di Rosa Ana De Santis

E’ iniziata ufficialmente a Verona l’avventura di Matteo Renzi, il sindaco di Firenze, nell’agone delle primarie, in aperta sfida a Bersani. La scenografia del debutto riassume in un colpo d’occhio i temi cari al giovane della politica. “Adesso!” è il motto perentorio che battezza la discesa in campo quasi con sapore futuristico-marinettiano e non compare da alcuna parte il nome del Pd.

Nessuna dimenticanza. Renzi, questo è noto a chi segue il sindaco di Firenze da un po’, gioca la sua partita per la propria leadership e non per il progetto politico del proprio partito che ama piuttosto decostruire o, suo malgrado, recuperare come ultimo approdo in caso di sconfitta, quando essere fuori dal simbolo significherebbe solo scomparire e non più essere alternativo.

Il manifesto programmatico di Renzi riprende i più popolari qualunquismi sulla classe dirigente del paese e bussa dritto al cuore dell’italiano medio e del suo distacco emotivo, prima ancora che ragionato, dalla politica del Palazzo. Renzi sarebbe Grillo se non piacesse così tanto alla destra Pdl e ai fan del Cavaliere. Sarebbe Grillo se non fosse uno che conosce bene il valore e la forza del partito (che gli ha consentito di essere eletto sindaco a Firenze) e se non la utilizzasse, come invece fa, con strategia per essere ora un leader che crede solo nella religione dell’efficienza e della gioventù, ora un nuovo Pd contro il Pd.

“Futuro, Europa e merito” è la trinità dei renziani e la promessa del sindaco è di cambiare l’Italia, rottamando tutto il passato, in primis quello del centro sinistra. Perché va ospite da Berlusconi ad Arcore, inneggia a Marchionne e propone l’agenda Monti. Insomma di sinistra niente e di centrosinistra quasi niente. Appare dunque conseguente che lanci strali solo a sinistra, che su dieci frasette fatte nove siano contro Bersani e una contro il PDL. Al partito di Berlusconi, infatti, vuole sottrarre i voti, mentre a quello di Bersani la storia. E quindi basta con gli stessi dirigenti di anni e anni, basta con i dogmi come quello dell’articolo 18 che non è poi la priorità per restituire occupazione ai giovani. Basta con l’intervento statale in economia e la politica degli ammortizzatori sociali. Basta infine con il dibattito inutile tra cattolici e laici. Lui è cristiano e cattolico, ma in politica agisce con la Costituzione, quando essa va bene ai Talebani d’Oltretevere.

Ma cosa tutto questo significa in chiave di proposte Renzi non lo esplicita, cosa che fa su ogni altro argomento dove non si prevedono idee a supporto delle battutine televisive. Se è d’accordo sul testamento biologico, sui DICO, sulle unioni omosessuali oppure come pensa di risolvere la crisi del lavoro e la disoccupazione, tutto questo il sindaco non lo dice o non lo sa. E’ qui che il vuoto politico di Renzi viene abilmente coperto dalla poetica della speranza che tutto è tranne che realismo politico dell’efficienza. Quella dei giovani contro gli anziani, quella dei sindaci contro i deputati, quella contro i partiti per valorizzare le individualità e le storie.

Ma questo non ricorda forse il più vecchio clichè del populismo? Forse anche peggio quando l’appello raggiunge direttamente i delusi di destra. Gli elettori di Berlusconi, i nostalgici del sogno Forza Italia. Renzi vuole vincere a tutti i costi e per farlo pesca con disinvoltura dall’altra parte. E’ in questo volo pindarico che il giovane aspirante leader tradisce quanto la sua ambizione personale sia ben più alta della sua statura politica. Almeno Berlusconi, che si sentiva dio, ci lasciava la certezza del suo odio-anticomunista, qui siamo davanti ad un nano che si sente ganzo e che non ci lascia nemmeno il ricordo di quello che dice.

