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di Andrea Santoro
Negli ultimi anni una delle parole più ricorrenti durante la lettura o l'ascolto delle notizie è stata “crisi”. Per scongiurarne gli effetti più negativi e devastanti sono stati proposti ed attuati tagli e riduzioni alla maggior parte dei servizi pubblici, creando non poco scontento tra le categorie interessate. Stranamente però, una voce del bilancio è rimasta pressoché immutata: quella che fa riferimento alle grosse industrie belliche internazionali, che non hanno conosciuto crisi in quasi nessuna parte del mondo.
Analizzando la relazione annuale del Sipri (Stockholm International Peace Research institute) pubblicata lo scorso 19 marzo, sicuramente non stupirà il primato dell'America nell'esportazione di armi. Ciò che invece colpisce immediatamente il lettore è come nel lustro compreso tra il 2007 e il 2011, il giro d'affari delle grandi industrie di armi sia cresciuto del 24% rispetto al quinquennio 2002 - 2006.
La presenza dei paesi del cosiddetto gruppo Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) è dominante; le loro economie in rapido sviluppo prevedono investimenti corposi anche nell'industria bellica e, nel particolare, India e Cina detengono il primato in seno al gruppo.
I 2000 km di confine che congiungono questi due Paesi sono fonte di grosse preoccupazioni per entrambe le regioni, dal 1947 impegnate in una lotta fratricida per la zona del Kashmir: all'aumento dell'undici percento dei fondi destinati agli armamenti da parte della Cina, è corrisposta da parte dello stato maggiore indiano l'elaborazione di una tattica che prevede lo scontro sia con il Pakistan, sia con l'India, muovendo così su un “duplice fronte'”.
Gli acquirenti indiani preferiscono strumenti affidabili e tecnologicamente avanzati, come ad esempio la creazione di una flotta sottomarina strategica, l'accumulo di armamenti atomici e di missili balistici; in cifre questo si traduce nella detenzione del 10% delle importazioni di armamenti a livello mondiale, con una previsione di aumento delle spese nel periodo 2012-2013 del 17%, fino a raggiungere quota 40 miliardi di dollari, circa il doppio di quanto investa l’Italia. Magra consolazione se si considera che ai sessanta milioni di italiani corrispondono più di un miliardo di indiani.
La collaborazione tra i paesi Brics è vasta e senza scrupoli: Mosca è infatti la fonte primaria di armamenti per l'india, che da lì vede arrivare (aerei) (mig) parti aeree (su 30), carri pesanti e sommergibili; stretta collaborazione tra i due anche per raggiungere il completamento del progetto che darà alla luce l’aereo furtivo T-50 Pak-fa. In questo contesto resistono anche le grosse industrie pesanti europee, specie quelle situate in Regno Unito, Italia e Francia.
Discorso a parte merita invece l'amicizia armata tra India e Israele, con cui vi è una stretta e duratura collaborazione che vede i due impegnati nello sviluppo di droni, sistemi antimissilistici e radar, campo in cui storicamente Israele ha sempre fatalmente eccelso, anche grazie all'aiuto degli amici statunitensi, altro alleato economico dell'India.
Secondo l’Istituto internazionale di studi strategici (Iiss), le spese militari affrontate nel 2012 dall'intera zona asiatica supereranno quelle di tutti i paesi europei con complessivi oltre 180 miliardi di euro, considerando anche che, oltre all'India, i maggiori importatori di armi sono Corea del sud (6%), Cina e Pakistan (5%) e infine la città stato di Singapore (4%).
Anche la primavera araba ha avuto però la necessita di armarsi, per difendere il potere o attaccarlo: in questa estesa area geopolitica si nota un aumento medio del 273%, con il primato del Marocco a più 443%. Ne possiamo dedurre che l'industria delle armi non ha quasi conosciuto crisi, vedendo anzi i fondi destinati a questa spesa nella maggior parte dei casi aumentare, con la sola eccezione della Grecia per quanto al territorio europeo.
