordinaria amministrazione fino alle elezioni. Il voto sarà quindi anticipato ulteriormente: secondo il numero uno di Montecitorio, Gianfranco Fini, sarà possibile già il 10 febbraio. Questo significa che la campagna elettorale si ridurrà all'osso, ai limiti dei termini di legge.
A prima vista si direbbe che votare un mese prima del previsto sia una novità di scarsa importanza. Ma non è così. In primo luogo perché sul piano politico lo scioglimento pressoché immediato delle camere spunta un'arma importante in mano a Berlusconi. Per risalire nei sondaggi (al momento catastrofici) e recuperare terreno al Senato (dove punta al pareggio), il Cavaliere intendeva proporre quel che resta del Pdl come unico partito d'opposizione passiva al montismo.
Con lo stratagemma ipocrita e un tantino vigliacco dell'astensione in Aula, l'ex premier contava di far dimenticare agli italiani che per un anno proprio i berluscones sono stati i principali azionisti dell'ormai rinnegato governo tecnico. Così facendo, almeno in quest'ultimo scorcio di legislatura, Pd e Udc si sarebbero sobbarcati da soli la responsabilità di portare a termine la beneamata agenda Monti.
Se questo non fosse stato il suo obiettivo politico, Berlusconi avrebbe potuto sfiduciare formalmente il Professore e mandarlo a casa nell'arco di un pomeriggio. Eppure il discorso in cui si è prodotto Angelino Alfano davanti alla Camera era volutamente ambiguo: "Riteniamo conclusa l'esperienza del governo Monti - ha detto venerdì il segretario Pdl -, ma vogliamo concludere ordinatamente questa legislatura", senza strappi e senza "mandare le istituzioni e il Paese allo scatafascio". Un autentico saggio di come sia possibile ottenere un risultato senza assumersene formalmente le responsabilità.
Monti ha incassato queste frasi come fossero un voto di sfiducia e ne ha tratto le conseguenze. Ora dice di sentirsi "più libero", per la gioia di chi sogna una sua candidatura. Rimane in ogni caso più verosimile che alla fine il Professore scelga di non legarsi formalmente ad alcun partito, in attesa di esser richiamato ancora una volta a salvare la situazione.
Su un altro fronte, invece, la vittoria di Berlusconi è stata come al solito disarmante. Parliamo naturalmente del fronte giudiziario. Ormai è dimostrata la legge secondo cui, per spiegare le mosse improvvise del Cavaliere, è sempre utile dare un'occhiata a quello che sta accadendo nella Procura di Milano. I processi berlusconiani in scadenza sono due: Ruby e Unipol. Il secondo, meno celebre, fa riferimento all'intercettazione tra Fassino e Consorte ("Abbiamo una banca?") pubblicata da Il Giornale in violazione del segreto d'ufficio.
Entrambi questi procedimenti dovrebbero arrivare a sentenza tra gennaio e febbraio. Con le elezioni anticipate, il Cavaliere conta di far slittare i pronunciamenti (soprattutto quello sull'accusa di prostituzione minorile) fino all'indomani del voto. In quest'ottica si spiega anche l'ennesima umiliazione inflitta al delfino incompiuto, Angelino Alfino, che si è visto negare ancora una volta la poltrona del leader: in qualità di candidato premier, nella babele di riunioni e comizi del partito, Berlusconi potrebbe ricominciare ad avvalersi del tanto sospirato "legittimo impedimento".
Ma non è finita qui. In linea teorica, le camere potrebbero convertire in legge i decreti anche dopo esser state sciolte. Nella situazione attuale, tuttavia, è assai probabile che la stragrande maggioranza dei testi in attesa d'approvazione finiscano nel dimenticatoio. Compreso quello sull'incandidabilità dei condannati, che anche nella forma "light" partorita dai professori (si salverebbe perfino Marcello Dell'Utri) continua ad esser mal digerito dagli stomaci pidiellini. Basti pensare che il processo Mediaset cadrà in prescrizione solo nel 2014. Il Cavaliere, già condannato a quattro anni in primo grado, rischia di non riuscire a uccidere anche questo procedimento. E se alla fine arrivasse una condanna definitiva, l'incandidabilità scatterebbe anche per lui. Con tanti saluti alle prossime discese in campo.
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di Carlo Musilli
Il Cavaliere con le spalle al muro finge il colpo di mano, ma non va fino in fondo. Mentre il Pdl entra in decomposizione insieme alle primarie, Berlusconi rilancia la sua candidatura (la sesta a Palazzo Chigi), dà uno strattone alle redini e ordina ai suoi di astenersi da ben due voti di fiducia, prima al Senato e poi alla Camera. In entrambi i casi però i pidiellini stanno ben attenti a garantire comunque il numero legale. Con un atteggiamento vagamente schizofrenico, si scagliano lancia in resta contro l'Esecutivo e allo stesso tempo evitano di farlo cadere.
