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di Agnese Licata
Anche in un quadro politico devastato e imprevedibile come quello italiano, ogni elezione porta con sé la speranza di un cambiamento. E forse mai come in questo momento, la voglia di voltare pagina è forte. Spinta, da un lato, da una crisi economica che le varie politiche europee, nazionali e locali non hanno neanche intaccato, e, dall’altro, dagli innumerevoli scandali e colpi di mano che vedono protagonisti i partiti italiani.
Nel giorno in cui la Sicilia va al voto, guardata dal resto d’Italia con un mix di attenzione, curiosità e timore, l’elettore siciliano, anche se tendenzialmente pessimista e confuso (soprattutto se di centrodestra), incrocia le dita e spera che questa volta, la politica isolana inverta davvero la rotta. Il cartellone delle liste è a dir poco corposo, le alternative non mancano. Almeno apparentemente. Dieci i candidati a Presidente, 20 le liste e più di 1.600 gli aspiranti deputati all’Assemblea. Destra, centro, sinistra, alternativi, berlusconiani, antiberlusconiani e chi più ne ha, più ne metta.
In questi giorni, inevitabilmente, le cassette delle lettere dei siciliani hanno visto un via vai di buste, inviti e proclami firmati dai vari candidati. Molte finiscono dritte dritte nel cestino della carta. Ma se si ha lo stomaco di buttar giù la retorica a chili che le caratterizza, si scopre quanto siano simili. A prevalere è l’assoluta mancanza di un vero programma di governo, di manifestazioni d’intento concrete sui tanti problemi che pesano sull’Isola. Prevalgono invece frasi del tipo: “Dobbiamo far valere i diritti e gli interessi dei siciliani, troppo spesso inascoltati a Roma e in Europa”.
La strategia è quella di sempre: non esporsi troppo, trovare i soliti nemici “esterni” e tenersi così le mani libere in vista del post-elezioni quando toccherà fare accordi e alleanze. Perché nella grande indecisione di questo voto, c’è una sola (quasi)certezza: dalle urne difficilmente uscirà una vera maggioranza. E così, sotterraneamente, nell’ultima settimana, i partiti hanno preparato il terreno per futuri “inciuci”, fotocopia del passato prossimo.
Innanzitutto, ci sono le voci di un patto Cro-chè, dai nomi dei due candidati Rosario Crocetta (leader di una coalizione Pd-Udc) e Gianfranco Miccichè (Grande Sud, ex Pdl, appoggiato dall’ex governatore Raffaele Lombardo). Tutti gli interessati, a microfono e taccuini hanno smentito, ma in sostanza, ci sarebbe l’intenzione per Miccichè di far confluire i voti verso Crocetta attraverso il voto disgiunto per danneggiare l’odiato Nello Musumeci, candidato del Popolo delle libertà e uomo su cui il segretario Angelino Alfano ha puntato tutto. Per mettersi poi al sicuro dall’exploit preannunciato del Movimento 5 stelle, è già cominciato il corteggiamento dei partiti ai grillini. Sia Musumeci sia Crocetta, hanno fatto capire di essere disposti a venire a patti con il Movimento, una volta entrati a Palazzo d’Orleans.
C’è poi un aspetto su cui sarebbe interessante capire le intenzioni di tutti i candidati, grillini compresi. Uno di quei nodi che nessun politico siciliano ha mai avuto davvero il coraggio di affrontare ma che è cruciale: lo spreco di denaro pubblico da parte di comuni, province e Regione. Uno spreco che alla base ha favoritismi, compravendita di voti, interessi personali… insomma, tutto tranne il bene comune. La Regione viaggia verso i 6 miliardi di euro di debito e se nonostante questo non è ancora stata commissariata è solo per alcuni giochetti sul bilancio che hanno inserito tra i crediti voci irriscuotibili (come il pagamento di alcuni finanziamenti europei contestati dalla stessa Ue perché utilizzati in modo irregolare). Intanto i deputati dell’ARS continuano a prendere uno stipendio da 12-13mila euro al mese.
