di Fabrizio Casari

Si può approvare o disapprovare il metodo utilizzato da Marco Pannella per richiamare l’attenzione sull’urgenza di una amnistia che svuoti almeno in parte le carceri italiane. La forma estrema dello sciopero della fame e della sete non può essere giudicata da chi mai vi si presterebbe. Il rapporto con il proprio corpo, con la propria vita e il grado di compenetrazione profonda con le proprie idee e i propri convincimenti non è sottoponibile a giudizi terzi.

Si può solo discutere se l’allarme lanciato dal leader radicale sia giusto o fuori luogo e se la soluzione che propone sia idonea o sbagliata. Ma quello su cui è difficile obiettare, è la fondatezza delle ragioni che l’anziano guerriero dei diritti civili sbatte con forza sul tavolo di un’agenda politica che ignora come sempre il dato drammatico dello stato delle nostre carceri.

Sono spaventosi i numeri che raccontano la vergogna del regime carcerario italiano. Pur essendo il nostro paese in una posizione intermedia per quanto riguarda il rapporto tra popolazione generale e detenuta, le condizioni nelle quali la pena viene scontata sono barbare. In 47.500 posti disponibili sono stipati 63.300 detenuti, accatastati in celle anguste e prive dello spazio vitale. Non spaventassero abbastanza queste cifre, si può aggiungere che sono già 60 nel 2012 i suicidi e otto detenuti su cento sono autori di atti di autolesionismo fisico. Negli ultimi cinque anni, i suicidi sono stati 306.

In un paese dove ci sono 9 milioni di giudizi pendenti tra penale e civile e che vede 170.000 prescrizioni all’anno, il governo dei tagli ha stabilito, per il 2013, un taglio di 22 milioni di euro di spese per il vitto e di 19 milioni di euro di spese per l’assistenza e la rieducazione dei detenuti. Quanto alle politiche carcerarie destinate a favorire sin dalla detenzione il reinserimento dei detenuti, come previsto dal nostro ordinamento, nel 2013 verranno tagliati 2,3 milioni di euro destinati alle “mercedi”, cioè i miseri salari che i detenuti percepiscono per i lavori svolti in carcere.

L’amnistia che propone Pannella, pur essendo il minimo risarcimento dovuto da parte di un Parlamento cieco e sordo, difficilmente vedrà la luce. Storicamente, Parlamento e Senato sono ammantati  d’ipocrisia sulla materia, basti ricordare l’applauso che accolse Giovanni Paolo II quando pose con forza il problema all’attenzione dell’aula e lo scrollar di spalle che ne seguì quando il Pontefice fece ritorno in Vaticano. A maggior ragione, con la campagna elettorale alle porte, nessun partito vorrà prestare attenzione al tema. D’altra parte, loro si cautelano con l’estensione oltre ogni decenza del principio d’immunità, perché mai dovrebbero preoccuparsi di chi non ne usufruisce?

Ma indipendentemente dalle scarse possibilità che un provvedimento di amnistia veda la luce, non è forse la strada giusta e risolutrice quella che vede nei provvedimenti di clemenza la soluzione anche parziale e momentanea del problema.

Servirebbe agire su due altri fronti per trasformare una soluzione temporanea in una definitiva. In primo luogo dando via alla legge che istituisce le pene alternative al carcere, dal momento che il 20% dei detenuti è ancora in attesa del primo grado di giudizio e si arriva al 40% con chi si trova in carcere pur non essendo ancora stato condannato in via definitiva. In secondo luogo, si deve agire sul fronte politico, giacché solo la depenalizzazione di alcuni reati risolverà definitivamente il problema del sovraffollamento carcerario e dell’ingorgo atavico dei procedimenti giudiziari.

In Italia, purtroppo, diversamente dal resto del consorzio civile europeo, disponiamo di Fini, Bossi e Giovanardi. Questo inverecondo terzetto, causa autopromozione politica,  si è reso protagonista di due leggi, sull’immigrazione e sugli stupefacenti, che hanno trasformato il diritto penale in un abuso continuato e la giustizia italiana nel carnevale.

L’Italia è l’unico paese europeo che imputa ai migranti il reato di immigrazione clandestina. Non facendo nessuna differenza tra lo scafista mercante di uomini e il migrante che attraversa disperato il mare, mette sullo stesso piano vittima e carnefice. Stesso discorso per quanto riguarda le norme in vigore sull’uso degli stupefacenti. Qui la follia è doppia: da un lato, indifferenti ai principi scientifici e ai protocolli sanitari vengono equiparate droghe leggere e pesanti: inoltre si equipara il possesso allo spaccio laddove la quantità è superiore ad un paio di spinelli. Si stabilisce arbitrariamente la dose prevista per “uso personale” e si prevedono pene pazzesche (da 6 a 26 anni) per chi detiene più di quattro grammi.

Ci si trova di fronte ad un mostro giuridico che offende il diritto e prima ancora il senso comune e che stride fortemente con il costume consolidato del paese. In barba a qualunque considerazione scientifica e sanitaria, indifferente a qualunque valutazione di opportunità, senso delle proporzioni e ragionevolezza, l’art.73 esprime una visione talebana ispirata dalla sottocultura della destra, che vede la libertà degli affari come orizzonte e la libertà degli individui come una minaccia. Non a caso lo stesso terzetto votò entusiasta l’abolizione del reato di falso in bilancio: chiaro quindi cosa li preoccupa e cosa li rasserena.

Ma anche sul piano del funzionamento della giustizia l’impatto delle norme talebane è pesantissimo. Perché rappresenta un costo enorme per la comunità; distrae dalla lotta al crimine l’attività della polizia giudiziaria, intasa il lavoro dei pubblici ministeri e dei tribunali e le conseguenze ricadono pesantemente anche sul sistema penitenziario. Quasi il 40% del totale dei detenuti, infatti, è imputato o condannato ai sensi dell'art. 73 del Testo Unico di disciplina degli stupefacenti, inerente l'acquisto, la ricezione e la detenzione di droghe.

Abolire la legge Fini-Bossi sul reato d’immigrazione clandestina e la legge Fini-Giovanardi sugli stupefacenti, riconsegnerebbe la questione carceraria e, con essa, quella più ampia della giustizia, ad una dimensione fisiologica dal punto di vista dei numeri. Ma è ovvio che i tempi di un superamento delle due leggi liberticide sarebbero lunghi, anche ove ci fosse la volontà politica. Nel frattempo, dunque, per affrontare l’emergenza, l’amnistia è l’unica soluzione possibile insieme all’approvazione rapida del disegno di legge sulle misure alternative al carcere.

Si dice che la libertà di un paese, così come il grado di civiltà, stia scritto sui muri nelle celle delle sue prigioni. Se questo è vero non c’è certo da rallegrarsi per lo stato di salute della nostra democrazia. I luoghi del disagio sociale e della marginalità risentono più di qualunque altra situazione dell’indifferenza di un sistema malato, autocentrato sull’ombelico dei potenti. Per questo va comunque ringraziato Pannella quando a nome di tutti noi, anche di chi non lo sa, accende i riflettori sull’ingiustizia disumana della giustizia. Occuparsi degli ultimi è un ottimo metodo per guardare cosa fanno i primi.

 

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