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di Mariavittoria Orsolato
Dopo il “botto” alle amministrative il Movimento Cinque Stelle pare essere maturo per il passo successivo, grazie a consensi che arrivano a lambire le preferenze del Partito Democratico e che si attestano attualmente ben oltre il 20%. Il governo tecnico annaspa sotto il peso numerico degli esodati e in generale di misure che definire impopolari sarebbe un ossimoro: le elezioni politiche sembrano ora più vicine ma i grillini rimangono pur sempre orfani di un leader rappresentativo.
Beppe Grillo ha sempre affermato di non volersi sporcare le mani e di voler rimanere “solo” il deus ex machina manifesto del movimento civile, Casaleggio da sempre preferisce restare dietro le quinte, mentre i giovani che si sono accaparrati le amministrazioni rimangono comunque degli illustri signor nessuno.
La disperata ricerca di un candidato premier all’altezza delle aspettative sembra però essersi fermata in Valsusa. L’indiscrezione è stata lanciata in rete dalla testata online spiffero.com e ripresa immediatamente dal Il Giornale: Alberto Perino, da leader dei No Tav, potrebbe diventare il nuovo uomo simbolo del Movimento Cinque Stelle. Ma il condizionale qui è d’obbligo.
La storia dei due movimenti, per quanto spesso radicalmente divergente in termini di prassi e obiettivi, si è infatti già incrociata in più occasioni. Grillo si è sempre dichiarato un convinto oppositore dell’Alta velocità e anche nell’intervista rilasciata a Marco Travaglio per Il Fatto Quotidiano ha detto di sognare un Parlamento pieno di No Tav. Perino, dal canto suo, non ha mai nascosto la sua simpatia per il Movimento Cinque Stelle e si è dato un gran da fare alle regionali 2010 per “sponsorizzare” Davide Bono, poi effettivamente eletto consigliere, affinchè tenesse sempre un occhio sulla Torino-Lione dall’interno del palazzo.
Il comico genovese ha poi più volte pubblicamente blandito l’ex sindacalista Cisl, nominandolo, ad esempio, uomo dell’anno 2011 sul suo visitatissimo blog e, se è vero che per Grillo e i grillini la Tav è “la madre di tutte le battaglie”, allora il leader indiscusso dei militanti contro l’Alta Velocità potrebbe davvero essere l’alfiere ideale da mandare in Parlamento.
Dalla valle però smentiscono l’indiscrezione con veemenza ed è lo stesso Perino a sconfessare categoricamente le voci che lo vogliono a braccetto di Beppe Grillo: “Si tratta di una notizia che non ha nessun fondamento e che smentisco nella maniera più assoluta. Non ho minimamente pensato di candidarmi con il Movimento Cinque Stelle”. E a quanti continuano a sostenere le reciproche simpatie tra i due leader offrano una motivazione che toglie ogni dubbio replica: “Basta leggere i requisiti sul sito del partito di Grillo per capire che non potrei nemmeno. Non sono né giovane né incensurato, condizioni necessarie per fare politica con i Cinque Stelle”.
L’ultra sessantenne piemontese, assurto agli onori delle cronache come il José Bové della Valsusa, ha infatti numerose denunce a suo carico - tutte collezionate nella strenua opposizione ai cantieri di Venaus e Chiomonte - ma, non essendo stato ancora condannato, risulterebbe comunque idoneo secondo gli stringenti dettami dei grillini.
Perino, dunque, non sarà (almeno per ora) il candidato di spicco del Movimento Cinque Stelle ma proviamo comunque a fare un esercizio di immaginazione, figurandoci cosa sarebbe il nostro Paese se eventualmente fosse retto da un No Tav. Certo la Valsusa sarebbe risparmiata dal passaggio di quella che è stata prontamente ribattezzata “Alta Voracità”, ma non solo.
Le risorse statali sarebbero presumibilmente impiegate secondo criteri di reale utilità e soprattutto di equità (quella vera), le pensioni tornerebbero ad essere la giusta ricompensa di una vita di lavoro, il welfare smetterebbe di essere la foglia di fico con cui nascondere il drenaggio sistematico del Pil e ridiventerebbe la stampella su cui gli italiani possano rialzarsi da questa crisi.