I Comuni non sono messi meglio. Una settimana fa, i sindaci di alcune amministrazioni siciliane hanno consegnato in prefettura le fasce tricolori minacciando di non organizzare i seggi per mancanza di soldi in cassa. Le tre principali città dell’Isola sono a rischio fallimento. Palermo ha oltre 600 milioni di debito, più due municipalizzate-buchi neri che negli anni sono servite a garantire più che servizi efficienti, un sicuro bacino di voti ai vari sindaci.
I conti di Catania sono sotto la lente della magistratura e della Corte dei Conti. Nel giro di vent’anni di cattiva amministrazione e clientelarismo, si è arrivati a un miliardo di deficit.
Poi, c’è Messina, commissariata dopo che il sindaco Buzzanca si è dimesso giusto per presentare la propria candidatura a queste elezioni. Alle spalle si è lasciato un Comune sull’orlo del dissesto (per colpe di numerose amministrazioni, ovviamente). Il patto di stabilità è stato sforato di oltre 60 milioni di euro l’anno scorso e quindi, il Governo ha deciso un taglio netto dei trasferimenti. Gli effetti li vedranno i cittadini, con trasporti e raccolta rifiuti a singhiozzo.
Di fronte a tutto questo, anche il candidato del Pd Crocetta continua con la solita lagnanza verso Roma che lascia la Sicilia a se stessa, senza ammettere che dietro passivi e disservizi non c’è Roma e il Governo, ma amministratori locali (di destra come di sinistra) irresponsabili e soprattutto incompetenti. L’ammissione di colpe ed errori, non va di moda, si sa.
Allora perché sorprendersi di quelle piazze riempite dal Movimento 5 stelle e di quelle vuote dei politici di professione? Ma adesso c’è il voto e all’interno della cabina elettorale, in Sicilia, tutto può succedere.
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di Fabrizio Casari
“Così come scesi in campo nel ’94 per il bene del paese, oggi annuncio che non mi ricandiderò compiendo un nuovo gesto d’amore per il paese”. Con la dose consueta di autocelebrazione tipica di ogni sua esternazione, Berlusconi ha diramato così, urbi et orbi, l’intenzione di non ripresentarsi candidato premier per la destra italiana. Sembra che si chiuda così un’epoca storica più che una fase politica; che l’uomo che ha diviso in due l’Italia, azzerando idee e progetti di chi era con lui e anche di chi lo ha combattuto, riducendo lo scontro politico a una partita tra berlusconiani e anti-berlusconiani, si faccia da parte.
Pare che a rompere gli ultimi indugi siano intervenuti una serie di incontri: da quello con la sua sondaggista ufficiale, Alessandra Ghisleri, che gli pronosticava un risultato penoso alle prossime elezioni (minimo 11, massimo 15%), a quello della cena a Palazzo Chigi con Mario Monti, da dove Berlusconi è uscito rassicurato e affascinato al tempo stesso. A dar retta ai racconti della serata, pare che il cavaliere, che ha tentato invano di offrire a Monti la candidatura, sia comunque convinto che in qualche modo il professore sarà in campo a garantire la linea politica del centro-destra anche nel prossimo futuro.
L'annuncio del ritiro, ovviamente, é un annuncio e nient'altro, almeno al momento. E se pure dovesse trovare conferma, non significherà comunque abdicazione. L'ex premier, infatti, non rinuncerà ad influenzare e a indirizzare l'agenda politica della destra itaòliana, con le buone (il ruolo del padre nobile) o con le cattive (l'utilizzo spregiudicato dei suoi media) affinché i suoi interessi vengano tutelati al meglio. Con tutta probabilità, però, volendo uscire dalla pura cronaca, tre sono le ragioni alla base della decisione: la convinzione che le urne l’avrebbero pesantemente castigato, che i processi in corso sarebbero diventati un’ulteriore fonte di pericolo e che le sue aziende avrebbero risentito di un suo ruolo ancora centrale nello scontro politico. Tre ragioni difficili da declinare in ordine d’importanza, essendo in qualche modo legate l’una alle altre. Partiamo dalla prima delle tre elencate.