È questo il caso dell'Italia o nel nostro paese i tagli orizzontali hanno riguardato anche l'esercito? Certo il ministro Di Paola una modifica dei fondi destinati alle forze armate l'ha proposta ed attuata, ma le ambiguità nel ddl non sono poche: se è infatti vero che vi è stata una “revisione dell’assetto strutturale e organizzativo della difesa”, è altrettanto vero però che l'ammiraglio e ministro ha chiaramente tenuto come riferimento il “garantire nei prossimi anni alle Forze Armate risorse costanti per portare a termine i programmi di rinnovamento tecnologico e di armamenti”. Parole che troppe e troppe volte avremmo voluto sentire riferite al mondo della cultura, della scuola, del lavoro.
L'articolo quattro del ddl, in particolare, prevede che "al Ministero della Difesa sia assicurato per il riordino e comunque fino al 2024, un flusso finanziario costante minimo annuo non inferiore a quanto previsto per il 2014”: è esattamente da quell'anno, infatti, che è previsto dal piano di bilancio un rifinanziamento del comparto militare, che passerà a circa 21 miliardi di euro. Ma questa è una cifra che non tiene conto né dell'occultamento delle spese che il Sipri quantifica nel nostro paese (almeno 5 miliardi ogni anno), né degli investimenti delle cosiddette 'banche armate”, quelle cioè che investono principalmente in armi: nel 2010 la capolista era Bnp-Paribas BNL, con quasi 960 milioni di euro.
Ora però, con la modifica della legge 185/1990, il governo può non rendere pubbliche le cifre investite da privati nel campo degli armamenti, quindi non è dato sapere se questa cifra sia cresciuta o diminuita.
Uno dei punti più affascinanti proposti dal ddl firmato dal tecnico della guerra è il sistema di tagli del personale: entro il 2024 i militari italiani passeranno da 180 000 a 150 000, prevedendo degli ottimi meccanismi previdenziali, invidia di tutti gli altri tecnici del governo: "incremento del contingente annuo da collocare in ausiliaria; estensione a tutti dell’istituto dell’aspettativa per riduzione quadri, con il 95% di stipendio percepito a casa; estensione a tutti della riserva di posti per le assunzioni in altre amministrazioni pubbliche, agevolazioni per il reinserimento nel lavoro dei volontari congedati; concorsi straordinari per l’accesso a inquadramenti superiori; ripristino dell’esonero; collocazione nei ruoli civili della difesa, transito verso posti delle altre amministrazioni pubbliche".
E, come se non bastasse, “le risorse recuperate sono destinate al riequilibrio dei principali settori di spesa della difesa." Forse il ministro Di Paola sarebbe stato meglio impiegato nelle riforme del lavoro, visti i recenti sviluppi in merito.
Appare poi particolarmente strano in questo contesto il caso di Finmeccanica, industria impegnata nella produzione di armamenti pesanti: l'azienda cardine del settore aerospaziale in Italia ha registrato numerose perdite negli ultimi due semestri, prova che anche il comparto degli armamenti, da sempre ritenuto uno dei più affidabili grazie alle alleanze internazionali, si è talvolta avvicinato ad esperienze ombrose, su cui forse in questi giorni Valter Lavitola proverà a fare luce.
Intanto a Messina il 5 aprile un sottomarino nucleare americano classe “Virginia” (soprannominato hunter killer) ha attraversato lo stretto nel totale silenzio dei media e, mentre in Canada la levitazione i costi degli F35 fa si che l'intero acquisto venga sospeso in attesa di chiarezza, in Italia si conferma la volontà di acquistare questa tecnologia superata a prezzi sbalorditivi, sempre nella più totale discrezione garantita da quel che resta del quarto potere.
Resta poi la considerazione sui costi quotidiani ed effettivi delle truppe all'estero. I fondi stanziati per il settore della difesa nel 2012 sono diminuiti di 700 milioni di euro, passando così a 13,6 miliardi, anche grazie al termine del conflitto libico, che resta comunque uno dei più economici.
