di Agnese Licata

Mancano pochissimi giorni ormai, ma solo adesso sui media nazionali si comincia a fare qualche riflessione su un appuntamento regionale, sì, che però rischia di anticipare molto di quanto accadrà quando saranno tutti gli italiani - non sono i siciliani - a dover andare alle urne. E allora parliamone di queste elezioni in Sicilia. A guardar bene, se ne parla da quando il Popolo delle libertà ha fatto capire che con questo responso elettorale spera di uscire dall’empasse che da mesi immobilizza il partito.

Da un lato, ovviamente ci sono i pro-Alfano che appoggiano Nello Musumeci, decisi a rottamare Berlusconi e ad andare avanti con l’esperienza del Pdl, mentre dall’altra c’è chi (come Daniela Santanchè e Michaela Biancofiore, giusto per fare due nomi) allo sfasciacarrozze vorrebbe spedire tutto il partito, nell’illusione che dopo anni di promesse non mantenute, malgoverno e sottane, basti tirar fuori dal baule della nonna il nome di Forza Italia per ritrovare la verginità politica.

Ma dietro il difficile compito che aspetta gli elettori siciliani, c’è più di questo. Non c’è solo il solito scontro tra centrodestra e centrosinistra, replica di quanto accade a livello nazionale e in tutte le altre Regioni. È uno scontro diverso, contorto, meno comprensibile. In una parola: barocco. Per semplificare, basta dire che nel 2010, di fronte a una maggioranza incapace pure di votare la finanziaria regionale, il Pdl si sfila e molla Lombardo (dopo mesi e mesi di contrasti con la direzione nazionale del Popolo delle libertà).

Invece di andare a elezioni anticipate, per salvare un po’ tutti la poltrona in Assemblea (nome con cui lo Statuto d’autonomia indica il Consiglio regionale ndr), il Partito democratico pensa bene di passare dall’opposizione alla maggioranza, sostituendosi al Pdl ed entrando in giunta. Come si fa, di fronte a questo, a non tirar fuori la solita frase? Quella che Tomasi di Lampedusa scrisse nel suo Gattopardo? “Tutto deve cambiare affinché nulla cambi”.

Adesso, però, quella scelta rischia di rivoltarsi contro lo stesso Pd siciliano e contro, ovviamente, quegli elettori che nella destra non si sono mai riconosciuti e che si trovano senza una vera alternativa. Il Partito democratico ha tirato fuori dal cilindro Rosario Crocetta, 61 anni, un passato nel Pci, ex sindaco di Gela che non ha avuto paura a combattere la mafia. Lui, un passato che sembra sincero, chiamato a fare il “trapezista”, come ha scritto Gian Antonio Stella martedì scorso sul Corriere della sera. Perché solo se si è capaci di mille acrobazie si può guidare un partito spaccato al suo interno dopo l’appoggio a Lombardo. Insomma, per chi vorrebbe una svolta in Regione, diventa difficile pensare al Pd come il vero partito del rinnovamento, perché per un Crocetta che arriva, ci sono i soliti volti noti del partito che restano, arrivati al potere anni or sono per spartirsi le poltrone e favorire gli amici.

Ci sarebbe poi tutto il capitolo della sinistra-sinistra, tra cui la coalizione che fa capo a Sinistra ecologia e libertà. La coalizione si è però persa per strada Claudio Fava a pochi giorni dall’ufficializzazione delle liste (non candidabile perché non più residente in Sicilia). Insomma, non certo una prova di efficienza. E poi ci sarebbero i forconi e i vari piccoli gruppi alternativi, ma nulla che possa davvero avere qualche chance in una regione democristiana fino all’osso.

Il vero nodo (dopo quello del Pd) si chiama Movimento 5 stelle. Gli occhi di tutti i politici - siciliani e non - saranno puntati oltre lo Stretto il prossimo 28 ottobre. E con grande preoccupazione. Quanto le folle che riempiono le piazze al nome di Grillo, nel segreto della cabina elettorale, sceglieranno Giancarlo Cancellieri e i vari volti nuovi selezionati e spinti dall’ex comico? Questa è la domanda. Perché se i pronostici della vigilia dovessero avverarsi (17-20% dei voti), tutti, anche a Roma, comincerebbero a tremare in vista del 2013.