E’ brillante però, questo bisogna riconoscerlo, l’eloquio del giovane sindaco. Non dice niente, ma è bravissimo a dirlo. E’fresco, accattivante, è il parlato in maniche di camicia, è televisivo. E’ la migliore pubblicità che il Pd sia riuscito a produrre da quando è nato. Così perfetta da aver travasato un po’ di Pdl dentro il Pd e da aver portato il nemico in casa.

Se un progetto politico è valido per tutte le stagioni e per tutte le posizioni politiche, semplicemente non è uno né alcuno. E Renzi usa, come ha deciso di fare, tutta la benzina per essere il leader di tutti, anche perché ha ben chiaro che in caso di sconfitta dovrà trovarsi altre strade, se non vorrà diventare il primo boccone del partito che ha provato a cannibalizzare. Il giovanilismo come inno alla speranza non porterà a casa i cervelli in fuga, non salverà l’Ilva di Taranto o i minatori sardi. Non è il tempo di rottamare, ma di costruire. E qui servono i maestri, non gli alunni furbetti come il giovane Matteo.

di Rosa Ana De Santis

Annunciato in una battuta potrebbe suonare come il risarcimento tanto atteso per i migliaia di professori precari, umiliati da anni di supplenze ed è così che il governo promette con il concorsone, di cui finalmente si conoscono i requisiti, di azzerare il precariato delle cattedre. Il bando uscirà il prossimo 24 settembre e la preselezione prevede quiz e logica, come vuole la moda del momento.

Della didattica, della modalità di insegnamento su cui tanto si insisteva nelle SSIS post lauream non si ha più traccia. Si tratta solo di un lontano ricordo e di perdita di anni e soldi per quanti l’hanno dovuta obbligatoriamente frequentare per entrare in graduatoria. Per non parlare dell’esperienza maturata in aula che viene con un colpo di mano semplicemente nullificata.

I precari? Spariranno perché le graduatorie saranno cestinate  e tutti, improvvisamente, non importa l’età e l’anzianità diventeranno uguali. Altro che merito e spirito liberali, sembra piuttosto un livellamento bolscevico o un artificio per propagandare l’efficienza di chi riduce i precari certamente e sulla carta, perché li trasforma in disoccupati.

Per il Ministero saranno 160 mila i posti concorrenti, per i sindacati molti di più. I requisiti di ammissione saranno quelli previsti nei concorsi degli anni ‘90: laureati in scienze della formazione primaria o diploma magistrale per l'infanzia. Per le medie e le superiori, oltre agli abilitati anche i laureati entro l'anno accademico 2001/02 o 2002/03 (lauree quinquennali) o 2003/04 (lauree sessennali). L’esperienza maturata in anni di lezioni non ha più alcun valore. Sarebbe stato forse più equo, per risolvere il dramma del precariato, metter mano alle graduatorie ed occuparsi dopo, ad esaurimento delle stesse, d’indire il concorsone. Certo, non è veloce, non attribuirebbe meriti di efficienza a buon mercato; sarebbe soltanto giusto.

Bizzarro inoltre che i test non verteranno sulla materia insegnata, ma su qualcosa di molto simile alle tre “I” berlusconiane. La prova orale sarà una simulazione didattica e magari c’è da aspettarsi che una persona giovane, fresca e brillante, superi una persona più anziana che da anni gira per la provincia per le questua delle ore di supplenza.

La situazione generale della scuola italiana, dalle infrastrutture alla qualità delle didattica, patisce un progressivo impoverimento. Difficile imputare la causa della decadenza ad un corpo docenti umiliato su tutti i fronti possibili. Quando bocciare peraltro significa trovarsi classi accorpate e meno cattedre a disposizione la voglia di occuparsi della preparazione degli studenti va a farsi benedire quando si percepiscono forse 1.000 euro al mese e zero garanzie. Ricorda un po’ il bivio dell’assurdo degli operai dell’Ilva: meglio il tumore o il lavoro?

I sindacati non sono stati nemmeno interpellati, manda a dire il Gilda a Viale Trastevere e il bando che risanerà il dramma della scuola sembra nato un po’ troppo in fretta. Peraltro, pare che i posti per i 12 mila vincitori saranno spalmati su tre anni. Sarà un altro modo per diminuire i precari inventando la categoria dei “non ancora occupati”.