Le forze dell’ordine subirebbero un certo ridimensionamento, tornando ad essere i tutori dei cittadini e non degli interessi che li schiacciano, e diventando finalmente riconoscibili grazie ai tanto agognati numeri identificativi. L’ambiente sarebbe tenuto in considerazione come la base da cui irradiare politiche di sostenibilità reale e il lavoro tornerebbe a occupare la posizione fondante che la stessa Costituzione sancì in modo insindacabile 64 anni or sono.
Sarebbe un’Italia interrazziale e multiculturale, senza Bossi-Fini né Centri di Identificazione ed Espulsione, un’Italia che non specula e che lotta strenuamente contro le Mafie e i poteri forti. Un’Italia No Tav sarebbe dunque un’Italia idilliaca, capace di rialzarsi dalla prostrazione di una politica incapace, un’Italia combattiva e resistente come quella che è emersa nel corso dei momenti storicamente più bui. Ma questo, come detto sopra, è purtroppo solo un esercizio di fantasia.
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di redazione
Soltanto pochi giorni fa il Paese ricordava la morte di Falcone, sua moglie e gli agenti di scorta, nelle forme solenni di un anniversario ventennale. Trasmissioni, telegiornali, una fiction nuova di zecca su Borsellino e il maxi processo, la consueta nave della legalità salpata con tantissimi giovani a bordo. Tutto per una ferita e una pagina di storia nazionale ancora aperta e con ancora troppe ombre addosso. Compreso l’isolamento istituzionale conclusivo in cui il giudice Borsellino iniziò a morire dal giorno dei funerali dell’amico e collega Giovanni Falcone.
Arriva, a poca distanza temporale, una doccia fredda. Viene revocato il 41bis al boss Troia, accusato della strage di Capaci e di altri atroci omicidi. Mentre il PD, per voce dalla Finocchiaro, chiede che si faccia chiarezza sulle motivazioni, Gasparri non perde tempo e rievoca Oscar Luigi Scalfaro e la sua operazione nel biennio 1992-1993 con cui furono cancellati centinaia di 41 bis.
Una pagina nera della storia della Repubblica di cui non si conosce quasi nulla e in merito alla quale il Ministro Conso con buona probabilità ricevette indicazioni chiare da poteri forti che non hanno mai raccontato tutta la verità.
Sembra difficile accostare i due momenti storici, certo però è che la decisione di togliere l’isolamento e il carcere duro al boss e mantenere la sola alta sicurezza suona come un pugno in faccia. Il Tribunale di Roma si sarebbe limitato a rifiutare la richiesta di proroga che sarebbe sembrata priva di giusta motivazione dal momento che non ci sarebbe più il criterio della “perdurante attività mafiosa della famiglia”.
Il 41 bis non può essere basato ad oggi, questo sentenziano i giudici, sul ruolo avuto venti anni fa dal boss. In ogni caso la Procura nazionale antimafia e la Procura generale presso la Corte d’Appello potranno ricorrere. La condanna alla decisione è comunque già arrivata dalla sedi istituzionali della politica e dalla società civile.
L’idea e il sentimento è che i reati di mafia e le stragi di Stato non possano ammettere ripensamenti o rivalutazioni sulla severità del giudizio e sulla condanna. Un boss pluriomicida non può avere più riguardo e tutela, peraltro, di tanti detenuti meno vip, ladri di galline o drogati lasciati a morire per molto meno in situazioni di degrado estremo.
Difficile comprendere l’analisi della proporzione tra la disgrazia di fama dentro Cosa Nostra in cui è caduto il boss e la diminutio di pena. E’ possibile ragionare secondo questa linea con gente che scioglie bambini nell’acido o seppellisce le persone nel cemento?
Il giudizio popolare crede che la mafia sia una barbarie e un’insidia tale per il paese che la pena esemplare sembra l’unico possibile, pallido risarcimento rimasto. Quel filo, già sottile, che separa le commemorazioni dalle pantomime dove l’omertà si “acchitta” a festa in onore di Casa Nostra.