Il cavaliere, che in politica come negli affari mai ha accettato la competizione senza prima essersi assicurato di vincerla, non ha nessuna voglia di veder uscire dalle urne l’istantanea del suo crepuscolo. In questo gli va riconosciuta l’abilità del giocatore che sa come in presenza di brutte carte sia meglio passare la mano o addirittura alzarsi dal tavolo di gioco. D’altra parte, se nemmeno con una maggioranza bulgara di oltre 100 parlamentari alla Camera è riuscito a governare, figurarsi cosa potrebbe fare con una pattuglia di peones decisamente inferiore. Il suo partito, bastonato e all’angolo, che ospita ogni appartenenza e il suo contrario, appare eccessivamente in ostaggio delle spinte centrifughe di ogni componente interna e ogni singola vanità, impossibile tentare di incollare il puzzle e dargli una veste di soggetto politico.
La seconda questione, anch’essa importante nella scelta di compiere un passo indietro, ha a che vedere con i due processi in corso - Media trade e Ruby - dove il cavaliere rischia condanne pesanti. Il passo indietro in cambio di una sorta di salvacondotto è dunque moneta di scambio ipotizzabile e tutto sommato utile per lui.
Berlusconi vuole uscire per sempre dalle aule giudiziarie e la sua futura collocazione nelle istituzioni italiane sarà a questo legata. Data per scontata l’impossibilità anche solo a livello di boutade di prevedere il Colle nelle sue ambizioni, è probabile che la simpatia verso Monti possa essere il preludio ad una richiesta di nomina a Senatore a vita, che meglio si conformerebbe all’Io ipetrofico del soggetto.
C’è poi la terza questione, davvero non meno importante delle altre due, che si riferisce alla condizione delle sue aziende. Tutti, soprattutto quelli che fanno finta di non saperlo, sanno benissimo che Berlusconi scese nella contesa politica in forma diretta in una fase nella quale più che fermare i comunisti alle porte era necessario fermare la guardia di finanza al suo portone.
L’esposizione bancaria del suo gruppo era drammatica, il debito era divenuto insostenibile e la fine politica del suo principale supporter - Bettino Craxi - non gli permetteva di nutrire alcuna fiducia nello sviluppo definitivo delle sue aziende sul mercato; almeno non nelle dimensioni che avrebbero consentito un rapido rientro dell’esposizione e un riassetto generale in positivo del Gruppo.
E che sia stata la mossa vincente, non c’è dubbio: da quando il cavaliere si è insediato a Palazzo Chigi, non sono stati lesinati provvedimenti, decreti e leggi ad hoc (l’ultima quella sul digitale terrestre, fregatura colossale che è servita a far vedere i decoder dell’azienda di famiglia ndr) per favorire le sue aziende, direttamente e indirettamente, lecitamente e illecitamente.
I record di concentrazione pubblicitaria accumulati da Pubblitalia sono solo uno degli esempi di come funzionavano i rapporti tra le imprese e il governo, così come la crisi della stessa concessionaria dopo l’uscita del cavaliere da Palazzo Chigi è la controprova di quanto quei risultati fossero legati all’influenza politica del gruppo e non certo alla capacità di seduzione sul mercato.
Ebbene, proprio le sue aziende - mai così in crisi negli ultimi venti anni (ci si mette pure il Milan a dare dolori di testa…) - hanno oggi bisogno del disimpegno di Berlusconi, di dover separare la loro attività imprenditoriale dalle sorti politiche disastrose del suo proprietario. Giacché quel legame indissolubile tra Berlusconi e il suo gruppo, così come è servito a crescere in parallelo al controllo politico del paese, oggi é divenuto una palla al piede per le sue aziende, che soffrono proprio dell’assoluta mancanza di controllo politico e della crisi di rigetto del paese verso Berlusconi. Glielo hanno spiegato bene Confalonieri ed Ennio Doris e lo stesso Gianni Letta non ha potuto omettere come la caduta rovinosa del consenso politico chiuda porte e sportelli, con il rischio evidente di trascinare il gruppo nel gorgo del partito o di quel che ne resta.
Queste quindi le ragioni del passo indietro di Berlusconi, che si dimostra una volta di più capace di annusare l’aria e che, anteponendo i suoi interessi personali a quelli politici del suo schieramento, si smarca. Se il dribbling riuscirà o se ormai è arrivato fuori tempo massimo, lo dirà la fine della partita, cioè le condizioni nelle quali l’ex premier affronterà il post-voto.