Per ora quindi di certo ci sono i grandi costi che lo Stato affronterà per la scenografia del concorso e del merito, che diventerà forse un appuntamento periodico: nessuna capitalizzazione dell’esperienza e del merito maturato sul campo negli anni e una matematica simpatica che propaganderà la fine del precariato nella scuola. Perché sarà iniziata l’era della disoccupazione senza speranza. Fino al prossimo concorso, dove tutti ripartiranno ai posti di partenza. Tutti uguali, come vuole il liberalismo della propaganda.





di Fabrizio Casari

A meno 373 metri da terra le cose si vedono in maniera diversa. Si respira in maniera diversa, si lavora in condizioni bestiali, si strappano aria, gesti e rabbia come nessuno, 373 metri sopra, può nemmeno immaginare. Le paure di chi sta sopra sono rappresentate dai seicento chili d’esplosivo accatastato nelle viscere, quelle di chi sta sotto riguardano invece l’indifferenza di chi sta sopra.

A meno 373 metri non ci si preoccupa nemmeno dello spread sul rendimento dei Titoli di Stato o dei superbonus ai manager delle banche, semmai si respira ancora peggio quando si sente che la patrimoniale va bene ovunque, in Europa e nel mondo, ma in Italia no.

Il Sulcis è un pezzo d’Italia. Ci sono i problemi enormi del settore minerario che si aggiungono a quelli cronici della Sardegna, vittima del mancato sviluppo industriale prima e dei servizi poi. All’incapacità cronica di una classe dirigente inetta che ha visto crescere il numero dei disoccupati e le aree di abbandono, offrendo la regione all’attenzione mediatica solo a causa dello scorazzare di miliardari volgari sui loro panfili, come fosse la Sardegna niente altro che la Costa Smeralda del cafonal.

Dall’occupazione dell’isola dell’Asinara effettuata dagli operai della Vynils al blocco dell’aereoporto di Elmas, dalla manifestazione dei lavoratori dell’Alcoa ai minatori della Carbosulcis, in Sardegna le forme di lotta sono, più che altrove, contenuto della lotta stessa. Il livello della disperazione di un territorio che non offre lavoro e che non disegna nemmeno bozze di futuro, non consente ordinati tavoli sindacali con volti sorridenti e sobri lunch in favore di telecamere. In ballo c’è il destino di diecimila persone, che rischiano di rimanere senza lavoro in un’area già depressa e con seri problemi ambientali.

E se Stefano Meletti, delegato sindacale, a 48 anni e con due figli, per attirare l’attenzione pensa di doversi tagliare i polsi, è perché nessuno - partiti, governo, imprenditori - ha mai ritenuto di dover dare risposte rapide e convincenti.

La politica, come si può immaginare, si trova in superficie ed è distratta da altre emergenze, tipo la polemica tra Grillo, Bersani e Benigni o la famigerata legge elettorale, dove non si riesce a trovare la soluzione adatta per fare in modo che chi c’è continuerà ad esserci e chi non c’è è bene che continui a rimanere fuori.

Il presidente della Repubblica in una nota si è detto “partecipe delle ansie” dei minatori e, al momento, le sue parole, benché autorevoli, rimbombano nel silenzio che arriva dai palazzi romani e anche da quelli della Regione Sardegna. Rinvii, silenzi, rimandi: ci sarebbe bisogno di urgenza e decisione sul futuro del carbone italiano, ma sarebbe come pretendere che, d’un tratto, le diverse caste che banchettano sui resti del nostro modello sociale ed economico trovassero ragione alle loro strapagate poltrone.

Il governo, in particolare, come già con l’Ilva e ancor di più con la Fiat, fa spallucce o quasi; non ha nessuna idea che non sia quella della progressiva dismissione di ogni settore produttivo del paese e se, per colmo di sfacciataggine, a Taranto accusa la magistratura di voler fare la politica industriale (perché, il governo ha una politica industriale?), nel Sulcis non profferisce verbo.