Riconfermata la presenza delle truppe italiane in tutte le missioni precedentemente intraprese, anche in Afghanistan, dove una battaglia persa in partenza costa ai contribuenti 747,6 milioni di euro, assorbendo oltre la metà delle risorse destinate alle operazioni oltremare, comunque in calo rispetto agli 811 milioni dello scorso anno e i 709 milioni del 2010, cui però si aggiungono le decine di migliaia di vittime causate dal conflitto, vite che il denaro non potrà mai quantificare. La missione in Afghanistan ci costa più di due milioni di euro al giorno.
In un periodo di forte recessione come quello attuale è inevitabile che vengano proposti dei tagli alle spese, che possono anche essere orizzontali, riguardando quindi ogni settore dell'amministrazione pubblica.
È d'altra parte vero però che proprio dalla lettura del bilancio interno si può intravvedere la direzione che nel lungo termine chi sta al potere vuole seguire: gubernare deriva dal latino, significa reggere il timone della barca, magari cercando l'approdo in un porto tranquillo. Per veleggiare verso questi porti sembra che in molti ritengano necessario riempire la nave di armi piuttosto che tapparne le falle, senza considerare che lo stesso peso dei cannoni potrebbe solo farci affondare più rapidamente.
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di Carlo Musilli
Tra i misteri d'Italia c'è anche la benzina. L'Istat ha certificato che il mese scorso il prezzo della verde è salito del 20,8% su base annua, il rincaro più alto dal 1996. Nello stesso periodo il costo del diesel è cresciuto del 20,5%. Viene da pensare che nel frattempo il prezzo del petrolio si sia impennato, invece no: è addirittura sceso, anche se di poco (-1%, a circa 119 dollari per un barile di Brent, l'oro nero europeo). Insomma, mentre il prezzo della materia prima scende, quello alla pompa sale. Quale stregoneria italica è mai questa?
Per sciogliere l'enigma partiamo dal punto più ovvio, le tasse. Se prendiamo come riferimento il prezzo di un euro e novanta al litro (ma in alcune zone d'Italia è stato ampiamente superato il muro dei due euro), quasi la metà del rincaro sulla benzina nostrana (pari a 38 centesimi in un anno) è dovuto all'aumento dell'Iva. A pesare è il passaggio dal 20 al 21% dell'aliquota ordinaria, un incremento stabilito lo scorso dicembre dal primo decreto del governo Monti, il salva-Italia.
Fin qui nessuna sorpresa. La questione però si complica quando arriviamo a parlare di accise, che hanno pesato per un altro 27% sull'impennata dei prezzi. Cosa sono? Con il termine "accisa" si intende un'imposta indiretta sulla fabbricazione e sulla vendita dei prodotti di consumo. La paghiamo, ad esempio, anche su alcolici e tabacchi.
Per calcolare un'accisa si usa come criterio la quantità dei beni prodotti e commercializzati, mentre l'Iva ha a che fare con il loro valore. Siccome però l'accisa contribuisce a determinare il valore stesso di questi beni, alla fine paghiamo l'Iva anche sull'accisa. E voilà, ecco a voi il primo gioco di prestigio all'italiana: la tassa sulla tassa.
Ma non è finita. Oltre ai soldi chiesti dallo Stato, ci sono quelli che vanno in tasca alle compagnie. Messi di fronte allo strano caso (più frequente di quanto si pensi) dei prezzi al consumo che salgono mentre quelli alla produzione calano, di solito i petrolieri si difendono parlando del tasso di cambio. Un vero e proprio ritornello usato ciclicamente per difendersi dalle accuse di eccessiva speculazione.Il principio è semplice e, nella sostanza, vero: se l'euro si indebolisce rispetto al dollaro, il prezzo della benzina sale, perché occorrono più soldi per acquistare ogni singolo barile di greggio. In effetti, fra aprile 2011 e aprile 2012, il cambio è sceso da 1,40 a 1,32, ma il meccanismo ha pesato per appena il 10% sul rincaro subito dagli italiani. Questo significa che, fatti due conti, resta da imputare alla pura speculazione una fetta ancora più ampia, pari al 13%.