Con i politici di professione che sembrano fare a gara per far diventare il vento dell’anti-politica un vero e proprio ciclone, per molti i grillini rappresentano la panacea di tutti i mali della politica: corruzione, malaffare, vicinanza con la mafia, malgoverno e chi più ne ha più ne metta. Ma a leggere i curricula dei vari candidati del Movimento (www.sicilia5stelle.it/i-candidati/), i dubbi che queste siano le persone giuste e capaci di cambiare qualcosa, diventano tanti.

Ragazzi, per lo più. Il che, di per sé, è una bella novità. Tutti bravi su Internet, certo, ma con competenze specifiche abbastanza ridotte. Alcuni sono disoccupati senza alcuna esperienza di lavoro (di nessun tipo); pochissimi i laureati; l’impegno civile pre-Grillo è, per molti, ridotto all’osso. Alcuni, invece, hanno studiato a fondo la questione rifiuti, oppure hanno gestito qualche piccola attività commerciale, o lavorano nella ditta di famiglia.

Casi rari, purtroppo. Ci mettono la faccia e il coraggio in queste elezioni, gli va riconosciuto, ma sempre con la sicura punta d’avanzamento che si chiama Beppe Grillo. Difficile capire così quanto avranno da dire e proporre in un’Assemblea fatta di vecchi volponi, che conoscono ogni ombra della legge, che della vuota retorica hanno fatto il loro mestiere e che di fronte a persone così inesperte si sfregano già le mani. I problemi incancreniti della Sicilia sono tantissimi e affrontarli “senza se e senza ma” è un’impresa.

Giusto per darne l’idea: la disoccupazione giovanile (cioè under35), secondo i dati di Confartigianato è al 28%. Le donne che lavorano sono solo il 22,1%. I poveri relativi (rilevazione Istat) sono il 27,3%. Le imprese agricole chiuse nell’ultimo anno sono 6mila. Il deficit della Regione Sicilia arriva quasi ai 6 miliardi di euro. Rimane solo da aspettare per capire cosa farà il confuso elettore siciliano. Quello che fanno gli attori politici, purtroppo, è noto da tempo.

di Carlo Musilli

Parlare è necessario, ma non sempre. Alle volte si potrebbe anche farne a meno, contemplare il creato e godersi la pace del silenzio. Purtroppo la continenza verbale non è fra le virtù più spiccate di cui possa far vanto il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, che ieri si è prodotta nell'ennesimo siparietto coronato da auto-rettifica. Per l'occasione ha sfoggiato anche un anglismo mica da tutti: "choosy", vale a dire "esigente" o, nell'accezione più sgradevole, "schizzinoso".

A Milano, dal palco dell'Assolombarda, il ministro ha recapitato il seguente dispaccio ai giovani italiani: non dovete "essere troppo choosy nella scelta del posto di lavoro. Lo dico sempre ai miei studenti: è meglio prendere la prima offerta di lavoro che capita e poi, da dentro, guardarsi intorno. Non si può più aspettare il posto di lavoro ideale, bisogna mettersi in gioco".

Il quesito sorge da sé: in quale Paese pensa di fare il ministro la professoressa Fornero? A questo punto è probabile che non si tratti dell'Italia, visto che qui da noi - di solito - le offerte di lavoro non "capitano". Può darsi che nel lontano Paese dei "choosy" (forse "Choosyland" rende meglio?) sia pieno di brillanti laureati con master di secondo livello, Mba e Phd. Singolari creature a cui però ogni giorno vengono proposte occupazioni di scarso prestigio, che loro, schizzinosamente, rifiutano. Per verificare la notizia abbiamo provato a contattare il Brucaliffo e il Cappellaio Matto, ma schizzinosi come sono non hanno risposto.