Quella che sta per scatenarsi ora dentro il Pdl o quel che ne resta è una vera e propria guerra, tra deputate orfane del sultano, politicanti di ogni diaspora pronti all’ennesima capriola e peones improvvisamente preoccupati del loro futuro. L’aggregato scomposto che negli ultimi venti anni di politica italiana è stato soprattutto un mix tra il collegio di difesa del cavaliere e il consiglio d’amministrazione delle sue aziende, si trova ora a dover diventare - se mai ci riuscirà - un partito e non più una protesi del suo capo.
Operazione quanto mai difficile, perché le grandi e voraci mascelle mal si sposano con lo scarso peso intellettuale e l’ancor meno spessore istituzionale dei protagonisti. Non c’è praticamente nessuno nel Pdl che non si candidi alle primarie e non c’è nessuno che possa ragionevolmente pensare di vincerle. La caduta del cavaliere porta a terra anche il cavallo.
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di Agnese Licata
Mancano pochissimi giorni ormai, ma solo adesso sui media nazionali si comincia a fare qualche riflessione su un appuntamento regionale, sì, che però rischia di anticipare molto di quanto accadrà quando saranno tutti gli italiani - non sono i siciliani - a dover andare alle urne. E allora parliamone di queste elezioni in Sicilia. A guardar bene, se ne parla da quando il Popolo delle libertà ha fatto capire che con questo responso elettorale spera di uscire dall’empasse che da mesi immobilizza il partito.
Da un lato, ovviamente ci sono i pro-Alfano che appoggiano Nello Musumeci, decisi a rottamare Berlusconi e ad andare avanti con l’esperienza del Pdl, mentre dall’altra c’è chi (come Daniela Santanchè e Michaela Biancofiore, giusto per fare due nomi) allo sfasciacarrozze vorrebbe spedire tutto il partito, nell’illusione che dopo anni di promesse non mantenute, malgoverno e sottane, basti tirar fuori dal baule della nonna il nome di Forza Italia per ritrovare la verginità politica.
Ma dietro il difficile compito che aspetta gli elettori siciliani, c’è più di questo. Non c’è solo il solito scontro tra centrodestra e centrosinistra, replica di quanto accade a livello nazionale e in tutte le altre Regioni. È uno scontro diverso, contorto, meno comprensibile. In una parola: barocco. Per semplificare, basta dire che nel 2010, di fronte a una maggioranza incapace pure di votare la finanziaria regionale, il Pdl si sfila e molla Lombardo (dopo mesi e mesi di contrasti con la direzione nazionale del Popolo delle libertà).
Invece di andare a elezioni anticipate, per salvare un po’ tutti la poltrona in Assemblea (nome con cui lo Statuto d’autonomia indica il Consiglio regionale ndr), il Partito democratico pensa bene di passare dall’opposizione alla maggioranza, sostituendosi al Pdl ed entrando in giunta. Come si fa, di fronte a questo, a non tirar fuori la solita frase? Quella che Tomasi di Lampedusa scrisse nel suo Gattopardo? “Tutto deve cambiare affinché nulla cambi”.
Adesso, però, quella scelta rischia di rivoltarsi contro lo stesso Pd siciliano e contro, ovviamente, quegli elettori che nella destra non si sono mai riconosciuti e che si trovano senza una vera alternativa. Il Partito democratico ha tirato fuori dal cilindro Rosario Crocetta, 61 anni, un passato nel Pci, ex sindaco di Gela che non ha avuto paura a combattere la mafia. Lui, un passato che sembra sincero, chiamato a fare il “trapezista”, come ha scritto Gian Antonio Stella martedì scorso sul Corriere della sera. Perché solo se si è capaci di mille acrobazie si può guidare un partito spaccato al suo interno dopo l’appoggio a Lombardo. Insomma, per chi vorrebbe una svolta in Regione, diventa difficile pensare al Pd come il vero partito del rinnovamento, perché per un Crocetta che arriva, ci sono i soliti volti noti del partito che restano, arrivati al potere anni or sono per spartirsi le poltrone e favorire gli amici.Ci sarebbe poi tutto il capitolo della sinistra-sinistra, tra cui la coalizione che fa capo a Sinistra ecologia e libertà. La coalizione si è però persa per strada Claudio Fava a pochi giorni dall’ufficializzazione delle liste (non candidabile perché non più residente in Sicilia). Insomma, non certo una prova di efficienza. E poi ci sarebbero i forconi e i vari piccoli gruppi alternativi, ma nulla che possa davvero avere qualche chance in una regione democristiana fino all’osso.