Almeno a questo fattore il governo avrebbe potuto mettere un freno, ma ha deciso di non farlo. L'occasione di introdurre maggiore concorrenza nel settore è stata persa con il decreto liberalizzazioni. Il progetto iniziale era di consentire ai gestori delle pompe di rifornirsi da più d'una compagnia, ponendo fine ai contratti d'esclusiva e dando vita ai cosiddetti impianti "multimarca".
All'ultimo minuto però il coraggio è venuto meno. Al primo comma, l'articolo 17 del decreto ("Liberalizzazione della distribuzione dei carburanti") recita così: "I gestori degli impianti di distribuzione dei carburanti che siano anche titolari della relativa autorizzazione petrolifera possono liberamente rifornirsi da qualsiasi produttore o rivenditore (...). A decorrere dal 30 giugno 2012, eventuali clausole contrattuali che prevedano per gli stessi gestori titolari forme di esclusiva nell'approvvigionamento cessano di avere effetto per la parte eccedente il 50% della fornitura complessivamente pattuita e comunque per la parte eccedente il 50% di quanto erogato nel precedente anno dal singolo punto vendita. Nei casi previsti dal presente comma le parti possono rinegoziare le condizioni economiche e l'uso del marchio".Secondo le sigle sindacali di categoria Faib Confesercenti e Fegica Cisl, con questo intervento "il Governo si è limitato a gettare fumo negli occhi dell'opinione pubblica 'liberando' solo chi era già libero, cioè i proprietari gli impianti. Alla fine il provvedimento non riguarda più di 500 impianti su 25.000.
Per il resto, il controllo dei petrolieri sull'intera filiera, 'dalla culla alla tomba', che consente loro di mantenere in Italia i prezzi più alti d'Europa, viene completato definitivamente con un regalo inaspettato: ogni compagnia potrà fissare le condizioni contrattuali che vuole, con ogni singolo benzinaio, senza nessuna tutela, nessuna contrattazione, nessuna mediazione collettiva".
Ma al di là di quest'ultimo buco nell'acqua in fatto di concorrenza, dobbiamo ricordare anche che i rincari della benzina sono sempre stati considerati dai nostri governanti come il modo più veloce e sicuro di batter cassa. Una storia iniziata ancor prima della Repubblica. Tempo fa il deputato Claudio Barbaro (Fli) ha presentato un'interrogazione alla Camera in cui chiedeva di eliminare le accise. Nel suo intervento l'onorevole ha ricordato una serie di incrementi decisi nel passato e mai più soppressi. Si parte addirittura dal 1935, quando fu stabilito un aumento di 1,9 lire. Il motivo? La guerra in Etiopia.
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di Andrea Santoro
Uno tsunami: così ha definito Maroni lo scandalo che recentemente ha travolto la Lega nord. Un'immagine non casuale, forse ad intendere che quel poco di fango che durante il tragitto ha sporcato le assi di un carroccio in corsa verrà lavato via da quest'ondata d'acqua fresca.
Un paio dei suoi passeggeri di prima classe sono stati sbalzati fuori bordo, l'importante, però, è che l'unica purezza perduta sia quella dei diamanti su cui aveva investito Belsito e non quella che gli occhi dei militanti riflettevano sul partito, che ha sempre additato l'accentramento del potere come una delle cause principali della distrazione di fondi dalle casse pubbliche.
Si è così riaperta l'annosa discussione sul finanziamento pubblico ai partiti, accusati di essere per loro stessa natura tendenti all'approvvigionamento di risorse, aiutati da un sistema elettorale compiacente. In questo senso non perde tempo Beppe Grillo che, in piena sintonia con il programma proposto da Guglielmo Giannini nel '44, aggiunge alla sua campagna elettorale un pizzico di liberalismo, invocando l'azzeramento delle sovvenzioni ai partiti.