D'altra parte quaggiù, nel mondo reale, a inizio ottobre la Banca centrale europea ha raccontato una storia leggermente diversa. Stando ai conti di Francoforte, il tasso di disoccupazione in Italia arriva al 12,5% se si includono anche gli "scoraggiati", cioè le persone che hanno smesso di cercare lavoro perché convinte di non poterlo trovare. Il conteggio degli scoraggiati aumenta di 4,1 punti percentuali il tasso di disoccupazione ufficiale italiano calcolato da Eurostat per il 2011, innalzandolo al sesto posto nella zona euro. Ma si tratterà certamente di un 4,1% troppo schizzinoso.

Secondo la più nostrana Istat, invece, nel secondo trimestre 2012 il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) ha superato il 35%, mentre gli under 35 rappresentano oltre la metà dei disoccupati totali. Quasi un milione e mezzo di schizzinosi.

Un vero dramma sociale che, per fortuna, non coinvolge gli altolocati di "Choosyland". Qualcuno però deve aver pensato che Fornero con quell'aggettivo inglese si riferisse davvero all'Italia, perché quando il ministro si è spostato a Nichelino (vicino Torino) per un dibattito sulle pensioni, ha trovato alcuni esponenti dei Cobas e di Rifondazione Comunista a contestarla. Dopo aver appurato l'impossibilità di dialogare, la Professoressa ha lasciato il centro anziani Nicola Grosa. A quel punto la protesta è degenerata nella bagarre.

Dobbiamo quindi constatare ancora una volta lo spread fra il favoloso mondo di Fornero e la situazione reale del Paese. E' certo che un ministro abbia il dovere morale di comunicare con i cittadini, e più volte la titolare del Lavoro si è vantata della sua disponibilità in questo senso. Ma quando un esponente del governo parla in pubblico deve avere ben chiara la situazione: non sta prendendo il tè insieme ad altre eleganti e compite signore della Torino bene, né può immaginare di rivolgersi esclusivamente alla platea che ha fisicamente davanti agli occhi. Ogni volta che apre bocca deve sapere che il Paese intero sta ascoltando. Frasi e concetti che forse potrebbero andar bene per "i suoi studenti" rischiano di offendere altri milioni di persone. E la rabbia a quel punto è una reazione prevedibile.

Fornero però a questo non sembra rassegnarsi. Il suo universo di riferimento rimane inesorabilmente quello da cui proviene: il senato accademico fatto di magnifici tailleur e impeccabili gessati. E' un limite di cui bisogna tener conto, anche perché a volerlo ignorare rimarrebbe solo l'antipatia di chi ai suoi cittadini dice "vedete d'accontentarvi", mentre lei e i suoi pari sguazzano nell'accumulo d'incarichi e di stipendi.

Il ministro probabilmente non avrebbe voluto risultare così arrogante, ma il messaggio è passato. "Le parole sono importanti!", come strillava Nanni Moretti in "Palombella Rossa". Alla fine Fornero se n'è resa conto e ha provato a correggere il tiro quando ormai era troppo tardi: "Non ho mai detto che i giovani italiani sono schizzinosi. I giovani italiani sono disposti a qualunque lavoro. Poteva capitare in passato, quando il mercato del lavoro consentiva cose diverse, ma oggi i giovani italiani non sono nella condizione di essere schizzinosi, tant'è vero che oggi sono precari". Chissà cosa pensano dei giovani precari italiani, laggiù a "Choosyland".

 

di Riccardo Menghini

Il parere del Csm sulle nuove misure anticorruzione approvate dal Senato ed ora trasmesse alla Camera sarà definitivamente reso noto entro l’inizio della prossima settimana. Il quotidiano la Repubblica ne ha però già anticipato in parte il contenuto. Nel testo pubblicato, i magistrati bocciano senza mezzi termini i provvedimenti previsti dalla legge, soprattutto per quanto riguarda la diminuzione della pena per il reato di “concussione per induzione”.

Una scelta che comporta la consistente abbreviazione dei termini di prescrizione della nuova figura di reato. In effetti, una norma di questo tipo avrebbe (comprensibilmente) suscitato polemiche e resistenze ben più aspre se fosse stata emanata dal precedente governo. Ma viene da pensare che se l'avesse scritta la squadra di Silvio Berlusconi probabilmente non sarebbe cambiato molto.