Il vero nodo (dopo quello del Pd) si chiama Movimento 5 stelle. Gli occhi di tutti i politici - siciliani e non - saranno puntati oltre lo Stretto il prossimo 28 ottobre. E con grande preoccupazione. Quanto le folle che riempiono le piazze al nome di Grillo, nel segreto della cabina elettorale, sceglieranno Giancarlo Cancellieri e i vari volti nuovi selezionati e spinti dall’ex comico? Questa è la domanda. Perché se i pronostici della vigilia dovessero avverarsi (17-20% dei voti), tutti, anche a Roma, comincerebbero a tremare in vista del 2013.
Con i politici di professione che sembrano fare a gara per far diventare il vento dell’anti-politica un vero e proprio ciclone, per molti i grillini rappresentano la panacea di tutti i mali della politica: corruzione, malaffare, vicinanza con la mafia, malgoverno e chi più ne ha più ne metta. Ma a leggere i curricula dei vari candidati del Movimento (www.sicilia5stelle.it/i-candidati/), i dubbi che queste siano le persone giuste e capaci di cambiare qualcosa, diventano tanti.
Ragazzi, per lo più. Il che, di per sé, è una bella novità. Tutti bravi su Internet, certo, ma con competenze specifiche abbastanza ridotte. Alcuni sono disoccupati senza alcuna esperienza di lavoro (di nessun tipo); pochissimi i laureati; l’impegno civile pre-Grillo è, per molti, ridotto all’osso. Alcuni, invece, hanno studiato a fondo la questione rifiuti, oppure hanno gestito qualche piccola attività commerciale, o lavorano nella ditta di famiglia.
Casi rari, purtroppo. Ci mettono la faccia e il coraggio in queste elezioni, gli va riconosciuto, ma sempre con la sicura punta d’avanzamento che si chiama Beppe Grillo. Difficile capire così quanto avranno da dire e proporre in un’Assemblea fatta di vecchi volponi, che conoscono ogni ombra della legge, che della vuota retorica hanno fatto il loro mestiere e che di fronte a persone così inesperte si sfregano già le mani. I problemi incancreniti della Sicilia sono tantissimi e affrontarli “senza se e senza ma” è un’impresa.
Giusto per darne l’idea: la disoccupazione giovanile (cioè under35), secondo i dati di Confartigianato è al 28%. Le donne che lavorano sono solo il 22,1%. I poveri relativi (rilevazione Istat) sono il 27,3%. Le imprese agricole chiuse nell’ultimo anno sono 6mila. Il deficit della Regione Sicilia arriva quasi ai 6 miliardi di euro. Rimane solo da aspettare per capire cosa farà il confuso elettore siciliano. Quello che fanno gli attori politici, purtroppo, è noto da tempo.
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di Carlo Musilli
Parlare è necessario, ma non sempre. Alle volte si potrebbe anche farne a meno, contemplare il creato e godersi la pace del silenzio. Purtroppo la continenza verbale non è fra le virtù più spiccate di cui possa far vanto il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, che ieri si è prodotta nell'ennesimo siparietto coronato da auto-rettifica. Per l'occasione ha sfoggiato anche un anglismo mica da tutti: "choosy", vale a dire "esigente" o, nell'accezione più sgradevole, "schizzinoso".
A Milano, dal palco dell'Assolombarda, il ministro ha recapitato il seguente dispaccio ai giovani italiani: non dovete "essere troppo choosy nella scelta del posto di lavoro. Lo dico sempre ai miei studenti: è meglio prendere la prima offerta di lavoro che capita e poi, da dentro, guardarsi intorno. Non si può più aspettare il posto di lavoro ideale, bisogna mettersi in gioco".