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di Rosa Ana De Santis
E’ finita in silenzio e a porte chiuse, come l’approvazione notte tempo del bilancio, l’avventura politica della Margherita. Uno scioglimento di cui gli elettori non si sono nemmeno accorti, mentre il tesoriere dello scandalo, Lusi, esponeva la sua efficacissima arringa a SkyTg24. In un caldo fine settimana romano, così, un partito mai decollato è alla fine riuscito a diventare icona delle ombre più pesanti della politica italiana e dei suoi lauti finanziamenti pubblici. Quasi un Amarcord della prima Repubblica.
La giustizia farà il suo corso, anche se esiste una questione di ordine generale e di banale buon senso per cui sembra difficile pensare che un tesoriere agisca in autonomia dai vertici e per propria iniziativa. Avrà un gran da fare Rutelli a dimostrare la sua estraneità, visto che dalla tesi iniziale del “non lo conosco” è passato già a quella (sfornata a chili durante tangentopoli) del “mi sono fidato, che ingenuo!”
Il tesoriere indagato non perde tempo a ricordare agli amici di partito tutte le cose che sa e che potrebbero “fare bene al Paese”, quando sarà prossimamente - ammesso che il Senato, dia il via libera - dietro le sbarre. Ed è così che le lotte fratricide nel partito si sono consumate a colpi di dichiarazioni. Il prodiano Parisi contro Rutelli, improvvisamente assente anche alla battute finali del partito svoltesi a porte chiuse al Teatro Manzoni, nonostante la mozione di trasparenza dal solo Parisi.
Una fine che denuncia, prima ancora che siano i tribunali a ratificarlo, la vergogna. E il metodo, si sa, spesso è più sostanza della sostanza stessa. Come una cricca scoperta, come una banda alla spartizione del bottino, tra distinguo e memorie ad orologeria, l’ultimo petalo è stato strappato.
Assomiglia a tutto questo la fine di una aggregazione pur nata sotto le migliori intenzioni, quelle di non consegnare la storia della sinistra Dc alle truppe di transfughi impenitenti che affollavano la neonata Forza Italia.
Ma l’irrompere sulla scena di personaggi dalle tante giravolte e dal folto pelo sullo stomaco, snaturò ben presto la natura dell’aggregato, confluito poi nel PD. Ma mentre i suoi leader - dalla Bindi a Franceschini - costruivano il nuovo soggetto, altri, in seguito veloci a costruire altre location per le loro aspirazioni, tenevano ben strette le mani sul tesoretto.
L’idea originaria di non far vincere la destra diventava con gli anni quella di non far vincere la sinistra e i “piccioli” servivano a questo oltre che a garantire una vita serena di qualcuno, ex di tutto a futuro incerto. I dati emersi parlano chiaro: 26,3 milioni di uscite irregolari e un sistema di controllo ridotto a colabrodo. Il solo tesoriere accentratore come beneficiario sembra un po’ troppo poco per essere credibile. Più euro che voti, un caso unico di contabilità creativa.
Nessuna grandezza e nessun dramma, Lusi non è Citaristi, la Margherita non è mai stata la DC e Rutelli non è mai stato niente di significativo. Semmai la giunta per le autorizzazioni dovrà scegliere se arroccarsi o dare un colpo di reni e Lusi diverrà l’ennesimo banco di prova di una casta che difficilmente castiga se stessa.
La recita andrà in scena tra arazzi e poltrone vallutate, mentre in un albergo modesto, un’assemblea federale con tanti assenti ha estinto il partito di cui era tesoriere, con un colpo di replay e con la promessa di devolvere i soldi rimasti allo Stato. Gli ex di tutto ora lo saranno anche del bottino residuo.
