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di Rosa Ana De Santis
L’orizzonte delle elezioni ha scatenato nel centro-sinistra una bizzarra e fumosa gara alle alleanze più incredibili e alle proposte che avessero il miglior gusto di novità. La strategia emergente e vincente sembra essere quella del territorio e delle amministrazioni locali. Un modo per riempire il vuoto di contenuto e di partecipazione che l’elettorato del centro-sinistra patisce da troppo tempo e che solo l’amministrazione diretta del territorio sembra poter arginare. Una specie di spinta democratica dal basso che, se pur avvincente negli slogan e nell’immagine, sembra soffrire troppo sul piano dei contenuti e delle linee programmatiche, che in alto e sul lungo periodo devono guardare per forza.
I protagonisti di questa seconda primavera degli amministratori locali sono tanti: Matteo Renzi, Piero Fassino, Luigi De Magistris, Giuliano Pisapaia, Michele Emiliano, Massimo Zedda, Leoluca Orlando. Movimenti popolari, l’onda arancione di De Magistris, la spinta all’innovazione di Renzi rappresenterebbero il motore principale del nuovo assetto del Centro-Sinistra. Un po’ ingenuo pensare che questa apertura al civismo e ai modelli virtuosi dell’amministrazione locale sia la strada maestra per costruire una solida alleanza a monte, tra il Pd e Sel tanto per partire dal dibattito più attuale. Al momento sembra essere solo una mossa ben piazzata in caso di una nuova e precisa legge elettorale e un errore strategico nel voler ridurre la politica nazionale alla sovrapposizione con quella locale che per natura e competenze è altra storia.
Ci pensa il sindaco di Genova, Marco Doria, in un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica, a turbare l’idillio romantico di questa ricetta dei sindaci. Se è vero che sono numerose le figure locali che potrebbero avere un impatto forte e vincente nel panorama nazionale, è vero anche che non si può partire da quelle per costruire le larghe intese e le linee che dovrebbero cementare il centro-sinistra, assegnargli una precisa identità e attribuirgli quel carattere di unità e omogeneità finora disatteso in quasi tutti i più importanti appuntamenti di mandato elettorale.
La società civile deve essere conquistata con i programmi, con le posizioni chiare e decise sulle questioni fondamentali che attraversano il paese, con la definizione delle linee e delle posizioni. Con o contro Monti, tanto per non eludere la magna carta della politica nazionale del post- Berlusconi. Le liste e i nomi, per dirla con una sintesi e una battuta, non possono supplire i programmi e i contenuti.
Anche se diverse realtà locali vivono già il governo di alleanze tra Pd, Sel e Udc, come ricorda il sindaco di Torino Fassino quasi a voler battezzare un metodo per il governo nazionale, l’esperienza insegna che le intese sulle questioni tecniche che spesso intervengono nell’amministrazione locale e che prescindono dal colore politico, non reggono ai vertici. Quando i Casini, i Bersani e i Vendola non hanno posizioni convergenti sul lavoro, sui diritti civili, sul governo dei tecnici e sul sistema fiscale le divergenze investono problematiche più ampie dell’amministrazione di un comune, per grande che sia.
Qualcosa che va un po’ oltre il governo di una città e che tocca le linee di un pensiero e di una cultura politica. E’ questo appuntamento che il centro sinistra non può mancare, pena ritrovarsi un arcinoto mosaico di colori e di nomi prontissimo a sfornare idee fresche, senza avere una pallida idea di sé.
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di Mariavittoria Orsolato
La snaturatissima alleanza elettorale con l’Udc di Casini è stata scongiurata. Alle prossime politiche i cattolici correranno in solitaria e solo in un secondo momento, a Camere riformate, agiranno di concerto con il partito di Bersani che, come più volte annunciato, non ha la minima intenzione di opporsi alla linea rigorista dettata dal governo Monti. Ma in questa corsa alle urne, che ormai ha i toni e i termini del calciomercato, il Pd cerca con foga dei sodali in grado di alzare l’asticella delle preferenze, perennemente sotto il 30%. Una ricerca in chiave anacronistica, che prova a raggruppare i partiti d’opposizione al fu berlusconismo e non tiene conto del fatto che l’elettorato ha già voltato pagina e pensa soprattutto a come affrontare la mannaia dell’austerità imposta dal governo “tecnico”.
