di Carlo Musilli

Fra Italia e Svizzera si parla di fisco. L’obiettivo è trovare un accordo per consentire a Roma di tassare i soldi nostrani depositati nelle banche elvetiche. Dopo la patrimoniale, è questo il prelievo su cui finora il governo Monti si è dimostrato più reticente. Eppure, nelle ultime settimane, i tecnici dei due Paesi hanno spinto sull’acceleratore della trattativa. I tempi sono decisivi: bisogna fare presto. Più mesi scorrono sul calendario, meno difficoltà avranno i furbetti a far scivolare le loro fortune verso nuovi e ancor meno rischiosi paradisi fiscali.

Per questa ragione, nonostante il caldo estivo, gli incontri informali e segretissimi fra sherpa di varia natura si sono fatti sempre più frequenti. Il 27 e 28 agosto la commissione Esteri del Parlamento svizzero deciderà il mandato da affidare all’Esecutivo per la trattativa. Si tratta di stabilire quali su quali punti negoziare e cosa esigere come contropartita. L’intesa dovrebbe arrivare a novembre, o al massimo all’inizio dell’anno prossimo.

Con ogni probabilità, l’accordo avrà la forma di un patto fra governi che i rispettivi parlamenti saranno poi chiamati a ratificare. E’ quindi verosimile che alla fine il Tesoro italiano non sarà in grado di incassare nemmeno un euro dalla nuova tassa prima del 2014.

Ma di quanti soldi stiamo parlando? Si stima che i capitali esportati ammontino a circa 160 miliardi di euro. Un calcolo preciso è tuttavia complicatissimo, considerando che i viaggetti oltreconfine con le valige piene di soldi sono una pratica vecchia come i sesterzi e ancora oggi non sono affatto passati di moda.

Quanto allo schema della tassazione da applicare, fortunatamente l’Italia non fa da apripista in questo campo. I modelli da seguire sono più d’uno. Sotto il pressing della comunità internazionale, la Svizzera ha già concluso accordi dello stesso tipo con Germania, Austria e Gran Bretagna. In tutti questi casi è previsto un prelievo di almeno il 25% come sanatoria per il passato. Ogni anno, inoltre, gli interessi maturati vengono colpiti da una tassa che varia a seconda della quantità di soldi stipati nel conto corrente e della longevità del conto stesso.

Sono le stesse banche elvetiche a fare la parte degli esattori, smistando poi i soldi dovuti ai vari governi. In cambio gli istituti di credito sono riusciti a preservare l’anonimato dei propri clienti. Questa è una prerogativa per loro assolutamente irrinunciabile: il rischio è di perdere ogni appeal agli occhi dei facoltosi risparmiatori esteri. Gli unici che finora sono riusciti a mettere in discussione perfino questo punto sono gli Stati Uniti.

In piena campagna elettorale, l’amministrazione Obama ha minacciato di sanzionare le banche svizzere se non avessero iniziato a collaborare in termini di scambio d’informazioni. Ha funzionato. Sulla tassazione c’è ancora da discutere, ma gli istituti elvetici hanno garantito che renderanno noti gli estremi dei propri clienti americani, a patto che siano loro stessi a consentirlo. Ma per i più timidi la vita non sarà semplice, visto che saranno puniti dagli Usa con un’ammenda pari al 30% di tutti i pagamenti in partenza dagli States.

E’ evidente che l’Italia non può avere lo stesso peso contrattuale di Washington. Quello riservato al nostro Paese sarà quindi un trattamento molto meno riguardoso. In cambio del via libera alla tassazione, ad esempio, Pierre Rusconi - membro del partito conservatore svizzero Udc - chiede che le società e gli istituti elvetici (“vittime di assurde discriminazioni”, sic!) vengano depennati dalle black list italiane, perché “non si può sospettare che dietro ogni attività lecita ci sia un tentativo di riciclaggio”. Chissà come nascono certi sospetti. 
 
 

 

 

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