Il quesito sorge da sé: in quale Paese pensa di fare il ministro la professoressa Fornero? A questo punto è probabile che non si tratti dell'Italia, visto che qui da noi - di solito - le offerte di lavoro non "capitano". Può darsi che nel lontano Paese dei "choosy" (forse "Choosyland" rende meglio?) sia pieno di brillanti laureati con master di secondo livello, Mba e Phd. Singolari creature a cui però ogni giorno vengono proposte occupazioni di scarso prestigio, che loro, schizzinosamente, rifiutano. Per verificare la notizia abbiamo provato a contattare il Brucaliffo e il Cappellaio Matto, ma schizzinosi come sono non hanno risposto.
D'altra parte quaggiù, nel mondo reale, a inizio ottobre la Banca centrale europea ha raccontato una storia leggermente diversa. Stando ai conti di Francoforte, il tasso di disoccupazione in Italia arriva al 12,5% se si includono anche gli "scoraggiati", cioè le persone che hanno smesso di cercare lavoro perché convinte di non poterlo trovare. Il conteggio degli scoraggiati aumenta di 4,1 punti percentuali il tasso di disoccupazione ufficiale italiano calcolato da Eurostat per il 2011, innalzandolo al sesto posto nella zona euro. Ma si tratterà certamente di un 4,1% troppo schizzinoso.
Secondo la più nostrana Istat, invece, nel secondo trimestre 2012 il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) ha superato il 35%, mentre gli under 35 rappresentano oltre la metà dei disoccupati totali. Quasi un milione e mezzo di schizzinosi.
Un vero dramma sociale che, per fortuna, non coinvolge gli altolocati di "Choosyland". Qualcuno però deve aver pensato che Fornero con quell'aggettivo inglese si riferisse davvero all'Italia, perché quando il ministro si è spostato a Nichelino (vicino Torino) per un dibattito sulle pensioni, ha trovato alcuni esponenti dei Cobas e di Rifondazione Comunista a contestarla. Dopo aver appurato l'impossibilità di dialogare, la Professoressa ha lasciato il centro anziani Nicola Grosa. A quel punto la protesta è degenerata nella bagarre.
Dobbiamo quindi constatare ancora una volta lo spread fra il favoloso mondo di Fornero e la situazione reale del Paese. E' certo che un ministro abbia il dovere morale di comunicare con i cittadini, e più volte la titolare del Lavoro si è vantata della sua disponibilità in questo senso. Ma quando un esponente del governo parla in pubblico deve avere ben chiara la situazione: non sta prendendo il tè insieme ad altre eleganti e compite signore della Torino bene, né può immaginare di rivolgersi esclusivamente alla platea che ha fisicamente davanti agli occhi. Ogni volta che apre bocca deve sapere che il Paese intero sta ascoltando. Frasi e concetti che forse potrebbero andar bene per "i suoi studenti" rischiano di offendere altri milioni di persone. E la rabbia a quel punto è una reazione prevedibile.
Fornero però a questo non sembra rassegnarsi. Il suo universo di riferimento rimane inesorabilmente quello da cui proviene: il senato accademico fatto di magnifici tailleur e impeccabili gessati. E' un limite di cui bisogna tener conto, anche perché a volerlo ignorare rimarrebbe solo l'antipatia di chi ai suoi cittadini dice "vedete d'accontentarvi", mentre lei e i suoi pari sguazzano nell'accumulo d'incarichi e di stipendi.
Il ministro probabilmente non avrebbe voluto risultare così arrogante, ma il messaggio è passato. "Le parole sono importanti!", come strillava Nanni Moretti in "Palombella Rossa". Alla fine Fornero se n'è resa conto e ha provato a correggere il tiro quando ormai era troppo tardi: "Non ho mai detto che i giovani italiani sono schizzinosi. I giovani italiani sono disposti a qualunque lavoro. Poteva capitare in passato, quando il mercato del lavoro consentiva cose diverse, ma oggi i giovani italiani non sono nella condizione di essere schizzinosi, tant'è vero che oggi sono precari". Chissà cosa pensano dei giovani precari italiani, laggiù a "Choosyland".
