Politica
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Fabrizio Casari
A meno 373 metri da terra le cose si vedono in maniera diversa. Si respira in maniera diversa, si lavora in condizioni bestiali, si strappano aria, gesti e rabbia come nessuno, 373 metri sopra, può nemmeno immaginare. Le paure di chi sta sopra sono rappresentate dai seicento chili d’esplosivo accatastato nelle viscere, quelle di chi sta sotto riguardano invece l’indifferenza di chi sta sopra.
A meno 373 metri non ci si preoccupa nemmeno dello spread sul rendimento dei Titoli di Stato o dei superbonus ai manager delle banche, semmai si respira ancora peggio quando si sente che la patrimoniale va bene ovunque, in Europa e nel mondo, ma in Italia no.
Il Sulcis è un pezzo d’Italia. Ci sono i problemi enormi del settore minerario che si aggiungono a quelli cronici della Sardegna, vittima del mancato sviluppo industriale prima e dei servizi poi. All’incapacità cronica di una classe dirigente inetta che ha visto crescere il numero dei disoccupati e le aree di abbandono, offrendo la regione all’attenzione mediatica solo a causa dello scorazzare di miliardari volgari sui loro panfili, come fosse la Sardegna niente altro che la Costa Smeralda del cafonal.
Dall’occupazione dell’isola dell’Asinara effettuata dagli operai della Vynils al blocco dell’aereoporto di Elmas, dalla manifestazione dei lavoratori dell’Alcoa ai minatori della Carbosulcis, in Sardegna le forme di lotta sono, più che altrove, contenuto della lotta stessa. Il livello della disperazione di un territorio che non offre lavoro e che non disegna nemmeno bozze di futuro, non consente ordinati tavoli sindacali con volti sorridenti e sobri lunch in favore di telecamere. In ballo c’è il destino di diecimila persone, che rischiano di rimanere senza lavoro in un’area già depressa e con seri problemi ambientali.
E se Stefano Meletti, delegato sindacale, a 48 anni e con due figli, per attirare l’attenzione pensa di doversi tagliare i polsi, è perché nessuno - partiti, governo, imprenditori - ha mai ritenuto di dover dare risposte rapide e convincenti.
La politica, come si può immaginare, si trova in superficie ed è distratta da altre emergenze, tipo la polemica tra Grillo, Bersani e Benigni o la famigerata legge elettorale, dove non si riesce a trovare la soluzione adatta per fare in modo che chi c’è continuerà ad esserci e chi non c’è è bene che continui a rimanere fuori.
Il presidente della Repubblica in una nota si è detto “partecipe delle ansie” dei minatori e, al momento, le sue parole, benché autorevoli, rimbombano nel silenzio che arriva dai palazzi romani e anche da quelli della Regione Sardegna. Rinvii, silenzi, rimandi: ci sarebbe bisogno di urgenza e decisione sul futuro del carbone italiano, ma sarebbe come pretendere che, d’un tratto, le diverse caste che banchettano sui resti del nostro modello sociale ed economico trovassero ragione alle loro strapagate poltrone.
Il governo, in particolare, come già con l’Ilva e ancor di più con la Fiat, fa spallucce o quasi; non ha nessuna idea che non sia quella della progressiva dismissione di ogni settore produttivo del paese e se, per colmo di sfacciataggine, a Taranto accusa la magistratura di voler fare la politica industriale (perché, il governo ha una politica industriale?), nel Sulcis non profferisce verbo.
Eppure sono in molti a ritenere che il carbone possa rappresentare uno dei volani principali per la riconversione ambientale dell’isola. I minatori di Nuraxi Figus chiedono il finanziamento del progetto che prevede l’integrazione della miniera con la centrale di stoccaggio dell’anidride carbonica del sottosuolo. Servirebbero impegno, investimenti e rigore nella spesa, programmazione e cultura imprenditoriale per permettere che Nuraxi Figus rappresenti un’opportunità di crescita per tutta la regione.