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di Giovanni Gnazzi
Rassicurazioni e fiducia ricevute dall’abc della politica Monti le ha incassate volentieri alla vigilia del viaggio in Germania. Temeva di presentarsi zoppo davanti a Shauble e ha quindi chiesto un pedaggio visibile alla stramba maggioranza che lo sostiene. Ma se il sostegno alla politica economica, pur tra molti mugugni, è stato confermato, quello sulle riforme che riguardano direttamente il sistema di potere nel paese non gode dello stesso credito.
Il decreto anticorruzione, che per molti aspetti è fatto di pannicelli caldi, è risultato comunque indigesto per la maggioranza del cavalierato. Eppur si tratta soprattutto di manovre estemporanee più destinate al riposizionamento interno della destra che alla sostanza del provvedimento.
Perché a ben guardare, mano più leggera non la si poteva avere. Via i condannati dal Parlamento, certo. Ma solo dal 2018 in poi. E perché non da subito? Quando si tratta d’intervenire sul mercato del lavoro non ci si preoccupa nemmeno della retroattività dei provvedimenti, ma quando si tocca la corruzione - nella quale la casta dei politici è solo una delle tante coinvolte - allora si aprono ogni sorta di paracadute per consentire un atterraggio il più possibile morbido.
I ritorni sono vari. Ad esempio, spostare di una legislatura (nominalmente, perché in sei anni potrebbero essercene molto di più) è cosa decisamente utile per tutti coloro i quali hanno solo una legislatura alle spalle e dunque abbisognano della seconda per poter poi riscuotere la pensione di parlamentare.
E’ altresì utile per tutti coloro che pensano di utilizzare gli anni che verranno come salvacondotto dai loro guai giudiziari (vedi prescrizione) e, infine, è utile anche per le segreterie dei partiti, che potranno operare una selezione dei gruppi dirigenti anche sulla base dei provvedimenti giudiziari aperti e sui criteri relativi all’ineleggibilità.
Non sarebbe la prima volta che la selezione della classe dirigente fosse basata non sulle competenze quanto sui carichi pendenti. Nel frattempo, per evitare però contraccolpi bruschi che rischino davvero rendano efficace la norma, è stato stabilito che il termine ultimo per stabilire l’ineleggibilità sarà comunque tra un anno, cioè dopo che le elezioni avranno avuto luogo e i corrotti saranno stati rieletti.
Berlusconi, con una franchezza involontaria, ha dichiarato che le norme sulla corruzione in primo luogo danneggiano il PDL. Il che non è soltanto la certificazione di quanto ormai tutti sanno, e cioè che la corruzione sta al PDL come lo statuto ad un partito, ma anche che un provvedimento di per sé punitivo nei confronti della corruzione vede comunque la luce. Ad evitare che però il danno per il partito divenisse un danno per le aziende del capo, ci ha pensato il prode Cicchitto, che ha avvertito il governo che se a malincuore il provvedimento é stato votato, non si deve interpretare la buona volontà come una resa alla legalità. Dunque, un’eventuale introduzione della norma relativa all’abrogazione del falso in bilancio (la proposta dell’IDV prevede il ripristino delle pene precedenti, cinque anni e non due come modificate dal governo Berlusconi) risulterebbe intollerabile e non sarebbe votata, dunque il governo verrebbe sconfitto in aula.
In fondo, anche le ultime posizioni del PDL sono coerenti con la forma e la sostanza con la quale ha gestito il paese il governo Berlusconi: fate quello che volete al Paese, ma giù le mani dall’impero e dall’imperatore. Insomma: Alfano a palazzo Chigi dice a Monti di andare avanti sereno, Cicchitto a Montecitorio dice alla Severino che se Monti disobbedisce il governo va a casa. Se il governo naviga a vista, i trentotto "no" e i 72 assenti del PDL nel voto di ieri hanno le sembianze dell'avviso ai naviganti. Morale? Mantenere la rotta. Come? Obbedendo e vivendo sereno il tempo breve che resta.