Stupisce perciò - ma, a pensarci bene, non poi così tanto - che un campione della sinistra come Vendola abbia ceduto così in fretta e con tanta arrendevolezza alle lusinghe di Bersani. Poco meno di una settimana fa, infatti, l’annuncio della propria candidatura alle primarie del Pd: “È necessario costruire la coalizione del futuro per costruire un'alternativa a 30 anni di liberismo esasperato - sostiene il governatore pugliese - e per farlo serve una coalizione larga e plurale”. Peccato che il liberismo esasperato che Vendola vuole contrastare sia lo stesso che il suo nuovo alleato cerca di assecondare con l’appoggio incondizionato al governo Monti.
E così anni di battaglie sulla prassi della gauche nostrana se ne vanno a tarallucci e vino in nome di qualche seggio in più alle Camere. Perché nel balletto di accordi, alleanze e coalizioni cui il centrosinistra sta tristemente dando spettacolo, l’impressione è che i contenuti politici siano l’ultima delle preoccupazioni. La paventata alleanza con l’Udc di Casini ne è l’esempio più lampante ma anche la sconfessione dell’Idv di Di Pietro, da sempre vicino alle posizioni di Sinistra Ecologia e Libertà, dà la misura di come la sinistra istituzionale sia ormai completamente dimentica della sua ragione politica e irrimediabilmente lontana dal paese reale.
Grazie ai tweet di Paolo Ferrero, leader di Rifondazione, si è infatti avuto modo di scoprire che per il governatore pugliese, le idee anticapitaliste e antiliberiste che hanno dato i natali alla sinistra sono “idee immobili” e che il perseguirle significa “inseguire l’obiettivo di essere i migliori perdenti”. Certo, tutti sappiamo che in un sistema come quello italiano, frammentato al limite dell’esasperazione, trovare degli accordi e stringere alleanze è la base per la sopravvivenza politica. E sappiamo anche che questa è un’imperdibile occasione per il centrosinistra per proporsi alla guida del governo, dopo gli evidenti fallimenti del governo berlusconiano.
Eppure la sinistra italiana persevera diabolicamente nel suo tafazzismo e, pur di assicurarsi una vittoria praticamente scontata, arriva a capovolgere in modo orwelliano il significato primo della sua missione politica definendo “deriva populista” l’opposizione ad un regime politico-economico basato sulla mortificazione dei lavoratori, sull’annullamento del welfare e sul depauperamento sociale.
E allora cosa resta di questa sinistra? Resta la base, restano le persone. Racconta Fulvio Massa, sul sito Infoaut, che nella Grecia dei tagli indiscriminati alla sanità pubblica, l’ospedale di Kilikìs - una cittadina nei pressi di Salonicco - è riuscito ad auto-organizzarsi e, grazie a 300 dipendenti, garantisce le cure necessarie ai cittadini che, privi di un’assicurazione sanitaria, non possono permettersi il diritto alla salute. Un piccolo ma salvifico esempio di come le persone siano in grado di formare contro-istituzioni capaci di resistere democraticamente alle imposizioni liberticide dell’austerità. Di come la gente non abbia bisogno di un vessillo politico per essere incisiva.
Forse, quando all’italiano mancherà il piatto di pasta a tavola, anche nella nostra penisola sorgeranno esempi di questo tipo. Per ora ci accontentiamo del gossip estivo sulle alleanze di una sinistra che ormai non è evidentemente più degna di fregiarsi di tale nome.
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di Rosa Ana De Santis
L’anniversario della strage alla stazione di Bologna, il 2 agosto, si tira dietro nella memoria un fitto e arcinoto calendario di carneficine per le quali invano si cercano ancora i veri colpevoli. Il ricordo di quegli oltre 20 kg di esplosivo e della feroce deflagrazione, che il primo ministro dell’epoca riuscì ad addebitare in un primo momento all’esplosione di una caldaia, arriva nei giorni bollenti delle indagini delle procure siciliane sulla trattativa Stato mafia, del ricorso del Quirinale contro i pm e delle polemiche scatenate contro l’uomo di punta di questa fase giudiziaria, il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia.