Forte dell'epiteto divenuto motivo di vanto per il movimento, l'antipolitica scandisce forte il suo “no” nei confronti della possibile marcescenza del frutto, proponendo di recidere l'intero ramo e aprendo così le sedi di partito all'investimento dei privati, orientando la spesa pubblica verso altre e più nobili cause. D'altronde, come potrebbero gli interessi di un investitore, magari un imprenditore, configgere con quelli del suo popolo?
Prende quindi la palla al balzo Alfano, erede di un impero in decadenza che implora un Risorgimento: non più un partito, ma un movimento "che sarà tutto finanziato da iscritti e cittadini, con un tetto massimo per i privati, in modo che nessuno possa dirsi azionista di riferimento del partito». Questo nonostante i grandi numeri di una coalizione di maggioranza a volte rendano difficile persino ricordare chi è l'ultimo ad aver pagato le bollette o l'affitto. Rapida la risposta di Pisanu, che si occupa di procedura democratica dai tempi del piano di rinascita: "Per una ragione di equità e di democrazia penso che debba esistere il finanziamento pubblico dei partiti", in vista della prossima vasta fronda che lo vedrà alleato con Casini ed altri per una leadership collettiva.
Idee chiare per la Lega che, rialzandosi a fatica in un clima misto tra lo stupore e l'epurazione, dà voce alle proprie posizioni con Roberto Maroni che, rincarando le parole di Bossi, secondo cui è necessario un taglio al gettito fiscale a favore dei partiti, propone l'imitazione del sistema politico americano, dove i partiti hanno sezioni interamente dedicate alla ricerca di fondi (fund raising) generosamente elargiti da industrie, probabilmente memore della posizione geografica di queste ultime nel nostro paese. Tipo Finmeccanica?
Da queste premesse nasce la proposta di legge firmata dai leader di maggioranza, che si articola in nove commi ed ha come obiettivo la disciplina dei sistemi di controllo dei bilanci e le sanzioni derivanti da quest'ultimo tramite un concetto di diritto amministrativo troppe volte omesso dalla discussione politica: la trasparenza.
Questo principio prevede il diritto di visionare, copiare e pubblicare i dati che riguardano gli interessati, quindi ogni cittadino. Assenza rumorosa, tra i nove punti in cui è suddivisa la proposta, quella dei rimborsi garantiti ai partiti: non vi è menzione di quelli previsti per il prossimo luglio, eccezion fatta per l'affermazione di Bersani secondo cui slitteranno a settembre.
Tutti sembrano però scordare che la legge elettorale vigente può far godere i partiti di doppio rimborso nel caso una legislatura non venga portata a termine, poiché il finanziamento non viene interrotto. Questo il caso italiano dal 2008 al 2010. Nei due anni successivi si è notata però una lieve flessione in negativo, passando dai 289 Mln del 2010 ai 190del 2011, complice anche la limitata riserva di cassa e il debito crescente.
Suggestive le ipotesi di ricezione dei modelli esteri da parte del nostro sistema: le proposte vanno da quello tedesco, dove il limite massimo complessivo per il finanziamento è di 130 milioni e le fondazioni culturali di partito provvedono alla ricerca di fondi, sistema però strettamente correlato all'assetto federale della Germania, a quello francese, dove il sistema presidenziale fa sì che rimborsi elettorali e finanziamenti ai candidati che superano il ballottaggio costino solo 2,46 euro pro capite.
Elemento spesso tralasciato nella discussione è però la considerazione che il reale costo della politica non è costituito in maggioranza da questa voce del bilancio, considerando ad esempio che il costo unitario di un jet f35 è di 80 mln di dollari e l'italia ne acquisterà 60 per l'Aeronautica e 30 per la Marina, dei quali 69 F-35A convenzionali e 62 F-35B a decollo corto e atterraggio verticale (a differenza del loro prezzo, che continua a salire di giorno in giorno). Tre atterreranno nelle prossime ore nell'aeroporto militare di Cameri, a Novara.
