di Fabrizio Casari

“Così come scesi in campo nel ’94 per il bene del paese, oggi annuncio che non mi ricandiderò compiendo un nuovo gesto d’amore per il paese”. Con la dose consueta di autocelebrazione tipica di ogni sua esternazione, Berlusconi ha diramato così, urbi et orbi, l’intenzione di non ripresentarsi candidato premier per la destra italiana. Sembra che si chiuda così un’epoca storica più che una fase politica; che l’uomo che ha diviso in due l’Italia, azzerando idee e progetti di chi era con lui e anche di chi lo ha combattuto, riducendo lo scontro politico a una partita tra berlusconiani e anti-berlusconiani, si faccia da parte.

Pare che a rompere gli ultimi indugi siano intervenuti una serie di incontri: da quello con la sua sondaggista ufficiale, Alessandra Ghisleri, che gli pronosticava un risultato penoso alle prossime elezioni (minimo 11, massimo 15%), a quello della cena a Palazzo Chigi con Mario Monti, da dove Berlusconi è uscito rassicurato e affascinato al tempo stesso. A dar retta ai racconti della serata, pare che il cavaliere, che ha tentato invano di offrire a Monti la candidatura, sia comunque convinto che in qualche modo il professore sarà in campo a garantire la linea politica del centro-destra anche nel prossimo futuro.

L'annuncio del ritiro, ovviamente, é un annuncio e nient'altro, almeno al momento. E se pure dovesse trovare conferma, non significherà comunque abdicazione. L'ex premier, infatti, non rinuncerà ad influenzare e a indirizzare l'agenda politica della destra itaòliana, con le buone (il ruolo del padre nobile) o con le cattive (l'utilizzo spregiudicato dei suoi media) affinché i suoi interessi vengano tutelati al meglio. Con tutta probabilità, però, volendo uscire dalla pura cronaca, tre sono le ragioni alla base della decisione: la convinzione che le urne l’avrebbero pesantemente castigato, che i processi in corso sarebbero diventati un’ulteriore fonte di pericolo  e che le sue aziende avrebbero risentito di un suo ruolo ancora centrale nello scontro politico. Tre ragioni difficili da declinare in ordine d’importanza, essendo in qualche modo legate l’una alle altre. Partiamo dalla prima delle tre elencate.

Il cavaliere, che in politica come negli affari mai ha accettato la competizione senza prima essersi assicurato di vincerla, non ha nessuna voglia di veder uscire dalle urne l’istantanea del suo crepuscolo. In questo gli va riconosciuta l’abilità del giocatore che sa come in presenza di brutte carte sia meglio passare la mano o addirittura alzarsi dal tavolo di gioco. D’altra parte, se nemmeno con una maggioranza bulgara di oltre 100 parlamentari alla Camera è riuscito a governare, figurarsi cosa potrebbe fare con una pattuglia di peones decisamente inferiore. Il suo partito, bastonato e all’angolo, che ospita ogni appartenenza e il suo contrario, appare eccessivamente in ostaggio delle spinte centrifughe di ogni componente interna e ogni singola vanità, impossibile tentare di incollare il puzzle e dargli una veste di soggetto politico.

La seconda questione, anch’essa importante nella scelta di compiere un passo indietro, ha a che vedere con i due processi in corso - Media trade e Ruby - dove il cavaliere rischia condanne pesanti. Il passo indietro in cambio di una sorta di salvacondotto è dunque moneta di scambio ipotizzabile e tutto sommato utile per lui.

Berlusconi vuole uscire per sempre dalle aule giudiziarie e la sua futura collocazione nelle istituzioni italiane sarà a questo legata. Data per scontata l’impossibilità anche solo a livello di boutade di prevedere il Colle nelle sue ambizioni, è probabile che la simpatia verso Monti possa essere il preludio ad una richiesta di nomina a Senatore a vita, che meglio si conformerebbe all’Io ipetrofico del soggetto.

C’è poi la terza questione, davvero non meno importante delle altre due, che si riferisce alla condizione delle sue aziende. Tutti, soprattutto quelli che fanno finta di non saperlo, sanno benissimo che Berlusconi scese nella contesa politica in forma diretta in una fase nella quale più che fermare i comunisti alle porte era necessario fermare la guardia di finanza al suo portone.

L’esposizione bancaria del suo gruppo era drammatica, il debito era divenuto insostenibile e la fine politica del suo principale supporter - Bettino Craxi - non gli permetteva di nutrire alcuna fiducia nello sviluppo definitivo delle sue aziende sul mercato; almeno non nelle dimensioni che avrebbero consentito un rapido rientro dell’esposizione e un riassetto generale in positivo del Gruppo.

E che sia stata la mossa vincente, non c’è dubbio: da quando il cavaliere si è insediato a Palazzo Chigi, non sono stati lesinati provvedimenti, decreti e leggi ad hoc (l’ultima quella sul digitale terrestre, fregatura colossale che è servita a far vedere i decoder dell’azienda di famiglia ndr) per favorire le sue aziende, direttamente e indirettamente, lecitamente e illecitamente.

I record di concentrazione pubblicitaria accumulati da Pubblitalia sono solo uno degli esempi di come funzionavano i rapporti tra le imprese e il governo, così come la crisi della stessa concessionaria dopo l’uscita del cavaliere da Palazzo Chigi è la controprova di quanto quei risultati fossero legati all’influenza politica del gruppo e non certo alla capacità di seduzione sul mercato.

Ebbene, proprio le sue aziende - mai così in crisi negli ultimi venti anni (ci si mette pure il Milan a dare dolori di testa…) - hanno oggi bisogno del disimpegno di Berlusconi, di dover separare la loro attività imprenditoriale dalle sorti politiche disastrose del suo proprietario. Giacché quel legame indissolubile tra Berlusconi e il suo gruppo, così come è servito a crescere in parallelo al controllo politico del paese, oggi é divenuto una palla al piede per le sue aziende, che soffrono proprio dell’assoluta mancanza di controllo politico e della crisi di rigetto del paese verso Berlusconi. Glielo hanno spiegato bene Confalonieri ed Ennio Doris e lo stesso Gianni Letta non ha potuto omettere come la caduta rovinosa del consenso politico chiuda porte e sportelli, con il rischio evidente di trascinare il gruppo nel gorgo del partito o di quel che ne resta.

Queste quindi le ragioni del passo indietro di Berlusconi, che si dimostra una volta di più capace di annusare l’aria e che, anteponendo i suoi interessi personali a quelli politici del suo schieramento, si smarca. Se il dribbling riuscirà o se ormai è arrivato fuori tempo massimo, lo dirà la fine della partita, cioè le condizioni nelle quali l’ex premier affronterà il post-voto.

Quella che sta per scatenarsi ora dentro il Pdl o quel che ne resta è una vera e propria guerra, tra deputate orfane del sultano, politicanti di ogni diaspora pronti all’ennesima capriola e peones improvvisamente preoccupati del loro futuro. L’aggregato scomposto che negli ultimi venti anni di politica italiana è stato soprattutto un mix tra il collegio di difesa del cavaliere e il consiglio d’amministrazione delle sue aziende, si trova ora a dover diventare - se mai ci riuscirà - un partito e non più una protesi del suo capo.

Operazione quanto mai difficile, perché le grandi e voraci mascelle mal si sposano con lo scarso peso intellettuale e l’ancor meno spessore istituzionale dei protagonisti. Non c’è praticamente nessuno nel Pdl che non si candidi alle primarie e non c’è nessuno che possa ragionevolmente pensare di vincerle. La caduta del cavaliere porta a terra anche il cavallo.

 

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