Serve un miliardo e mezzo da investire in otto anni e il concorso dell’Enel, che deve ridurre i costi dell’erogazione dell’energia per le aziende della zona del Sulcis, altrimenti mai competitive anche per i costi del trasporto delle merci, ben superiori a quelli dei competitors di altre aree geografiche. Con un miliardo e mezzo d’investimenti verrebbe garantita la produzione senza rischi d’inquinamento e la produzione potrebbe quasi triplicare.
Si riuscirebbe a ridurre sensibilmente il costo dell’energia e ne trarrebbero vantaggio tutte le aziende oggi in crisi proprio per non poter sostenere i costi della stessa. Sarebbe sufficiente applicare la normativa utilizzata per il fotovoltaico e le altre energie rinnovabili, non c’è bisogno di sforzi immani o di ricorrere al genio italico.
Venerdì prossimo il governo dovrà prendere una decisione, ammesso che ne sia capace. In Sardegna i minatori non hanno più né speranze, né tempo, né pazienza. Sarà bene che Bersani lasci stare Grillo e Renzi e parli chiaro a Monti, che c’è il rischio che finga di non capire. Sarà il banco di prova per il governo Monti e i partiti che lo sorreggono, quale che sia l’entità delle stampelle.
Chi capirà bene saranno i minatori della Carbonsulcis. Non hanno studiato alla Bocconi e non parlano con i bullet-point, ma sanno esattamente cosa si tenta di dire quando si argomenta di “compatibilità della finanza pubblica e di competitività internazionale”. Per loro, come dovrebbe essere per tutti, conservare il lavoro significa continuare a vivere e a far crescere i loro figli e riconvertire fa rima con rinnovare e ripartire. Per ora, la cronaca racconta che mentre Stefano Meletti si tagliava, Monti era a colloquio con la Cancelliera Merkel. Nuraxi Figus: chissà come si pronuncerebbe in tedesco…
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Rosa Ana De Santis
La Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo, con giudizio ancora non definitivo espresso il 28 agosto, ha bocciato un intero articolo della legge 40 sulla fecondazione assistita. E forse ne ha compromesso il pilastro fondante, già ripetutamente colpito da altri ricorsi, come quello del 2010 del tribunale di Salerno. Questa volta il caso riguarda una coppia italiana fertile, ma portatrice di fibrosi cistica e del divieto loro imposto di effettuare la diagnosi pre-impianto sugli embrioni. Il governo italiano dovrà, tanto per cominciare, risarcire la coppia con 15 mila euro più le spese legali.
La forza di questa sonora bocciatura è nell’evidenza della contraddizione e dell’ incoerenza che questa leggina ha con il resto del sistema legislativo e nella violazione che essa produce al diritto del rispetto della propria vita personale e familiare. Le motivazioni in base alle quali, si vieta la diagnosi sugli embrioni non valgono, stando alla legge positiva, quando si arriva alla legge 194 e all’interruzione volontaria di gravidanza.
Poiché l’embrione è sempre lo stesso, anzi semmai è in uno stadio più evoluto quando si decide per l’aborto, è legittimo chiedersi quale interpretazione morale e normativa la legge italiana abbia della questione. Perché è l’univocità che distingue un codice di leggi dal menù del giorno.
Unica deroga al veto della diagnosi pre impianto, nella legge 40, è prevista quando l’uomo sia portatore di malattie sessualmente trasmissibili, come a voler certificare un canone di malattie giuste (le famosi croci della fede) e di altre (che guarda caso hanno a che fare con l’atto sessuale) più sconvenienti. Sembra un libro uscito dai roghi medievali e invece è la nostra legge.
La protagonista di questa storia arrivata alla Corte dei diritti dell’uomo è quella di una mamma che ha già una bambina affetta dalla malattia e che ha affrontato successivamente un aborto terapeutico, dopo esser rimasta incinta e aver scoperto che anche il secondo feto aveva ereditato la fibrosi cistica. Sono la scienza e la medicina che le hanno permesso di scoprire di essere portatrice come suo marito di questa sindrome genetica, ed è la scienza che le consentirebbe di difendere i suoi prossimi figli da una malattia purtroppo incurabile.