In serata si viene a sapere che venerdì mattina Angelino Alfano salirà al Quirinale. “Per coerenza istituzionale informeremo il Capo dello Stato su quanto intendiamo fare”, spiega il segretario, chiarendo però che non intende annunciare una crisi di governo: “Non precipiteremo il Paese nell'esercizio provvisorio, non metteremo a repentaglio la Legge di stabilità”.
Insomma, la crisi rimane nell'aria, ma non arriva. Perché mai allora tanto teatro? In primo luogo Silvio Berlusconi sta cercando di far dimenticare agli italiani che nell'ultimo anno il Pdl è stato il partito più rappresentato in Parlamento.
Il fedelissimo capogruppo alla Camera, Fabrizio Cicchitto, sbotta in Aula contro la politica economica dei professori, snocciola i più drammatici fra i dati Istat e Eurostat, prova a farci credere che le attuali condizioni dell'Italia abbiano qualcosa a che vedere con l'estemporanea isteria dei berluscones. Ma dov'erano tutti loro mentre i tecnici - per dirla con il Cavaliere - gettavano “nel baratro” il nostro Paese? Sono sempre rimasti lì, seduti sui loro scranni, ad approvare le stesse leggi contro cui oggi si accaniscono. Si dissociano, ma non ne hanno diritto.
Il partito è allo sfascio e ormai da tempo si dice che Berlusconi voglia abbandonarlo al suo destino per creare una sorta di Forza Italia 2.0 all'insegna del finto rinnovamento. Il programma politico come sempre non esiste e dai sondaggi arrivano i risultati peggiori di sempre.
Il Cavaliere quindi non ha altra scelta se non quella di puntare sull'antimontismo, sull'antieuropeismo, sull'antigermanismo. Un'ipocrisia insostenibile per chiunque abbia un minimo di memoria storica e oltre ad ascoltare le parole di oggi ricordi anche le azioni di ieri. Ma un intero sistema di potere è alla deriva e ai naufraghi non rimane che appigliarsi alla demagogia più superficiale.
Il blitz parlamentare di ieri ha consentito però ai pidiellini di centrare almeno un obiettivo. Il Consiglio dei ministri ha varato il decreto per l'incandidabilità dei condannati, ma ha limitato l'esclusione a coloro che hanno ricevuto condanne superiori a due anni. In ogni caso il testo si accoda alla fila di decreti in attesa di approvazione ed è probabile che, scaduti i sessanta giorni canonici, cada nel dimenticatoio.
Un altro nodo fondamentale resta poi quello delle elezioni. Quando si terranno? Il sospetto è che Berlusconi punti sulle urne a febbraio con uno scopo preciso: evitare che il Tribunale di Milano abbia il tempo di arrivare a sentenza sul processo Ruby prima del voto. Tornare in campo oggi è difficilissimo, ma farlo dopo un'eventuale condanna per prostituzione minorile lo sarebbe ancora di più.
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di Maura Cossutta
La dichiarazione di Monti circa la sostenibilità del servizio sanitario nazionale non è stata certo una scivolata e anche la sua successiva precisazione tutto è stato fuor che una smentita. “Si dovrà pensare a nuove forme di finanziamento e di organizzazione”: le parole sono state molto chiare e precise e, va detto, per niente condivisibili.
E sono le stesse che il governo aveva scritto quest’estate nel documento ufficiale di presentazione della cosiddetta “spending review”: “Conseguire i risparmi anche attaccando i confini dell’intervento pubblico”, decidendo “se un’attività può essere mantenuta all’interno del settore pubblico, se deve essere rimandata per intero verso il settore privato dell’economia oppure se il coinvolgimento pubblico nel suo sostegno deve essere ridotto”.
Altro che scivolata, è un intervento a gamba tesa che ha lasciato spiazzato lo stesso ministro Balduzzi, che si affanna a precisare, a negare quello che ormai a tutti è palese: l’attacco è al sistema universalistico, “una conquista che non ci possiamo più permettere”. E’ questo il refrain del momento, supportato da argomentazioni apparentemente molto “tecniche”, ma in realtà molto ideologiche.
Allora, proviamo a mettere le cose in ordine. Non sostenibile? Davvero la sanità italiana non è finanziariamente sostenibile? Cominciamo con il dire che la spesa sanitaria italiana (pubblica e privata) è al 9,3% del PIL (di cui il 7,3% di spesa pubblica). La media Ocse è al 9,5%, con punte del 12% (Olanda) e con Francia e Germania che arrivano all’11% del PIL mentre la Gran Bretagna si ferma al 9,6%.
Dunque l’Italia è il paese tra i più avanzati in Europa che spende meno, esattamente - secondo il rapporto CEIS 2012 - per ogni italiano un quarto in meno di quanto spendono Germania, Francia e gli altri tre Paesi dell’Europa a 6 (Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi).
