di Giovanni Gnazzi

Tra domande legittime e reazioni rabbiose, tra dubbi sulle procedure e rifiuti di rispondere, tra sospetti di manipolazione di liste e allungamento di mani sul denaro che verrà, le parlamentarie grilline sono state una vera debacle per il M5S. Dovevano essere la risposta democratica alle primarie del PD, una sorta di messa in rete di un diverso modo di scegliere candidati e liste ma in realtà si sono rivelate soprattutto un disastro d’immagine.

Le proteste, che hanno assunto dimensioni numeriche non indifferenti, lungi dal produrre una discussione in rete sulle procedure e come garantire la trasparenza delle operazioni di acquisizione, selezione e raccolta voti dei candidati, hanno scatenato le ormai quotidiane ire di Grillo che trova in ogni domanda ed ogni richiesta l’occasione per dire a qualcuno di andarsene.

Molti lo hanno già fatto e molti altri lo faranno, scambiare la rete per i vialoni di Pyongyang non era l’ambizione di partenza. Proprio oggi ha espulso Favia e Salsi, proseguendo così le epurazioni, ormai numericamente più significative delle nuove adesioni.

E quasi a voler certificare l’ormai cresciuta distanza tra il comico isterico e i suoi adepti, c’è da segnalare come sia proprio nei numeri che le parlamentarie hanno fatto flop. Secondo calcoli fatti in rete dagli stessi esponenti del Movimento 5 stelle, trentadue mila sarebbero i voti espressi: se così fosse si tratterebbe di un numero decisamente basso, un sostanziale 15% degli iscritti al M5S, giacché lo stesso Grillo aveva dichiarato, lo scorso giugno, essere duecentomila.

La difficoltà per l’accessibilità alla candidatura di alcuni non proprio nelle corde del comico e la farraginosità delle credenziali che si sarebbero dovute esporre per risultare candidabili ha di gran lunga superato sia la cripticità delle regole in casa PD sia anche il senso del ridicolo genericamente inteso.

A chi ha fatto notare come il suffragio universale dovrebbe valere anche in Rete e come l’esiguità del numero dei voti non consentirebbe di giudicare l’operazione riuscita, e chiede perché mai non ci sono dati ufficiali e perché nessun ente terzo ha certificato i numeri, Grillo risponde sul suo blog che “chi all’interno del movimento fa domande su domande e si pone problemi della democrazia del movimento va fuori dalle palle!”. Sobrio e convincente.

L’impressione è che il movimento 5 stelle stia perdendo molto di quel fascino di rottura democratica dei riti anacronistici della politica che aveva rappresentato. Proprio la partecipazione collettiva dove ogni testa valeva un voto e dove ognuno poteva riconoscersi nel rappresentarsi dal basso, senza padroni e senza guinzagli, pare ormai essere diventata un’immagine non più rispondente alla realtà.

Se in qualche modo era inevitabile lo sgretolamento di certezze fideistiche sull’uomo della provvidenza che tutto ha capito e che tutto cambierà, c’era però lo spazio per rappresentare l’Italia dei diritti civili e della buona amministrazione, una sorta di laboratorio permanente di organizzazione dal basso che punta verso l’alto, sovvertendo bruscamente lo schema della politica verticistica dei partiti.

Invece quello che viene fuori dall’atteggiamento di Grillo è un impasto di cesarismo, di cultura proprietaria, di volgarità e di livore che sembrano indicare più la paura di perdere il bottino all’orizzonte che non quella di garantire democrazia e trasparenza per cambiare il paese. Se degli altri non tolleri le opinioni, è fuori luogo chiedergli l’adesione.

Perché puoi essere in Rete o a terra, in cielo o per mare, ma la garanzia del diritto di parola e di dissenso, le procedure e le regole per la gestione della vita interna di una organizzazione e persino la collegialità degli organi di autodisciplina interna sono le stesse e tutte a tutela delle potenziali vittime di abusi di potere. Dove il capriccio del sovrano si sostituisce invece al giudizio fondato e trasparente, c’è solo l’arbitrio del padrone.

Peccato. Per un movimento che (pure in realtà ben lontano dalle palle mediatiche dei sondaggi a due cifre) poteva rappresentare una ventata di nuovo in termini di partecipazione e approccio alla politica per decine di migliaia di persone, c’è ora il rischio che possa fare una fine ingloriosa, auto avvitandosi nell’arroccamento proprietario e dittatoriale del comico genovese e del suo socio Casaleggio.

Le critiche che lo indicano come un epigono del Duce peccano di senso delle proporzioni e di carenza di letture di libri di storia: la grandezza storica di una tragedia infame non pare equiparabile alle isterìe di un comico e i suoi critici non sembrano indossare i panni dei partigiani. Semmai proprio lui, il Grillo furioso, che spiegava ai suoi quanto fosse l’unico in gradi di fare Tv perché l’unico a conoscere “il mostro”, dovrebbe sapere, da uomo di spettacolo, quando il tormentone insopportabile del “One man Show” rischia solo di accellerare la calata del sipario. Senza applausi o richieste di bis.


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