E’ la legge 40 però che le nega questo diritto, che le proibisce di usare la conoscenza acquisita e soprattutto, ipocritamente, che le consente di abortire feti post-amniocentesi piuttosto che selezionare (per salute e non per estetica) embrioni appena fecondati.
A difendere la legge 40 si schierano coloro che l’hanno spacciata per legge liberale e laica. La Binetti d’occasione biasima Strasburgo e si preoccupa dell’utopia, contaminata di spettri nazisti, della civiltà dei sani. Come se fosse un peccato e non un legittimo anelito e compito della ragione umana desiderare di utilizzare la scienza per non ammalarsi e per vivere meglio. Ma non è quello che fa ogni mamma per i propri figli e ogni persona?
C’è chi vede in questa sentenza la strada per ripensare totalmente una legge crudele e oscurantista, come la definisce Niki Vendola o l’on. Coccia, portavoce dei Centri di Fecondazione assistita in Italia. C’è chi, invece, come la deputata del Pdl Eugenia Roccella, si convince sempre di più di quanto la legge 40 sia ben fatta. “Più passa il tempo, più me ne convinco” ha replicato a Strasburgo.
Nessuno crede che non abbia capito la bacchettata dell’Europa. E’ che non c’è nemmeno l’ombra dell’incoerenza con la legge 194 e i suoi principi, per quanti hanno scritto la legge 40 sperando di cancellare quella sul diritto all’aborto. Il governo, con perfetto tempismo rispetto alle dichiarazioni della CEI contro Strasburgo, annuncia ricorso. Questa volta, a quanto pare, la via indicata dall’Europa, cui sempre i nostri professori guardano con pedissequo rispetto, non è il dogma vincente.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Rosa Ana De Santis
Il Viminale starebbe lavorando a una riorganizzazione complessiva del sistema delle scorte, nelle direzione di diminuire quelle assicurate a livelli di rischio effettivamente troppo bassi. Lo ha annunciato il Ministro Cancellieri, all’interno di un’anticipazione generale sui tagli necessitati dalla spending review che renderanno caldo l’imminente autunno. Ci sarebbero degli sprechi e, parallelamente a questi o forse causati da questi, condizioni critiche e insostenibili in cui versano tantissime pattuglie di scorta.
Autovetture vecchissime, a manutenzione ridotta, con carrozzeria cadente, inadatte a qualsiasi funzione di sicurezza. A dirlo sono i sindacati delle forze di polizia. Per non parlare del personale di polizia, carabinieri e guardia di finanza, dei loro stipendi e condizioni di lavoro, dei loro orari e di quanti sono sottratti alle forze dell’ordine per scortare l’ultimo onorevole di turno al ristorante o al mare, che non disturba nessuno, figuriamoci la criminalità organizzata.
La questione delle scorte ritorna alla ribalta anche sull’onda dei recenti gossip estivi. I poliziotti che seguono Gianfranco Fini nell’albergo di Orbetello e le cui stanze restano prenotate a spese dai contribuenti anche quando il Presidente torna a Roma. L’idea che la scorta sia una specie di corte personale è coerente con una precisa concezione spagnoleggiante del potere che in Italia è genetica e storica. Surreale pensare che il Presidente Cameron, a Londra, si rechi a lavoro con i mezzi pubblici o che negli Stati Uniti tutti i politici, ad eccezione del Presidente e del Vicepresidente, paghino con i propri soldi (e dati gli stipendi degli onorevoli italiani non dovrebbe essere un problema) la propria sicurezza.
Non sono, comunque, solo i politici l’unica categoria con questa privilegio erogato con scarsa selettività. Paghiamo bodyguard, per citare qualche esempio, al Direttore Belpietro (forse in nome del suo misterioso attentatore dall’identikit fumettistico), la paghiamo a Feltri, ad Emilio Fede, ma anche alla fin troppo esuberante Santanchè. Mentre era stata tolta a Biagi, poco prima che venisse ammazzato dalle nuove BR, mentre ogni anno un parroco di strada in guerra aperta con la camorra, Don Merola, deve lottare per vedersela confermata dopo aver subito attentati nel quartiere dove difende la legalità, tanto da dover dire messa con la scorta armata. Paghiamo autisti armati a tanti Direttori della Pubblica Amministrazione, il cui rischio di incolumità per funzioni pubbliche è di difficile intuizione.