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di Riccardo Menghini
Il parere del Csm sulle nuove misure anticorruzione approvate dal Senato ed ora trasmesse alla Camera sarà definitivamente reso noto entro l’inizio della prossima settimana. Il quotidiano la Repubblica ne ha però già anticipato in parte il contenuto. Nel testo pubblicato, i magistrati bocciano senza mezzi termini i provvedimenti previsti dalla legge, soprattutto per quanto riguarda la diminuzione della pena per il reato di “concussione per induzione”.
Una scelta che comporta la consistente abbreviazione dei termini di prescrizione della nuova figura di reato. In effetti, una norma di questo tipo avrebbe (comprensibilmente) suscitato polemiche e resistenze ben più aspre se fosse stata emanata dal precedente governo. Ma viene da pensare che se l'avesse scritta la squadra di Silvio Berlusconi probabilmente non sarebbe cambiato molto.
Non possono quindi essere condivise le considerazioni di chi riconosce all'attuale Esecutivo la forza di aver finalmente affrontato un tema così complesso e delicato, come auspicato anche dall'Unione Europea. "Sono comunque soddisfatto, pochi mesi fa era impensabile", afferma il premier Monti. Eppure la sua presunta indipendenza dai partiti è venuta a mancare proprio nel momento decisivo per segnare una svolta rispetto al passato.
Immediatamente il vice-presidente del Csm, Michele Vietti, già sottosegretario alla Giustizia e all'Economia nei governi presieduti da Berlusconi (non fa mai male ricordarlo), si è affrettato a smentire le anticipazioni giornalistiche che sarebbero “basate su bozze in gran parte superate, e rischiano di essere fuorvianti', anticipando poi che il parere del Csm ''non sarà una stroncatura, ma anzi si tratterà di una valutazione sostanzialmente positiva, pur in presenza di rilievi critici''.
Vietti ha poi sottolineato che le criticità del ddl anticorruzione sarebbero da ricondurre alle norme sulla prescrizione e in particolare alla legge Cirielli, che ha portato diverse modifiche. Un'opinione quantomeno curiosa, di chi evidentemente non vuole prendere una posizione critica nei confronti del governo Monti.
Eppure di ragioni ne avrebbe avute. Innanzitutto il ddl anticorruzione non contiene una serie di norme che invece sarebbero state fondamentali per la credibilità del provvedimento: dal ripristino del falso in bilancio (depenalizzato nel 2002 dal secondo governo Berlusconi), al reato di auto-riciclaggio (invocato da Ue e banca d'Italia), passando per la riforma del voto di scambio. Su quest'ultimo punto e sull'incandidabilità per i condannati con sentenza passata in giudicato, il Guardasigilli Paola Severino assicura che il governo sta lavorando. Purtroppo ci vorrà ancora del tempo e ed è probabile che ci ritroveremo dei condannati in Parlamento anche dopo le prossime elezioni.
Ma da quello che manca passiamo a quello che il disegno di legge contiene. Il testo sembra essere assolutamente inadeguato soprattutto sotto due profili: l'introduzione del reato di "concussione per induzione" (che ora si distingue da quella "per costrizione") e la previsione della punibilità del soggetto concusso. Riguardo alla prima, che fa riferimento all'ipotesi in concreto più frequente di concussione, appare inconcepibile la scelta di diminuire le pene previste: quella minima infatti cala da 4 a 3 anni, mentre la massima scende da 12 a 8, con la prescrizione che di conseguenza si riduce da 15 a 10 anni. Un'innovazione che, fra gli altri, metterebbe a rischio anche il processo Ruby, in cui è coinvolto l'ex premier.
Assolutamente controproducente appare poi la possibilità di punire anche il concusso, e cioè la vittima del reato: con la prospettiva di finire in galera, chi mai andrebbe a denunciare il pubblico ufficiale che gli ha spillato dei soldi?
Per la concussione per costrizione, che si può dire rappresenti un'ipotesi di difficile realizzazione in concreto, dal momento che in tale fattispecie il concussore dovrebbe compiere una vera e propria “violenza psichica” prospettando un “male ingiusto” alla vittima, si prevede invece un inasprimento delle pene: da un minimo di 6 a un massimo di 12 anni di reclusione.