Il denominatore comune italiano di vicende all’apparenza lontane è che sia sempre esistito e sia sempre rimasto immune dalla mano della giustizia un piano di responsabilità e di moventi che poco hanno a che vedere con i cani sciolti protagonisti della cronaca spicciola, piuttosto con la politica del palazzo e non solo. Quel perimetro che ha chiuso insieme in tanti momenti importanti della nostra storia - a rischio di contiguità e contagio - servizi, Stato e mafia in nome della sicurezza nazionale, come recita la ragion di stato o della più pericolosa garanzia di immunità per gli amici degli amici.
La convivenza tra lo Stato e la mafia rappresenterebbe, questo sta emergendo dalle indagini, una specie di asse portante e invisibile del paese Italia e della sua storia e questo ben prima che Andreotti diventasse l’icona più spendibile di questa machiavellica convivenza. Ci sarebbe addirittura un vero e proprio peccato originale sulla nascita della prima Repubblica, con lo sbarco degli alleati facilitati anche dalle cosche mafiose del Sud, a spiegare la troppa clemenza e le troppe sviste che hanno tutelato per anni boss e capi mafia. Un benefit, come giustamente lo chiama Belisario dell’IdV, componente del Copasir, che deve essere espiantato dalla real politik nazionale.
La seconda fase della trattativa sarebbe partita nei giorni tra Capaci e Via D’Amelio e sarebbe stata intrapresa proprio da uomini di Stato per porre fine alla sequela di vittime tra magistrati, giudici e forze dell’ordine e superare il clima di pericolo e instabilità che attraversava il paese. La morte di Borsellino, e le sue azzeccate impressioni e testimonianze sull’isolamento dei suoi ultimi giorni di vita, sarebbe avvenuta forse proprio per eliminare chi, come lui, mai avrebbe armato “patti” di convivenza con i nemici dello Stato. L’ultimo ostacolo per arrivare al “quieto vivere” che ancora ci accompagna.
Ed è proprio mentre si concentrano su questo le indagini che arriva il ricorso del Quirinale per conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato contro la Procura di Palermo. Il ricorso verte sulla mancata distruzione delle intercettazioni delle telefonate del Capo dello Stato con l’allora ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza nel quadro dell'inchiesta.
Il piano formale, in effetti impeccabile, cui si appella Napolitano per tutelare le prerogative attribuitegli dalla Costituzione e non avallare pericolosi precedenti, ha raccolto solidarietà e sostegno da tutto il mondo politico. E se la formalità invocata è impeccabile, certo è che distruggere quelle intercettazioni può significare rallentare se non ostacolare la verità giudiziale. La Procura di Palermo, per voce di Ingroia, di fronte a questa azione e alle polemiche seguitegli, promette di fermarsi solo in caso che ci sia una ragion di stato uber alles a imporre lo stop alle indagini.
Invocare la ragion di stato, che è argomento tutto politico e ben diverso dal segreto di stato, significa insinuare e lasciare alla politica tutta la responsabilità e la colpa davanti ai cittadini per non aver cercato abbastanza la verità. Il procuratore di Palermo anticipa sui giornali, con astuzia, i suoi detrattori; forse perché sa più di quello che dice e conosce già su quali limiti si infrangerà il lavoro delle procure siciliane.
Quelle che in ogni caso non si fermano, anche se la sua prossima partenza per il Guatemala verso altro incarico in seno alle competenze ONU, suona come un indebolimento del fronte giudiziario e un po’ come un abbandono. Non perché l’inchiesta si identifichi con un uomo, come si difende il procuratore, ma perché andar via in attesa di verità, lascia a tutti la scarsa fede di vederne mai una. Che dovrebbe squarciare il velo che da Portella della Ginestra fino ai giorni nostri ha coperto come un sudario l’ansia di democrazia nel paese delle stragi impunite e delle verità nascoste.