Non possono quindi essere condivise le considerazioni di chi riconosce all'attuale Esecutivo la forza di aver finalmente affrontato un tema così complesso e delicato, come auspicato anche dall'Unione Europea. "Sono comunque soddisfatto, pochi mesi fa era impensabile", afferma il premier Monti. Eppure la sua presunta indipendenza dai partiti è venuta a mancare proprio nel momento decisivo per segnare una svolta rispetto al passato.

Immediatamente il vice-presidente del Csm, Michele Vietti, già sottosegretario alla Giustizia e all'Economia nei governi presieduti da Berlusconi (non fa mai male ricordarlo), si è affrettato a smentire le anticipazioni giornalistiche che sarebbero “basate su bozze in gran parte superate, e rischiano di essere fuorvianti', anticipando poi che il parere del Csm ''non sarà una stroncatura, ma anzi si tratterà di una valutazione sostanzialmente positiva, pur in presenza di rilievi critici''.

Vietti ha poi sottolineato che le criticità del ddl anticorruzione sarebbero da ricondurre alle norme sulla prescrizione e in particolare alla legge Cirielli, che ha portato diverse modifiche. Un'opinione quantomeno curiosa, di chi evidentemente non vuole prendere una  posizione critica nei confronti del governo Monti.

Eppure di ragioni ne avrebbe avute. Innanzitutto il ddl anticorruzione non contiene una serie di norme che invece sarebbero state fondamentali per la credibilità del provvedimento: dal ripristino del falso in bilancio (depenalizzato nel 2002 dal secondo governo Berlusconi), al reato di auto-riciclaggio (invocato da Ue e banca d'Italia), passando per la riforma del voto di scambio. Su quest'ultimo punto e sull'incandidabilità per i condannati con sentenza passata in giudicato, il Guardasigilli Paola Severino assicura che il governo sta lavorando. Purtroppo ci vorrà ancora del tempo e ed è probabile che ci ritroveremo dei condannati in Parlamento anche dopo le prossime elezioni.

Ma da quello che manca passiamo a quello che il disegno di legge contiene. Il testo sembra essere assolutamente inadeguato soprattutto sotto due profili: l'introduzione del reato di "concussione per induzione" (che ora si distingue da quella "per costrizione") e la previsione della punibilità del soggetto concusso. Riguardo alla prima, che fa riferimento all'ipotesi in concreto più frequente di concussione, appare inconcepibile la scelta di diminuire le pene previste: quella minima infatti cala da 4 a 3 anni, mentre la massima scende da 12 a 8, con la prescrizione che di conseguenza si riduce da 15 a 10 anni. Un'innovazione che, fra gli altri, metterebbe a rischio anche il processo Ruby, in cui è coinvolto l'ex premier.

Assolutamente controproducente appare poi la possibilità di punire anche il concusso, e cioè la  vittima del reato: con la prospettiva di finire in galera, chi mai andrebbe a denunciare il pubblico ufficiale che gli ha spillato dei soldi?

Per la concussione per costrizione, che si può dire rappresenti un'ipotesi di difficile realizzazione in concreto, dal momento che in tale fattispecie il concussore dovrebbe compiere una vera e propria “violenza psichica” prospettando un “male ingiusto” alla vittima, si  prevede invece un inasprimento delle pene: da un minimo di 6 a un massimo di 12 anni di reclusione.

di Carlo Musilli

Con la caduta in Lombardia, la destra chiude quasi simbolicamente un ventennio di malgoverno a tutti i livelli dell'amministrazione pubblica. E lo fa proprio lì dove tutto è cominciato, nella terra di nascita del fu partito personale Forza Italia. "Si può votare in un periodo compreso tra 45 e 90 giorni, quindi è realistica la previsione di elezioni a gennaio". A meno di improbabili ripensamenti della Lega, è questo il progetto del governatore Roberto Formigoni per il futuro prossimo della sua Regione.

Nell'ultimo scampolo di legislatura, il Celeste punta a organizzare "una giunta breve con due compiti precisi: riformare la legge elettorale abolendo il listino e approvare il bilancio". A quel punto, una volta chiusi i giochi, Formigoni non si ricandiderà alla presidenza della Regione. Ha in mente altri nomi, "ad esempio l'ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini". Ma questo, a suo dire, non significa ritirarsi dalla "battaglia politica": il quasi ex-governatore, tanto per cominciare, non lascerà l'incarico di commissario per l'Expo di Milano.