In merito ai costi della politica è peraltro impossibile non tenere in considerazione come questi soddisfino anche una galassia di realtà parallele ai partiti veri e propri. Prima tra tutte l'editoria che, anche attraverso il finanziamento pubblico, vede in parte tutelato il diritto alla libera manifestazione del pensiero, nonostante la situazione in cui versa l'editoria italiana sia nota a tutti.
Trovano respiro anche una moltitudine di servizi rivolti ai cittadini, spaziando dai centri anziani ai sindacati, dalle associazioni di consumatori alle onlus, solo per citarne alcuni: la chiusura del gettito fiscale a questi soggetti potrebbe trovare nell'iniziativa dei privati un valido palliativo?
Diverso, anche se contingente, il discorso sui costi dei professionisti della politica. Forme di controllo potrebbero aumentarne la trasparenza: il rimborso delle spese sostenute dai partiti in sostituzione del rimborso proporzionale ai voti ottenuti, l'obbligo di versare metà della propria indennità al partito e, non ultima, la necessità di certificazione del bilancio dei partiti da parte di società autorizzate, sono esempi degli strumenti usati all'estero per orientare i costi della politica verso una dimensione lontana da sprechi e corruzione.
Resta comunque molto difficile prevedere un reale cambiamento nel sistema dei rimborsi elettorali prescindendo dalla riforma di un sistema elettorale che, ad oggi, tende all'accumulazione dei voti (e quindi dei fondi) in favore del partito di maggioranza, portando ad un bipolarismo estremamente squilibrato, specie in un paese la cui eredità, in termini di cultura politica, è vasta quanto la distanza tra la Valsusa e le isole siciliane.
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di Rosa Ana De Santis
Il giorno della Liberazione è passato, portandosi dietro il consueto strascico di polemiche e divisioni. La festa è nazionale, non v’è dubbio. Un battesimo collettivo di libertà che però non ha, né può avere, per protagonisti tutti, indistintamente. La piazza e la memoria sono dei partigiani di allora e di chi in quella resistenza si riconosce. Per una volta, come fu allora, ideologia e storia non rimasero distanti e le idee dell’una s’incarnarono nei fatti dell’altra. Fu per poco, ma fu così.
Per questo nel corteo della memoria la presenza delle Istituzioni, specie di quelle di oggi, così asciutte di idee, incastrate nei tecnicismi a freddo, così poco fatte di politica, sembra quasi un annesso accessorio, ininfluente, se non fastidioso per certi aspetti. La polemica spicciola è stata tutta su Roma e interamente ruotata intorno all’assenza del sindaco Alemanno, della Governatrice Polverini, dell’aspirante sindaco Zingaretti.
La formalità del rischio di violenze serve solo a non dire l’unica verità che tutti sanno bene. In piazza ci devono stare i partigiani e non i cittadini di qualsiasi pasta. I signori della destra, gli alleati dei nostalgici, gli stessi seguaci della allora repubblica di Salò sono fuori posto più che in pericolo; non sono voluti, sono gli sconfitti, erano e rimangono nemici.
E non c’è corona di alloro e cerimonia sul Vittoriano che possa cambiare come le cose sono effettivamente andate. Del resto, uno come Storace, icona sanguigna di quella destra che non si è mai vergognata del passato, ha anticipato già prima della commemorazione, che il 25 aprile andava passato a dormire e riposarsi, dal momento che non gli risultava alcuna festività in calendario. Questa è la verità.
L’ANPI si era espressa chiaramente sulla modalità di partecipazione al corteo della memoria. Sarebbe bastato sconfessare i movimenti dei neofascisti per aderire. Il minimo sindacale per le persone che hanno studiato un po’ la storia. Non è arrivata nessuna risposta formale a tale richiesta. Ecco le assenze come si sono consumate, nessuna espulsione.
Più inquietante l’assenza del presidente della Provincia di Roma Zingaretti che, apparentemente ossessionato dalla voglia di smarcare ogni conflitto e polemica, sembra soprattutto un po’ troppo proiettato a fare il sindaco di “tutti i romani”. Ma proprio tutti. Forse, vorremmo chiedergli, anche quelli che non ricordano più la storia e il valore assoluto di una liberazione come fu quella culminata il 25 Aprile 1945.