La valutazione del rischio è il principio da cui ripartire per assegnare scorte a difesa dell’incolumità e in nome della sicurezza e non per lo status symbol che porta, il più delle volte, ad ostentare lampeggianti e bodyguard come indicatori pubblici della propria visibilità e del proprio potere.
Non può bastare la declamazione di accuse vaghe, il più delle volte per adescare il consenso popolare e i voti, per dichiararsi in pericolo e pretendere la scorta. Viene in mente la Santanchè e le sue giaculatorie contro il velo islamico. Una certa esposizione pubblica con i conseguenti rischi è intrinseca all’esercizio di determinate funzioni. Chi si assume la responsabilità di intraprendere una certa strada, che sia il giornalismo d’inchiesta, la popolarità dello spettacolo, la vita politica o la carriera giudiziaria, sa bene di non essere assimilabile alla vita dell’impiegato qualsiasi. Troppo facile, invece, la strada dei nuovi califfi e delle soubrette travestite da pensatrici che sanno solo insultare, offendere, vituperare chi si vuole dalle colonne di un giornale o da un’aula, da un microfono utilizzato come mazza da baseball, per poi chiedere protezione a spese della collettività per esigenze di visibilità e fama personale. A meno che non decidessimo di scortare qualsiasi cittadino si esponesse a comizi d’occasione, anche dentro l’autobus.
Diverso è il rischio di chi, come i magistrati in prima linea contro la mafia, o certi politici o tecnici di governo o giornalisti o cittadini che denunciano con precise accuse, nel merito delle proprie competenze e funzioni concretamente toccano interessi della malavita, stanano e denunciano la criminalità e difendono le Istituzioni e lo Stato mettendo a servizio il proprio lavoro con azioni precise e non con oratorie da comizio. E’ quello il caso in cui una scorta è doverosa e necessaria per difendere l’operato di chi offre un servizio allo Stato e alla collettività e solo quello il caso in cui la scorta è ben più che la difesa di una persona, piuttosto del suo operato e della sua funzione pubblica, in sfregio al personalismo vippettoso con cui spesso la si esige.
Quanti sono invece a caccia di popolarità a buon mercato, potrebbero finanziare con le proprie tasche lo stuolo dei bodyguard, lasciando le forze dell’ordine al servizio dei cittadini e facendo risparmiare un bel po’ di soldi alle casse dello Stato.
La promessa del Ministro Cancellieri, che ha già fatto clamore, scuoterà gli animi e chissà se non rimarrà più una promessa che altro. Che non sia la fotocopia dello strano meccanismo per cui le famose auto blu continuano ogni anno ad essere troppe e a dover essere tagliate. Si tratterebbe di un segnale importante anche in termini simbolici, ma è difficile nutrire fiducia nel potere politico italiano aggrappato ai privilegi e in questo governo tecnico che non ha dimostrato segnali di rottura con i politicanti di professione, tanto vituperati dalle cattedre e molto meno dagli scranni.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Rosa Ana De Santis
Immaginate un’antica libreria, di numerose ed eleganti stanze, stracolma di antichi manoscritti, tra cui l’opera omnia originale di Benedetto Croce e il pensiero dell’ “eretico” Bruno su pagine e pagine di fitti dialoghi filosofici. E pensate tutto questo stipato in una montagna di anonimi scatoloni, incartati con il nastro da pacchi e una bella scritta in fronte con pennarello nero, accatastati in un anonimo magazzino di Casoria. A morire di muffa e di dimenticanza come gli oggetti in disuso che si abbandonano in cantina o nel garage di casa.