In ogni caso, dopo 17 anni la sua parabola da governatore è terminata e al Celeste non rimane che combattere per non sparire nel nulla a fine legislatura. E guardando indietro, attraverso i quattro mandati di Formigoni in Regione, si scorge una riproduzione in scala locale di quello che il berlusconismo ha significato per il Paese dalla metà degli anni Novanta.

Una concezione della politica come arte dell'imbonimento, dello spettacolo preparatorio che tutto annuncia per poi smentirsi clamorosamente nei fatti. Un modello in cui al leader carismatico e rassicurante si demanda ogni capacità critica, sempre disposti a lasciarsi convincere da qualsiasi auto-assoluzione sommaria. Il Celeste oggi lascia il Pirellone rivendicando anni di buon governo, "anzi, ottimo". E questo basta come sempre a cancellare di netto il degrado della realtà reale, quella che parla di una Regione con 14 politici indagati su un totale di 80 poltrone. Esattamente come fece il Cavaliere poco meno di un anno fa, quando si dimise lasciando un Paese disastrato, ma presentò il suo passo indietro come un "alto gesto di responsabilità", dettato esclusivamente dal tradimento di un alleato e dalla tirannia irrazionale dello spread.

A ben vedere, nel ventennio di Formigoni in Lombardia ci sono quasi tutti gli ingredienti fondamentali della politica al tempo di Beautiful. Si pensi alla reazione del governatore dopo l'arresto dell'assessore Domenico Zambetti, accusato di aver pagato alla 'ndrangheta 200mila euro in cambio di 4mila voti. Lo scandalo ha portato la Lega ad abbandonare la nave e Formigoni ne è rimasto sorpreso. Sinceramente, viene da credere. Nel rispetto di una tradizione ormai consolidata, il governatore prima di abbandonare la poltrona ha dovuto attendere che accadesse l'irreparabile. Ancora ieri aspettava pietosamente che il Carroccio gli concedesse di restare, come se il capo della giunta non fosse responsabile per la condotta dei propri assessori. E quando andrà via, naturalmente, lo farà solo perché costretto dal "ribaltone leghista".

Una lettura com'è ovvio distorta, visto che solo negli ultimi anni Formigoni di motivi per dimettersi ne avrebbe avuti da vendere. Zambetti non è il primo assessore a finire in manette sotto il suo governo: è il quinto.

Restringendo lo sguardo solo all'ultimo triennio, il Celeste si è reso protagonista di più d'una condotta oltre i limiti della decenza. Il primo episodio risale al 2010, ma ha una coda nell'attualità. La settimana scorsa il governatore è stato condannato a pagare 900 euro di multa e altri 100mila di risarcimento per aver diffamato i Radicali. Un anno fa due esponenti della lista Bonino-Pannella avevano scoperto 926 firme false fra quelle presentate dalla lista Formigoni alle elezioni regionali, firme senza le quali il Celeste non avrebbe potuto nemmeno candidarsi. (Una vicenda che richiama in modo inquietante quella di Michele Giovane, il consigliere che in Piemonte è stato condannato in primo grado e in appello per aver certificato firme false in favore dell'attuale governatore leghista, Roberto Cota).

Messo alle strette, Formigoni scelse di gridare al complotto. Non contro la magistratura comunista, ma contro i Radicali, "rimasti 12 ore da soli con in mano penne e borse" a controllare i registri con le firme, avrebbero "potuto manipolare le liste, correggerle, spostare i documenti come volevano". Una ricostruzione che secondo il pm è falsa. Come le firme.

Ma dopo i dubbi sulla legittimità stessa delle elezioni, ci sono quelli sui candidati. Il caso più rappresentativo è senza dubbio quello di Nicole Minetti, ormai conosciuta da tutta Italia come iconografia suprema della donna Pdl. All'epoca era solo una procace e sconosciuta igienista dentale di 25 anni e fu eletta in Consiglio regionale proprio grazie a quel "listino bloccato" contro cui oggi Formigoni imbastisce la sua ultima crociata. In sintesi, il nome della Minetti fu inserito nella stretta cerchia dei candidati che venivano automaticamente eletti in caso di riconferma del governatore. Il che è la riproduzione in piccolo di quello che accade su base nazionale con il Porcellum.