Liberazione dai nemici invasori e dai loro alleati italiani, torturatori e assassini oggi impunemente rivisitati alla stregua di "giovani idealisti"; liberazione dall’oppressione di una tirannide, culturale e fisica, sociale e ideologica, che distrusse il paese. Tutti erano chiamati ad una lezione di storia e di decenza, anche quelli che hanno provato a trasformare persino l’ANPI in un cordone di facinorosi. Come mai è stato, la ragione non ha bisogno di redimersi.
L’ecumenico Quirinale ha provato a chiudere a tavolino le polemiche, invitando tutti a ricordare il 25 Aprile chiusi nel palazzo e lontani dalle piazze. Napolitano ha speso parole contro i demagoghi e il populismo e ha ricordato il ruolo fondamentale dei partiti e delle idee nella politica. Chissà se questa pacificazione di forma non servirà ad annebbiare un po’ le legittime distanze e la verità della storia nella percezione collettiva.
Perché il sangue versato, a differenza di quanto dichiara Renata Polverini, non fu tutto uguale. Quello dei vessati e delle vittime non è mai uguale a quello dei carnefici. A questo dovrebbe servire la politica. A custodire i fatti, a non annacquare le differenze e ad orientare le azioni secondo le idee che a quei fatti sono sopravvissute. E le idee non sono mai tutte uguali.
Peccato che la politica sia grande l’assente di questo 25 aprile. E’ la solitudine dell’ANPI la vera notizia di quest’anno. E’ il governo dei banchieri o, ancora meglio, il silenzio delle forze politiche del paese a togliere peso alla memoria e a consegnarci un futuro che è cominciato senza il barlume di un’idea.
La celebrazione sono ormai solo dell’unica ideologia rimasta, quella del dio denaro e del profitto, che dismette ogni valore, proprio perché non ne considera altri al di fuori del suo.
Quei partigiani e tutti coloro che dalla loro parte stavano e stanno, non avevano questa idea di nazione quando sfidavano morte, torture e carcere. Credevano in una società giusta, fatta di liberi e uguali.
Siamo noi a non esser stati capaci di raccogliere quei fazzoletti e quelle insegne. Autoavvitati tra revisionismo storico e spread, compiamo come unico atto dovuto quello di onorare la memoria. Almeno così, Bella Ciao non smette di suonare.
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di Carlo Musilli
E' stato un weekend di esercizi spirituali per Roberto Formigoni, ma si può immaginare che il governatore lombardo abbia ancora motivi di turbamento. Mentre lui allenava l'animo cristiano a Rimini insieme ai sodali di Comunione e Liberazione, la sua portavoce, Gaia Carretta, si scatenava nell'ennesima arringa difensiva basata sul mantra berlusconiano del "non è vero niente".
Secondo Carretta, i "pagamenti forse riferibili a carte di credito del signor Pierangelo Daccò" per "alberghi e ristoranti, porti e cantieri nautici" non sono stati mai, "e sottolineiamo mai, effettuati per conto o a vantaggio del presidente Formigoni". Lui, il Celeste, in mezzo alla "sua gente", ribadisce che quello in atto è un "politico e mediatico senza fondamento", ma "quando ti tirano vagonate di fango, ti sale l’adrenalina". Traduzione: fatela finita di chiedere le mie dimissioni, non ci penso nemmeno.
Ma se l'attaccamento alla poltrona è troppo forte anche solo per ipotizzare quello che con ipocrita eufemismo oggi si chiama "passo indietro", Formigoni sarebbe quantomeno tenuto a dare delle spiegazioni. Ad obbligarlo non è la legge (non ancora), ma le responsabilità sottese al ruolo pubblico che ricopre e che gli consente di maneggiare ogni anno somme di denaro oceaniche.