E’ questa la fine che attende l’eccellenza di cultura filosofica e storica, custodita finora all’Istituto di Studi Filosofici di Napoli, il più importante d’Italia, patrimonio dell’Unesco, fondato nel 1975 da Giuseppe Marotta, che ora viene sfrattato insieme ai trecentomila volumi della libreria che ha mantenuto in vita ad ogni costo, arrivando a vendere tutti i propri beni.
Il taglio deciso dal governo questa volta è del 100% con diniego ad alcuna proroga di legge, contrariamente a quelli del 10-12% subiti da altri centri, e a queste condizioni l’Istituto non potrà sopravvivere. Ricercatori, borsisti, giovani studenti non avranno più accesso a questi testi, questo il danno più grande che amareggia l’anziano studioso Marotta che, in un’intervista rilasciata a fanpage.it, dice: “A perdere è tutta la cultura del Mezzogiorno e non solo”.
La memoria storica e la ricostruzione del pensiero non sono più di moda nel tempo della crisi e il fondatore dell’Istituto accusa senza mezzi termini il governo e quell’intelligentia partenopea che, costretta ad allearsi con gli interessi più biechi di certo blocco sociale infestato di malavita, non ha interesse alcuno a difendere un luogo di studio e di pensiero come questo. “Napoli - conclude Marotta - ha paura dell’Istituto”.
Tra i tanti, era stato il filosofo tedesco Gadamer ad esprimere, con fortissimo entusiasmo, l’importanza unica dell’Istituto di Napoli, dove aveva ritrovato quella vita culturale che non c’era, come non c’è più, nel mondo universitario impaludato. Nel tempo della crisi, della disoccupazione e della religione dello spread, suona quasi come un peccato di lusso e di vanità battersi per difendere i libri e la filosofia. Non danno posti di lavoro, non difendono dagli attacchi degli speculatori, non “servono” in termini finanziari.
La filosofia ci aiuterebbe a capire meglio cosa significa “servire”. A chi e a che cosa. Scopriremmo allora che la filosofia serve alla civiltà. A misurare il valore, la grandezza e la miseria umana. A cogliere il senso della storia. Da ogni uomo fino a una nazione intera. A studiare le idee, che hanno mobilitato popoli, governi, scatenato guerre e innalzato bandiere. La filosofia serve all’insopprimibile istinto individuale del pensare. Ad insegnare la critica come esercizio di ragione e di autonomia.
Ma certamente si può pensare di vivere anche di solo pane, di cellulare, di tv, di fila il sabato a risparmiare qualche centesimo di benzina convincendosi che la libertà e il pensiero siano un lusso per la democrazia dei tempi moderni. Fino a non accorgersi che qualsiasi annuncio mediatico, qualsiasi abuso, qualsiasi spot, diventa reale o tollerato solo perché nessuno, dal singolo alla collettività, si prende più la briga di smascherare le menzogne. O perché nessuno sa più farlo. La filosofia e il suo studio serve anche a questo.
L’economia sana di un paese troverebbe il modo di assegnare valore alle proprie eccellenze. E gli economisti che hanno il compito di salvare l’Italia dalla crisi partirebbero da quelle per risollevare la testa dell’Italia in Europa. Se fosse questo il reale scopo del loro mandato politico.
E’ certo che questo trasloco scellerato non sarebbe mai avvenuto in Francia o in Germania. Lì dove i nostri ricercatori e studiosi di filosofia sono accolti, sostenuti e apprezzati più di quanto accada - e ci vuole davvero poco - in Italia. E l’Europa, tanto amata dai professori al governo, sta a guardare anche questa mossa.
Non s’inganni chi crede che la crisi abbia costretto a stabilire una gerarchia obbligata per l’investimento dei fondi nella ricerca e che la scienza, la medicina e l’ambiente siano stati garantiti su tutto. Perché la fisiologica emorragia di cervelli e l’ammontare complessivo dei tagli, pari in tre anni a 210 milioni di euro, confermano proprio l’accusa che viene da Napoli. Che un paese che non sa riconoscere le proprie ricchezze e non le difende, un paese che lascia marcire i suoi libri come i siti archeologici che tutto il mondo viene a visitare in pellegrinaggio, diventerà inesorabilmente povero.