A imporre il nome della ragazza fu naturalmente sua maestà Silvio Berlusconi e le cronache dei mesi seguenti ne svelarono il motivo. Oggi la Minetti è indagata dalla Procura di Milano nell'ambito del processo Ruby per favoreggiamento e induzione alla prostituzione, ma più probabilmente passerà alla storia come la reginetta dei festini sudaticci e debosciati della reggia d'Arcore.

Arriviamo così alla ciliegina sulla torta nella vita politica di Formigoni, la vicenda che maggiormente lo preoccupa e lo irrita. Il governatore è indagato per concorso in corruzione insieme al suo caro amico Pierangelo Daccò, ex consulente di varie aziende sanitarie appaltatrici della Regione Lombardia. L'ipotesi dell'accusa è che per anni Daccò abbia pagato al Celeste viaggi e comfort extra-lusso (8,5 milioni di euro in tutto), ottenendo in cambio delibere e fondi del Pirellone - per un totale di circa 200 milioni - in favore delle strutture sanitarie a lui collegate. Fra tutte spicca la fondazione Maugeri di Pavia, dalla quale Daccò avrebbe ricevuto 70 milioni di euro successivamente dirottati come fondi neri in un sistema di società off-shore.

Formigoni ha passato mesi a smentire questa ricostruzione. Sostiene di aver sempre pagato le vacanze di tasca propria, rimborsando l'amico ogni volta che questi gli anticipava dei soldi. Un'autodifesa a cui bisognerebbe credere sulla parola: "Quando dai dei soldi a un amico - è il mantra ripetuto fino alla noia dal governatore -, poi gli chiedi la ricevuta?".

Certo che no, ma in teoria basterebbe produrre la documentazione sui movimenti bancari di quel periodo per dimostrare a tutti d'aver pagato la propria quota. Purtroppo, se esistono, quelle distinte sono ancora segrete. Nella migliore delle ipotesi il Celeste non ritiene che il suo ruolo pubblico lo obblighi a dar prova d'onestà. A decidere saranno naturalmente i magistrati, ma è certo è che fin qui l'autodifesa dal Celeste non suona più convincente di quella della collega del Lazio, Renata Polverini ("Le ostriche in Consiglio c'erano già prima di me"). Né, volendo, del "burlesque" di Arcore. 

di Giovanni Gnazzi

Veltroni ha garantito in televisione che non si candiderà più. Nessuna pulsione africana, resterà in Italia a fare quello che ha sempre fatto e questa della sua rinuncia è dunque una buona notizia solo a metà. I maliziosi dicono che si preparerebbe a candidarsi a sindaco di Roma. A volte ritornano? D’Alema, dal canto suo, ha affermato che si candiderà “se lo chiede il partito”, che vuol dire tutto e il suo contrario, vista la genericità del soggetto. Parla infatti del gruppo dirigente? Della base? Di quella del sud? Delle numerose persone che hanno firmato l’appello uscito sull’Unità di ieri?

Certo, anche nell’effettuare (o far finta di farlo) il famoso “passo indietro”, i due denotano una cultura politica decisamente diversa. Uno é stato comunista e non sputa sul suo passato, l'altro non lo é mai stato e il passato l'ha sempre usato per farsi strada. Veltroni continua a pensare ergendosi al di sopra del partito, D’Alema continua a ritenersi, prima di ogni altra cosa, uomo di partito. Una differenza che racconta molto di più di quello che le due prese di posizione apparentemente esibiscono.

La sensazione è che sia il filosofo delle figurine Panini, sia l’ex segretario, premier, ministro e ancora presidente del Copasir ,vogliano entrare a gamba tesa nel dibattito interno del loro partito e che D’Alema, in particolare, proponga quasi una sorta di referendum sul suo nome. Incauto appare, immemore soprattutto di come proprio da lui venne mandato a casa Natta e inconscio, forse, del grado di appeal che la rottamazione suscita di per sé anche nelle fila del suo partito.