Il Celeste, è bene ricordarlo, non è (ancora) ufficialmente indagato, ma su di lui - diciamolo chiaramente - aleggiano sospetti di corruzione. La procura di Milano indaga su 70 milioni di euro della clinica Maugeri di Pavia che sarebbero stati dirottati all'estero come fondi neri. Soldi da usare - anche se questo capo d'accusa non è stato ancora formalizzato - per corrompere amministratori pubblici.
Tra i vari dettagli emersi dall'inchiesta, quello che maggiormente pesa sul nome di Formigoni fa riferimento al capodanno 2009. Si sospetta che all'epoca il governatore abbia preso parte a un "viaggio di gruppo" nel resort più esclusivo del pianeta, l'Altamer di Anguilla, nei Caraibi. A pagare il viaggetto morigerato da ciellino doc sarebbe stato Pierangelo Daccò, un faccendiere (Lavitola docet) che lavorava come consulente per varie aziende sanitarie appaltatrici - guarda caso - proprio della Regione Lombardia. In carcere ormai da cinque mesi, il buon Daccò avrebbe speso solo per questo piccolo "investimento" più di 13 mila euro.
Di fronte a sospetti di questo tipo, l'autodifesa di Formigoni è stata fin qui un autogol dietro l'altro. Nel tentativo di rappresentare se stesso come l'amministratore pio e timorato, il Presidente lombardo si è dimenticato di portare all'attenzione dei cittadini la benché minima prova concreta della sua innocenza. E nella goffaggine delle ultime uscite pubbliche - dagli insulti ai giornalisti al grottesco paragone con Gesù Cristo - ha finito per avallare indirettamente le tesi degli accusatori.Il Celeste, ad esempio, ripete come un disco d'aver pagato di tasca propria ogni scappatella caraibica. In una lettera alla rivista "Tempi", diretta dal ciellino Luigi Amicone (nomen omen?), Formigoni scrive: "Le ricevute dei rimborsi delle spese anticipate da Daccò? Non le ho, le ho buttate".
Sorvolando sull'ammissione che a pagare in prima istanza sia stato proprio il faccendiere oggi galeotto, l'obiezione di non aver conservato quelle carte a distanza di anni parrebbe tenere. Peccato che, volendo, basterebbe richiedere la documentazione sui movimenti bancari di quel periodo per dimostrare a tutti d'aver pagato la propria quota. L'opinione pubblica non può costringerlo a un passo del genere, ma il buon senso dovrebbe farlo.
Allargando la prospettiva, i pasticci del governatore appesantiscono ovviamente i guai del Pdl. Nonostante un sostegno formale e gelido alla difesa formigoniana, è evidente l'intenzione dei berluscones di smarcarsi da un pantano che promette conseguenze imprevedibili. La dimostrazione più chiara è arrivata da Angelino Alfano, che giovedì scorso ha parlato per un quarto d'ora con Formigoni, evitando con cura ogni possibile gesto compromettente: non ha accettato né l'invito al Pirellone, né quello a una conferenza stampa congiunta. Ha rifiutato perfino di farsi fotografare in compagnia del governatore. Insomma, Alfano non vuole metterci la faccia. Manca ormai pochissimo alle amministrative e i problemi interni sono già abbastanza: dal naufragio della Lega alla fronda di Pisanu, passando per le gare di burlesque in quel di Arcore.
A questo punto Formigoni è solo. Pare che, dietro le quinte, lo abbiano abbandonato perfino i fratelli di Cl. Ma a ben vedere la via crucis del Celeste non è cominciata nelle ultime settimane. Da luglio, nella Regione Lombardia sono stati indagati o arrestati 10 politici. Le inchieste coinvolgono quattro membri su cinque del consiglio di presidenza. Di recente, il presidente Davide Boni (della Lega) si è dimesso, idem gli assessori Rizzi e Saulle. Senza contare le celebri gesta del consigliere Renzo Bossi. Non per fare gli esterofili, ma in diverse parti del mondo tutto questo sarebbe più che sufficiente perché un governatore si dimettesse. La baldoria ai Caraibi sarebbe la ciliegina sulla torta.