E basterebbe uno studente di filosofia o , se si preferisce, di economia al primo anno, a dimostrare che si tratterà di ben altro guaio che non di povertà di spirito.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Carlo Musilli
Fra Italia e Svizzera si parla di fisco. L’obiettivo è trovare un accordo per consentire a Roma di tassare i soldi nostrani depositati nelle banche elvetiche. Dopo la patrimoniale, è questo il prelievo su cui finora il governo Monti si è dimostrato più reticente. Eppure, nelle ultime settimane, i tecnici dei due Paesi hanno spinto sull’acceleratore della trattativa. I tempi sono decisivi: bisogna fare presto. Più mesi scorrono sul calendario, meno difficoltà avranno i furbetti a far scivolare le loro fortune verso nuovi e ancor meno rischiosi paradisi fiscali.
Per questa ragione, nonostante il caldo estivo, gli incontri informali e segretissimi fra sherpa di varia natura si sono fatti sempre più frequenti. Il 27 e 28 agosto la commissione Esteri del Parlamento svizzero deciderà il mandato da affidare all’Esecutivo per la trattativa. Si tratta di stabilire quali su quali punti negoziare e cosa esigere come contropartita. L’intesa dovrebbe arrivare a novembre, o al massimo all’inizio dell’anno prossimo.
Con ogni probabilità, l’accordo avrà la forma di un patto fra governi che i rispettivi parlamenti saranno poi chiamati a ratificare. E’ quindi verosimile che alla fine il Tesoro italiano non sarà in grado di incassare nemmeno un euro dalla nuova tassa prima del 2014.
Ma di quanti soldi stiamo parlando? Si stima che i capitali esportati ammontino a circa 160 miliardi di euro. Un calcolo preciso è tuttavia complicatissimo, considerando che i viaggetti oltreconfine con le valige piene di soldi sono una pratica vecchia come i sesterzi e ancora oggi non sono affatto passati di moda.
Quanto allo schema della tassazione da applicare, fortunatamente l’Italia non fa da apripista in questo campo. I modelli da seguire sono più d’uno. Sotto il pressing della comunità internazionale, la Svizzera ha già concluso accordi dello stesso tipo con Germania, Austria e Gran Bretagna. In tutti questi casi è previsto un prelievo di almeno il 25% come sanatoria per il passato. Ogni anno, inoltre, gli interessi maturati vengono colpiti da una tassa che varia a seconda della quantità di soldi stipati nel conto corrente e della longevità del conto stesso.
Sono le stesse banche elvetiche a fare la parte degli esattori, smistando poi i soldi dovuti ai vari governi. In cambio gli istituti di credito sono riusciti a preservare l’anonimato dei propri clienti. Questa è una prerogativa per loro assolutamente irrinunciabile: il rischio è di perdere ogni appeal agli occhi dei facoltosi risparmiatori esteri. Gli unici che finora sono riusciti a mettere in discussione perfino questo punto sono gli Stati Uniti.
In piena campagna elettorale, l’amministrazione Obama ha minacciato di sanzionare le banche svizzere se non avessero iniziato a collaborare in termini di scambio d’informazioni. Ha funzionato. Sulla tassazione c’è ancora da discutere, ma gli istituti elvetici hanno garantito che renderanno noti gli estremi dei propri clienti americani, a patto che siano loro stessi a consentirlo. Ma per i più timidi la vita non sarà semplice, visto che saranno puniti dagli Usa con un’ammenda pari al 30% di tutti i pagamenti in partenza dagli States.
E’ evidente che l’Italia non può avere lo stesso peso contrattuale di Washington. Quello riservato al nostro Paese sarà quindi un trattamento molto meno riguardoso. In cambio del via libera alla tassazione, ad esempio, Pierre Rusconi - membro del partito conservatore svizzero Udc - chiede che le società e gli istituti elvetici (“vittime di assurde discriminazioni”, sic!) vengano depennati dalle black list italiane, perché “non si può sospettare che dietro ogni attività lecita ci sia un tentativo di riciclaggio”. Chissà come nascono certi sospetti.