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di Silvia Mari
Sembra che dal Tempio di Adriano, a Roma, da dove Bersani ha presentato la Carta degli Intenti del partito per un accordo programmatico tra democratici e progressisti, emerga soprattutto il desiderio di ricordare all’elettorato del centro sinistra che il Pd esiste ancora. Improvvisamente uniti sul riconoscimento civile delle coppie gay e in prima linea a voler risolvere il dramma degli esodati, il Segretario ribadisce in ogni caso l’appoggio totale al governo Monti. Una mossa che vede difficile, tanto per cominciare, un qualsiasi consenso con Sinistra e Libertà di Vendola, ad esempio, e con tutto l’elettorato di sinistra e tutto il mondo del lavoro e del sindacato che alla manovra Monti oppone una strenua resistenza.
Si parla di alternativa alle destre, ma non di alternativa alle banche. Quelle che finora insieme ai grandi patrimoni e alle rendite sono rimaste fuori dal rastrellamento fiscale che ha colpito invece i ceti medio-bassi della popolazione. Un gran coraggio quello di auspicare e declamare una politica fiscale orientata a punire gli evasori e a tassare i lussi, mentre si promette appoggio incondizionato a chi proprio questa politica per scelta, e non per distrazione, non ha avviato.
Da Monti ai diritti civili, alla cittadinanza per i figli degli immigrati, il Pd non ci racconta nulla di nuovo se non quello di giustificare i propri inciampi, le contraddizioni e il pesante monito ottenuto dalle ultime tornate elettorali, con la tesi “del proprio passo e dei propri tempi”. Un po’ poco per persuaderci che Renzi sia solo un sindaco eretico al partito, che le divisioni sui diritti civili saranno superabili con il tempo, anche se originate da distanze siderali e di concetto sulla morale e sul senso del liberalismo, che si chieda il voto agli operai mente si plaude alla riforma Fornero.
Altra pagina interessante quella della riforma elettorale sulla quale Bersani, rispondendo alla nota ufficiale del Capo dello Stato che invita a tornare ad un confronto tra partiti e non ai colpi di maggioranza, risponde con la proposta del sistema proporzionale con sbarramento al 5% ma con una teoria delle preferenze, dei collegi e del premio di maggioranza che lascia al Pdl una versione più democratica del suffragio. Per ora Bersani se la cava tirando fuori dal cilindro la tesi dei costi: il voto a preferenza ha maggiori oneri e rischi di quello basato sui territori, però il cittadino - ribadisce il Segretario “ha diritto a scegliere il proprio parlamentare”.
Siamo alle solite. Si verbalizza la democrazia, la difesa dei posti di lavoro, un sistema fiscale finalmente equo, ma si fa politica in un altro modo. Come se il tergiversare di veltroniana memoria e la tesi del “ma anche” fosse stato adottato come metodo reale dal partito o come scusa per occuparsi prima che dei problemi effettivi sul tappeto, della propria identità. Per sopravviversi.
Gareggiando con il Pdl ad essere in prima linea pro-Monti, impegnando risorse e tempo a gestire le fronde interne e le spaccature insanabili sui diritti civili. Per ricordare a se stessi, prima che al popolo di sinistra, che il Pd voleva essere la stella dei progressisti e vincere le destre al voto. Ma è riuscito a battere Berlusconi grazie all’autoeliminazione del Cavaliere, a diventare maggioranza senza passare per le urne e a tradire il mondo del lavoro con il dogma, comodo ai poteri forti, dell’Eurozona.
Gli intenti ufficiali proclamati da Bersani servono non tanto a tracciare la distanza tra il comizio e la politica reale del Pd, ovvero ad individuare la grande colpa dell’incoerenza, quanto a misurare quella dell’inconsistenza. Tutte quelle profonde contraddizioni che a partire dalla teoria politica cui il partito s’ispira non promettono nulla di buono sulle azioni. Come chiudere questo patto e rendersi alternativi alla destra, rimanendo al fianco di Monti, non è dato sapere perché non è chiaro nelle idee, prima ancora che nei fatti.
La questione in ballo, garbatamente elusa finora, per la quale sarebbe urgente una seduta plenaria del Pd a ranghi completi, è l’identità dei democratici. Sarà che essere progressisti e di sinistra non può significare tutto e il contrario di tutto e che, come gli elettori hanno già capito, ogni porto è sbagliato, per mutuare il monito di Seneca, se non si decide dove andare.