Eppure sono in molti a ritenere che il carbone possa rappresentare uno dei volani principali per la riconversione ambientale dell’isola. I minatori di Nuraxi Figus chiedono il finanziamento del progetto che prevede l’integrazione della miniera con la centrale di stoccaggio dell’anidride carbonica del sottosuolo. Servirebbero impegno, investimenti e rigore nella spesa, programmazione e cultura imprenditoriale per permettere che Nuraxi Figus rappresenti un’opportunità di crescita per tutta la regione.

Serve un miliardo e mezzo da investire in otto anni e il concorso dell’Enel, che deve ridurre i costi dell’erogazione dell’energia per le aziende della zona del Sulcis, altrimenti mai competitive anche per i costi del trasporto delle merci, ben superiori a quelli dei competitors di altre aree geografiche. Con un miliardo e mezzo d’investimenti verrebbe garantita la produzione senza rischi d’inquinamento e la produzione potrebbe quasi triplicare.

Si riuscirebbe a ridurre sensibilmente il costo dell’energia e ne trarrebbero vantaggio tutte le aziende oggi in crisi proprio per non poter sostenere i costi della stessa. Sarebbe sufficiente applicare la normativa utilizzata per il fotovoltaico e le altre energie rinnovabili, non c’è bisogno di sforzi immani o di ricorrere al genio italico.

Venerdì prossimo il governo dovrà prendere una decisione, ammesso che ne sia capace. In Sardegna i minatori non hanno più né speranze, né tempo, né pazienza. Sarà bene che Bersani lasci stare Grillo e Renzi e parli chiaro a Monti, che c’è il rischio che finga di non capire. Sarà il banco di prova per il governo Monti e i partiti che lo sorreggono, quale che sia l’entità delle stampelle.

Chi capirà bene saranno i minatori della Carbonsulcis. Non hanno studiato alla Bocconi e non parlano con i bullet-point, ma sanno esattamente cosa si tenta di dire quando si argomenta di “compatibilità della finanza pubblica e di competitività internazionale”. Per loro, come dovrebbe essere per tutti, conservare il lavoro significa continuare a vivere e a far crescere i loro figli e riconvertire fa rima con rinnovare e ripartire. Per ora, la cronaca racconta che mentre Stefano Meletti si tagliava, Monti era a colloquio con la Cancelliera Merkel. Nuraxi Figus: chissà come si pronuncerebbe in tedesco…

di Rosa Ana De Santis

La Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo, con giudizio ancora non definitivo espresso il 28 agosto, ha bocciato un intero articolo della legge 40 sulla fecondazione assistita. E forse ne ha compromesso il pilastro fondante, già ripetutamente colpito da altri ricorsi, come quello del 2010 del tribunale di Salerno. Questa volta il caso riguarda una coppia italiana fertile, ma portatrice di fibrosi cistica e del divieto loro imposto di effettuare la diagnosi pre-impianto sugli embrioni. Il governo italiano dovrà, tanto per cominciare, risarcire la coppia con 15 mila euro più le spese legali.

La forza di questa sonora bocciatura è nell’evidenza della contraddizione e dell’ incoerenza che questa leggina ha con il resto del sistema legislativo e nella violazione che essa produce al diritto del rispetto della propria vita personale e familiare. Le motivazioni in base alle quali, si vieta la diagnosi sugli embrioni non valgono, stando alla legge positiva, quando si arriva alla legge 194 e all’interruzione volontaria di gravidanza.

Poiché l’embrione è sempre lo stesso, anzi semmai è in uno stadio più evoluto quando si decide per l’aborto, è legittimo chiedersi quale interpretazione morale e normativa la legge italiana abbia della questione. Perché è l’univocità che distingue un codice di leggi dal menù del giorno.

Unica deroga al veto della diagnosi pre impianto,  nella legge 40, è prevista quando l’uomo sia portatore di malattie sessualmente trasmissibili, come a voler certificare un canone di malattie giuste (le famosi croci della fede) e di altre (che guarda caso hanno a che fare con l’atto sessuale) più sconvenienti. Sembra un libro uscito dai roghi medievali e invece è la nostra legge.