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di Rosa Ana De Santis
Non lavoreranno e non percepiranno pensione, questo é certo. Un dramma assoluto sul quale il governo fa spallucce da mesi. A tratti grottesco il rimpallo di numeri e dati incongruenti tra il Ministero del Lavoro e l’INPS. Una diatriba quasi surreale a tinte di pericolosità estrema in un paese che sugli esodati gioca una delle sue partite più delicate. Il decreto firmato Fornero cita risorse a copertura di 65mila persone espulse dal mercato del lavoro, mentre l’INPS- già a maggio - come ricorda il Segretario della Cgil, Susanna Camusso - parlava di 390.000 esodati.
La schermaglia che ora il Ministro ingaggia contro i vertici dell’Istituto, convocandoli con urgenza, tradisce in primis l’improvvisazione con cui la professoressa del Lavoro si accinge a metter mano alla crisi profonda del mercato del lavoro e, in aggiunta, quel tratto di cinismo e di disprezzo per i lavoratori che contraddistingue il comportamento di tutto questo governo. In serata, la Fornero dichiara che "i dati diffusi danneggiano il governo" e c'é da chiedersi se non sia invece proprio lei, con la sua approssimazione dilettantesca, a danneggiare prima gli esodati e poi il governo.
I numeri citati nel decreto Salva Italia e Milleproroghe nascerebbero da un’interpretazione restrittiva della relazione Inps e il Ministero, anche attraverso il comunicato di replica del 5 giugno u.s., non si è precipitato, a dirla tutta, in grandi smentite. I soldi disponibili sono solo per i 65mila e per gli altri il Ministro promette in un secondo momento soluzioni eque e di sostegno.
Una sorta di confessione di inadempienza per tutti coloro che o sono stati licenziati o si sono dimessi senza trovare nuova occupazione - i cosiddetti “cessati”- o per quanti hanno scelto la prosecuzione volontaria. Di queste due categorie il Governo prevede l’andata in pensione con le vecchie regole solo per coloro che maturano i requisiti entro 2 anni dal Salva Italia, quindi entro novembre 2012 se dipendenti. A queste due classi di ex lavoratori l’INPS aggiunge anche quanti sono in mobilità, i destinatari dei fondi di solidarietà e i beneficiari di congedo straordinario.
Cambiare la legge in corsa per quanti avevano siglato accordi sulla base delle vecchie normative rappresenta un vero raggiro ai danni dei cittadini e questo significa che da qualche parte le risorse andranno trovate, anche ricorrendo a misure emergenziali. E’ prima di tutto una questione di legalità e di giustizia. Magari da una patrimoniale, dato che si parla a vuoto finora di equità e di tutela per le famiglie che pagano il prezzo più alto della crisi, o dai capitali scudati condotti nei paradisi fiscali.
Il paese non ha memoria di un ministro del lavoro così incompetente ed arrogante, indifferente ai dati ed al rispetto dei patti tra cittadini e governo e le sue immediate dimissioni per manifesta incapacità sarebbero il minimo dovuto. Ma difficilmente arriveranno. Del resto, il governo dei professori - quella degli esodati è solo l’ultima delle conferme - ha scelto di far quadrare i conti in tutta fretta per far bella mostra all’Europa anche a costo di terrorizzare la popolazione con la mitologia dello spread: una creatura economica di nuova generazione di cui nessuno ha capito fino in fondo nulla e che solo ora improvvisamente condiziona l’economia reale dei paesi. Spread peraltro tornato a crescere vertiginosamente come agli antichi fulgori, addebitando i costi di paura e povertà sulle sole spalle di chi era già in seria difficoltà.
Il ceto medio, i disoccupati, i precari, i dipendenti, tutti coloro su cui è facile e garantito il successo di ogni misura vessatoria. Parallelamente a questi cittadini sono stati ridotti se non azzerati i servizi fondamentali: istruzione, salute, casa.
La sospensione della democrazia che vive l’Italia ha forse raggiunto il suo livello massimo. Se era goliardica ai tempi del Cavaliere, ora è solo più elegante nelle forme. Più milanese e più bocconiana. Disposizioni così pesanti nella vita dei cittadini senza nemmeno il disturbo di un mandato elettorale e il vincolo anche morale della sua revoca svelano tutta la vera missione dei professori: portare a termine il berlusconismo senza Berlusconi.