Perché sembra che l’articolo dello Statuto del partito che prevede siano al massimo tre le legislature consecutive possibili per i suoi esponenti, potrebbe essere legittimamente praticato senza bisogno di ulteriori pronunciamenti da parte di non meglio precisate istanze di partito. Arrampicarsi sull’interpretazione della norma (legislatura piena di cinque anni o comunque effettuata quale che sia stata la sua durata) perché molti esponenti di primo piano del PD sono in Parlamento da più di vent’anni. Dunque, a meno non si voglia proporre che i mandati debbano essere misurati solo dalla nascita del PD, c’è poco da interpretare se non ci si vuole rendere ridicoli.

Ma il punto non è tanto se D’Alema o chi per lui dovrà o no rientrare in Parlamento, bensì proprio questa ansia di rottamazione che, sempre più, appare come la figlia minore di una compulsione generale che si chiama, semplicemente, rifiuto della politica. Quella fatta da politicanti, composta di riti e personaggi che ormai rappresentano, anche loro malgrado, la politica del compromesso e delle stanze chiuse, della degenerazione progressiva dei valori in funzione del raggiungimento del potere.

E c’è poco da arzigogolare sulle regole delle primarie, giacché la loro assurdità di fondo non servirà ad evitare un fatto: chiunque vinca, tra Bersani e Renzi, farà a meno della vecchia guardia. Anzi, proprio per vincere, dovranno dichiararlo da subito, giacché l’elettorato del PD sente un’ansia di rinnovamento che vede al primo step la piacevole rinuncia a questi dirigenti, condottieri di ogni sconfitta.

Certo, saggezza vorrebbe che prima ancora che degli esponenti dei partiti, sarebbe bene parlare dei partiti stessi, trasformatisi progressivamente in collettori elettorali al netto delle ideologie. Il mito del partito post-ideologico è stata la pietra miliare della costruzione dell’indistinto, della politica come ammucchiata indecente di teoriche diversità. La fine del partito come intellettuale collettivo e come soggetto di formazione, in qualche modo pedagogico nei confronti della società.

I partiti, a maggior ragione quelli progressisti, dovevano formare politicamente le masse per poter spostare gli equilibri dei poteri, ma il loro appannamento progressivo, l’incedere pedante dello svuotamento identitario in funzione della crescita del peso elettorale a prescindere dalla collocazione ideale e politica, ha prodotto i mostri che ora, forse maldestramente, si vuol combattere con ramazza e piccone.

Il PD di Veltroni e D’Alema è stato soprattutto questo. La lunga marcia dell’ex partito comunista verso i rilassanti e confortevoli approdi centristi, nel limbo assoluto delle ideologie che ha fagocitato ogni operazione. Una mutazione genetica totale, che ha invertito completamente le funzioni stesse del suo agire oltre che la sua missione politica.

Si scelse il dialogo con il mondo cattolico, si riteneva che in Italia la maggioranza dell’elettorato fosse conservatrice e, da qui, la necessità di dividere i moderati dai reazionari, i conservatori dalla destra, giacché impensabile era poter contare solo sulla forza della sinistra per vincere. Dalla “svolta di Salerno” al compromesso storico, persino alla mai troppo criticata stagione dell’unità nazionale, si trattò di strategia politica; discutibile nei suoi contenuti, ma non liquidabile con anatemi estremistici, e in ogni caso non imputabile di rottamazione ideale.

La scelta era comunque questa: costruire un quadro di alleanze per cambiare i rapporti di forza nel paese e un voto su tre al PCI rappresentò in qualche modo una indiretta conferma della strategia politica, almeno in una fase storica.

Ma dalla chiusura del PCI, per finire al PD, la mutazione genetica ha assunto i contorni della disfatta ideale e politica. Perché se spostare l’elettorato moderato verso la sinistra era l’intenzione dichiarata, trasferire i progressisti verso i moderati è stata la risultante finale. In questo senso, cambia poco per gli elettori la sorte dei due: Veltroni ha già fatto il massimo del danno possibile, D’Alema ha accettato il progressivo ripiegamento per salvare se stesso. Due fallimenti per due duellanti.

 


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