La protagonista di questa storia arrivata alla Corte dei diritti dell’uomo è quella di una mamma che ha già una bambina affetta dalla malattia e che ha affrontato successivamente un aborto terapeutico, dopo esser rimasta incinta e aver scoperto che anche il secondo feto aveva ereditato la fibrosi cistica. Sono la scienza e la medicina che le hanno permesso di scoprire di essere portatrice come suo marito di questa sindrome genetica, ed è la scienza che le consentirebbe di difendere i suoi prossimi figli da una malattia purtroppo incurabile.

E’ la legge 40 però che le nega questo diritto, che le proibisce di usare la conoscenza acquisita e soprattutto, ipocritamente, che le consente di abortire feti post-amniocentesi piuttosto che selezionare (per salute e non per estetica) embrioni appena fecondati.

A difendere la legge 40 si schierano coloro che l’hanno spacciata per legge liberale e laica. La Binetti d’occasione biasima Strasburgo e si preoccupa dell’utopia, contaminata di spettri nazisti, della civiltà dei sani. Come se fosse un peccato e non un legittimo anelito e compito della ragione umana desiderare di utilizzare la scienza per non ammalarsi e per vivere meglio. Ma non è quello che fa ogni mamma per i propri figli e ogni persona?

C’è chi vede in questa sentenza la strada per ripensare totalmente una legge crudele e oscurantista, come la definisce Niki Vendola o l’on. Coccia, portavoce dei Centri di Fecondazione assistita in Italia. C’è chi, invece, come la deputata del Pdl Eugenia Roccella, si convince sempre di più di quanto la legge 40 sia ben fatta. “Più passa il tempo, più me ne convinco” ha replicato a Strasburgo.

Nessuno crede che non abbia capito la bacchettata dell’Europa. E’ che non c’è nemmeno l’ombra dell’incoerenza con la legge 194 e i suoi principi, per quanti hanno scritto la legge 40 sperando di cancellare quella sul diritto all’aborto. Il governo, con perfetto tempismo rispetto alle dichiarazioni della CEI contro Strasburgo, annuncia ricorso. Questa volta, a quanto pare, la via indicata dall’Europa, cui sempre i nostri professori guardano con pedissequo rispetto, non è il dogma vincente.

 

di Rosa Ana De Santis

Il Viminale starebbe lavorando a una riorganizzazione complessiva del sistema delle scorte, nelle direzione di diminuire quelle assicurate a livelli di rischio effettivamente troppo bassi. Lo ha annunciato il Ministro Cancellieri, all’interno di un’anticipazione generale sui tagli necessitati dalla spending review che renderanno caldo l’imminente autunno. Ci sarebbero degli sprechi e, parallelamente a questi o forse causati da questi, condizioni critiche e insostenibili in cui versano tantissime pattuglie di scorta.

Autovetture vecchissime, a manutenzione ridotta, con carrozzeria cadente, inadatte a qualsiasi funzione di sicurezza. A dirlo sono i sindacati delle forze di polizia. Per non parlare del personale di polizia, carabinieri e guardia di finanza, dei loro stipendi e condizioni di lavoro, dei loro orari e di quanti sono sottratti alle forze dell’ordine per scortare l’ultimo onorevole di turno al ristorante o al mare, che non disturba nessuno, figuriamoci la criminalità organizzata.

La questione delle scorte ritorna alla ribalta anche sull’onda dei recenti gossip estivi. I poliziotti che seguono Gianfranco Fini nell’albergo di Orbetello e le cui stanze restano prenotate  a spese dai contribuenti anche quando il Presidente torna a Roma. L’idea che la scorta sia una specie di corte personale è coerente con una precisa concezione spagnoleggiante del potere che in Italia è genetica e storica. Surreale pensare che il Presidente Cameron, a Londra,  si rechi a lavoro con i mezzi pubblici o che negli Stati Uniti tutti i politici, ad eccezione del Presidente e del Vicepresidente, paghino con i propri soldi (e dati gli stipendi degli onorevoli italiani non dovrebbe essere un problema) la propria sicurezza.