Inoltre - come evidenziano le relazioni della Corte dei Conti - il finanziamento pubblico alla sanità è stato via via pesantemente ridotto, la spesa da almeno sette anni è al di sotto delle previsioni, mentre il disavanzo da sei anni continua a scendere. Addirittura nel 2011 la spesa sanitaria è stata di 112 miliardi, cioè 2,9 miliardi in meno rispetto al dato previsto e riconfermato nel quadro di preconsuntivo contenuto nella Relazione al Parlamento. Per la prima volta, rispetto all’anno precedente, la spesa sanitaria ha ulteriormente ridotto sua incidenza sul Pil: dal 7,3 % al 7,1%.
E poi sono arrivati i tagli della spending review e della manovra finanziaria, 26 miliardi dal 2010 al 2015. Non è certo retorica dire che ormai per la sanità pubblica è vero “allarme rosso”, mentre aumentano le disuguaglianze nello stato di salute della popolazione, con un divario crescente tra nord e sud del paese, con sole otto regioni che riescono a garantire i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Di cosa parliamo quindi? La spesa sanitaria pubblica non è sostenibile? Rispetto a cosa?
Giova per altro ricordare - visto che il Premier ricorda ogni giorno che sono solo i saldi finali ad avere importanza contabile - che la spesa sanitaria pubblica pesa sì per il 7,3% del PIL, ma restituisce valore per quasi il 13%. E, come afferma il rapporto CEIS 2012, “potenzialità straordinarie di sviluppo economico per il Paese si potrebbero realizzare invertendo l’approccio tradizionale che ha considerato fino ad oggi la sanità solo come spesa e mai come risorsa.
Il comparto sanitario dà al Paese più di quanto costa in termini di PIL; una politica di investimenti nel settore potrebbe accrescere ulteriormente il valore aggiunto in termini di ricchezza prodotta dalla filiera salute e dal suo indotto”. Insomma una fonte di ricchezza oltre che l’affermazione di un diritto, altro che una spesa insostenibile.
E poi Monti lancia il sasso ma ritira la mano: parla di “nuove” forme di finanziamento, ma a quali precisamente si riferisce? Parla di un aumento della compartecipazione a carico dei cittadini? Parla dei Fondi integrativi? Ma queste non sono forme “nuove” di finanziamento. Infatti il sistema dei tickets è già da tempo un’aberrante forma di finanziamento del sistema, che non ha certo disincentivato la domanda inappropriata, ma ha colpito invece proprio le fasce fragili e chi ha più bisogno di assistenza. Si intende insistere su questa iniquità?
Fondi integrativi? Anche questi fanno già parte del sistema, perché sono appunto “integrativi” e non sostitutivi della copertura pubblica (e magari si affrontasse con rigore il tema della loro riorganizzazione, vincolandoli per esempio alla copertura di quello che ancora il nostro sistema non garantisce, come la non autosufficienza). E allora?
Monti dica chiaramente se i risparmi che intende ottenere con i tagli alla sanità pubblica servono per essere reinvestiti per l’adeguamento del sistema (assolutamente necessario e urgente, per esempio nell’ambito della prevenzione o dell’assistenza territoriale) o se invece andranno a coprire il debito. Dica soprattutto senza infingimenti se la sua è la linea (non certo nuova, anzi ben tristemente nota da molti anni di stagione liberista) del cosiddetto “secondo pilastro” del sistema pubblico, rappresentato dal mercato assicurativo.
Per tenerlo in equilibrio, bisogna far uscire dal sistema i contribuenti più ricchi? E come verrà finanziata allora la sanità pubblica? L’esperienza degli Stati Uniti insegna che lo sbocco non potrà che essere da una parte una sanità pubblica sempre meno finanziata e quindi più dequalificata e dall’altra sistemi assicurativi sempre più inefficienti e iniqui.
Chi li obbligherà a garantire la copertura per i malati cronici, quelli più complessi, più “costosi”? E quale sistema assicurativo potrà garantire con la stessa spesa pro capite del nostro sistema sanitario nazionale (che è di 1.981 euro l’anno) le 4.500 prestazioni comprese nei LEA? Se il nostro sistema è insostenibile, allora vuol dire che nessun sistema sanitario è sostenibile, tanto più aprendo ai mercati assicurativi.
La discussione è serissima, perché è ormai apertamente in discussione l’universalità del modello pubblico italiano, un sistema che ancora l’Organizzazione Mondiale della Sanità colloca ai primi posti al mondo, anche se - avverte il Censis - “la qualità della sanità sta subendo un peggioramento diffuso, tagliare ancora le risorse per l’assistenza sanitaria vuol dire privare milioni di cittadini di servizi essenziali per la loro salute”.
Una conquista che non ci possiamo più permettere? Un universalismo insostenibile? Sempre di più la parola ora non spetta ai cosiddetti “tecnici” - che in realtà sono solo i portavoce di posizioni squisitamente politiche - ma ai cittadini.