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di Rosa Ana De Santis
Il documento approvato a maggioranza dal Comitato di bioetica blinda il principio e il diritto all’obiezione di coscienza e lo definisce “costituzionalmente fondato”. Il diritto infatti, che riguarda principalmente - ad oggi - l’interruzione volontaria di gravidanza normata dalla legge 194, sarebbe null’altro che un’appendice del più ampio e inviolabile “diritto alla vita”. I numeri del testo approvato e il contenuto restituiscono un ritratto preciso di quale sia la corrente culturale predominante della bioetica che decide in Italia. Allineata con la morale cattolica, ma ben riposta dietro al pretesto formale del diritto naturale.
Assurdo che di fronte a vuoti legislativi bioetici severi del nostro sistema legislativo, il lavoro del Comitato vada tutto nella direzione di ribadire e scudare un principio che funziona, de facto, da deterrente a ogni liberalizzazione effettiva della legge su questi fronti. Basta citare la legge 40 sommersa dai mille ricorsi per incostituzionalità o la legge sul fine vita, trasformatasi in una bega tra notaio e medico, con la totale sparizione dell’autodeterminazione del paziente.
Senza il disturbo di voler ingaggiare un’analisi filosofica sul diritto alla vita e alla coscienza, sarebbe interessante capire cosa succede, come succede, se il diritto all’aborto, in alcuni ospedali e in alcuni periodi dell’anno su intere regioni del paese, viene di fatto vanificato e negato per la massiccia presenza di medici e sanitari obiettori. Se è giustificabile che una legge dello Stato sia soppressa dalla morale di un individuo, dovremmo considerare possibile allora, e legalmente non sanzionabile, che se in un ospedale tutti o quasi i medici si convertissero improvvisamente alla fede di Geova, potrebbe essere nei fatti impossibile o anche solo difficilissimo ricevere una trasfusione di sangue.
Del resto le credenze religiose hanno tutte pari dignità e non ci sono strumenti condivisi per stabilire una graduatoria tra le confessioni di fede, le credenze o le teorie del bene. Ognuno è libero di professare ciò in cui crede.
Se quindi non è misurabile il grado di attendibilità di una fede anche banalmente con la conta degli adepti e il criterio della maggioranza, pena l’imposizione per tutti della stessa religione, è solo la legge, universale, che può contenere e salvaguardare la libertà di coscienza e il suo diritto di esercizio. Da parte di tutti. Di chi crede che un ovulo fecondato sia uguale ad una persona e chi crede che non sia così.
Il Comitato di bioetica sa bene che lo Stato italiano si è già espresso sulla materia non equiparando, come è per i cattolici, l’aborto all’omicidio. E’ l’esistenza della legge 194 a testimoniarlo. L’omicidio è un reato, l’aborto no. Ma se la legge perde il suo valore di esigibilità assoluta, non è legge, ma consiglio. Il testo del Comitato quindi, approvato per tutelare gli obiettori lancia in buona sostanza numerose ombre sul futuro perché invece di ribadire quanto stabilito dalla legge, prova a scalzarla, a inficiarne la garanzia, a incrinarne la coerenza logica con l’argomento della persuasione.
Se è vero che un medico unisce sempre al dovere della legge quello morale e deontologico, è vero anche che il secondo non può soppiantare il primo. Altrimenti perché il medico di Eluana sarebbe giustamente finito a processo? Perché non c’è una legge sul fine vita e nonostante le ragioni della pietà e del rispetto del testamento di Eluana, anche tra i sostenitori di papà Englaro, sembrassero più forti, era doveroso che lo Stato ottemperasse alla sua legge. Che poi da Eluana in poi la norma dovesse evolversi per onorare la libertà di morire come ciascuno vuole è un’altra storia ancora.
E’ un filo sottile quello che impedisce ad un paese liberale di trasformarsi in uno stato etico. Dalla morale e mai dalla credenza nasce la legge. La morale contempla tutti e il fatto razionale e morale è che nessuno può affermare secondo scienza, legge e coscienza che un embrione sia uguale ad un bambino. Che abortire sia assassinare. E’ cosi che il Comitato di bioetica ci porta indietro di parecchi anni quando le donne che abortivano venivano marchiate, secondo ragione pubblica, di peccato e di infamia. Come se scegliere secondo la propria coscienza equivalesse a non averne una.