Non sono, comunque, solo i politici l’unica categoria con questa privilegio erogato con scarsa selettività. Paghiamo bodyguard, per citare qualche esempio, al Direttore Belpietro (forse in nome del suo misterioso attentatore dall’identikit fumettistico), la paghiamo a Feltri, ad Emilio Fede, ma anche alla fin troppo esuberante Santanchè. Mentre era stata tolta a Biagi, poco prima che venisse ammazzato dalle nuove BR, mentre ogni anno un parroco di strada in guerra aperta con la camorra, Don Merola, deve lottare per vedersela confermata dopo aver subito attentati nel quartiere dove difende la legalità, tanto da dover dire messa con la scorta armata. Paghiamo autisti armati a tanti Direttori della Pubblica Amministrazione, il cui rischio di incolumità per funzioni pubbliche è di difficile intuizione.

La valutazione del rischio è il principio da cui ripartire per assegnare scorte a difesa dell’incolumità e in nome della sicurezza e non per lo status symbol che porta, il più delle volte,  ad ostentare lampeggianti e bodyguard come indicatori pubblici della propria visibilità e del proprio potere.

Non può bastare la declamazione di accuse vaghe, il più delle volte per adescare il consenso popolare e i voti, per dichiararsi in pericolo e pretendere la scorta. Viene in mente la Santanchè e le sue giaculatorie contro il velo islamico. Una certa esposizione pubblica con i conseguenti rischi è intrinseca all’esercizio di determinate funzioni. Chi si assume la responsabilità di intraprendere una certa strada, che sia il giornalismo d’inchiesta, la popolarità dello spettacolo, la vita politica o la carriera giudiziaria, sa bene di non essere assimilabile alla vita dell’impiegato qualsiasi. Troppo facile, invece, la strada dei nuovi califfi e delle soubrette travestite da pensatrici che sanno solo insultare, offendere, vituperare chi si vuole dalle colonne di un giornale o da un’aula, da un microfono utilizzato come mazza da baseball, per poi chiedere protezione a spese della collettività per esigenze di visibilità e fama personale. A meno che non decidessimo di scortare qualsiasi cittadino si esponesse a comizi d’occasione, anche dentro l’autobus.

Diverso è il rischio di chi, come i magistrati in prima linea contro la mafia, o certi politici o tecnici di governo o giornalisti o cittadini che denunciano con precise accuse, nel merito delle proprie competenze e funzioni concretamente toccano interessi della malavita, stanano e denunciano la criminalità e difendono le Istituzioni e lo Stato mettendo a servizio il proprio lavoro con azioni precise e non con oratorie da comizio. E’ quello il caso in cui una scorta è doverosa e necessaria per difendere l’operato di chi offre un servizio allo Stato e alla collettività e solo quello il caso in cui la scorta è ben più che la difesa di una persona, piuttosto del suo operato e della sua funzione pubblica,  in sfregio al personalismo vippettoso con cui spesso la si esige.

Quanti sono invece a caccia di popolarità a buon mercato, potrebbero finanziare con le proprie tasche lo stuolo dei bodyguard, lasciando le forze dell’ordine al servizio dei cittadini e facendo risparmiare un bel po’ di soldi alle casse dello Stato.

La promessa del Ministro Cancellieri, che ha già fatto clamore, scuoterà gli animi e chissà se non rimarrà più una promessa che altro. Che non sia la fotocopia dello strano meccanismo per cui le famose auto blu continuano ogni anno ad essere troppe e a dover essere tagliate. Si tratterebbe di un segnale importante anche in termini simbolici, ma è difficile nutrire fiducia nel potere politico italiano aggrappato ai privilegi e in questo governo tecnico che non ha dimostrato segnali di rottura con i politicanti di professione, tanto vituperati dalle cattedre e molto meno dagli scranni. 




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