di Andrea Santoro

Uno tsunami: così ha definito Maroni lo scandalo che recentemente ha travolto la Lega nord. Un'immagine non casuale, forse ad intendere che quel poco di fango che durante il tragitto ha sporcato le assi di un carroccio in corsa verrà lavato via da quest'ondata d'acqua fresca.

Un paio dei suoi passeggeri di prima classe sono stati sbalzati fuori bordo, l'importante, però, è che l'unica purezza perduta sia quella dei diamanti su cui aveva investito Belsito e non quella che gli occhi dei militanti riflettevano sul partito, che ha sempre additato l'accentramento del potere come una delle cause principali della distrazione di fondi dalle casse pubbliche.

Si è così riaperta l'annosa discussione sul finanziamento pubblico ai partiti, accusati di essere per loro stessa natura tendenti all'approvvigionamento di risorse, aiutati da un sistema elettorale compiacente. In questo senso non perde tempo Beppe Grillo che, in piena sintonia con il programma proposto da Guglielmo Giannini nel '44, aggiunge alla sua campagna elettorale un pizzico di liberalismo, invocando l'azzeramento delle sovvenzioni ai partiti.

Forte dell'epiteto divenuto motivo di vanto per il movimento, l'antipolitica scandisce forte il suo “no” nei confronti della possibile marcescenza del frutto, proponendo di recidere l'intero ramo e aprendo così le sedi di partito all'investimento dei privati, orientando la spesa pubblica verso altre e più nobili cause. D'altronde, come potrebbero gli interessi di un investitore, magari un imprenditore, configgere con quelli del suo popolo?

Prende quindi la palla al balzo Alfano, erede di un impero in decadenza che implora un Risorgimento: non più un partito, ma un movimento "che sarà tutto finanziato da iscritti e cittadini, con un tetto massimo per i privati, in modo che nessuno possa dirsi azionista di riferimento del partito». Questo nonostante i grandi numeri di una coalizione di maggioranza a volte rendano difficile persino ricordare chi è l'ultimo ad aver pagato le bollette o l'affitto. Rapida la risposta di Pisanu, che si occupa di procedura democratica dai tempi del piano di rinascita: "Per una ragione di equità e di democrazia penso che debba esistere il finanziamento pubblico dei partiti", in vista della prossima vasta fronda che lo vedrà alleato con Casini ed altri per una leadership collettiva.

Idee chiare per la Lega che, rialzandosi a fatica in un clima misto tra lo stupore e l'epurazione, dà voce alle proprie posizioni con Roberto Maroni che, rincarando le parole di Bossi, secondo cui è necessario un taglio al gettito fiscale a favore dei partiti, propone l'imitazione del sistema politico americano, dove i partiti hanno sezioni interamente dedicate alla ricerca di fondi (fund raising) generosamente elargiti da industrie, probabilmente memore della posizione geografica di queste ultime nel nostro paese. Tipo Finmeccanica?

Da queste premesse nasce la proposta di legge firmata dai leader di maggioranza, che si articola in nove commi ed ha come obiettivo la disciplina dei sistemi di controllo dei bilanci e le sanzioni derivanti da quest'ultimo tramite un concetto di diritto amministrativo troppe volte omesso dalla discussione politica: la trasparenza.

Questo principio prevede il diritto di visionare, copiare e pubblicare i dati che riguardano gli interessati, quindi ogni cittadino. Assenza rumorosa, tra i nove punti in cui è suddivisa la proposta, quella dei rimborsi garantiti ai partiti: non vi è menzione di quelli previsti per il prossimo luglio, eccezion fatta per l'affermazione di Bersani secondo cui slitteranno a settembre.

Tutti sembrano però scordare che la legge elettorale vigente può far godere i partiti di doppio rimborso nel caso una legislatura non venga portata a termine, poiché il finanziamento non viene interrotto. Questo il caso italiano dal 2008 al 2010. Nei due anni successivi si è notata però una lieve flessione in negativo, passando dai 289 Mln del 2010 ai 190del 2011, complice anche la limitata riserva di cassa e il debito crescente.

Suggestive le ipotesi di ricezione dei modelli esteri da parte del nostro sistema: le proposte vanno da quello tedesco, dove il limite massimo complessivo per il finanziamento è di 130 milioni e le fondazioni culturali di partito provvedono alla ricerca di fondi, sistema però strettamente correlato all'assetto federale della Germania, a quello francese, dove il sistema presidenziale fa sì che rimborsi elettorali e finanziamenti ai candidati che superano il ballottaggio costino solo 2,46 euro pro capite.

Elemento spesso tralasciato nella discussione è però la considerazione che il reale costo della politica non è costituito in maggioranza da questa voce del bilancio, considerando ad esempio che il costo unitario di un jet f35 è di 80 mln di dollari e l'italia ne acquisterà 60 per l'Aeronautica e 30 per la Marina, dei quali 69 F-35A convenzionali e 62 F-35B a decollo corto e atterraggio verticale (a differenza del loro prezzo, che continua a salire di giorno in giorno). Tre atterreranno nelle prossime ore nell'aeroporto militare di Cameri, a Novara.

In merito ai costi della politica è peraltro impossibile non tenere in considerazione come questi soddisfino anche una galassia di realtà parallele ai partiti veri e propri. Prima tra tutte l'editoria che, anche attraverso il finanziamento pubblico, vede in parte tutelato il diritto alla libera manifestazione del pensiero, nonostante la situazione in cui versa l'editoria italiana sia nota a tutti.

Trovano respiro anche una moltitudine di servizi rivolti ai cittadini, spaziando dai centri anziani ai sindacati, dalle associazioni di consumatori alle onlus, solo per citarne alcuni: la chiusura del gettito fiscale a questi soggetti potrebbe trovare nell'iniziativa dei privati un valido palliativo?

Diverso, anche se contingente, il discorso sui costi dei professionisti della politica. Forme di controllo potrebbero aumentarne la trasparenza: il rimborso delle spese sostenute dai partiti in sostituzione del rimborso proporzionale ai voti ottenuti, l'obbligo di versare metà della propria indennità al partito e, non ultima, la necessità di certificazione del bilancio dei partiti da parte di società autorizzate, sono esempi degli strumenti usati all'estero per orientare i costi della politica verso una dimensione lontana da sprechi e corruzione.

Resta comunque molto difficile prevedere un reale cambiamento nel sistema dei rimborsi elettorali prescindendo dalla riforma di un sistema elettorale che, ad oggi, tende all'accumulazione dei voti (e quindi dei fondi) in favore del partito di maggioranza, portando ad un bipolarismo estremamente squilibrato, specie in un paese la cui eredità, in termini di cultura politica, è vasta quanto la distanza tra la Valsusa e le isole siciliane.

 

 

 

 

 

di Rosa Ana De Santis

Il giorno della Liberazione è passato, portandosi dietro il consueto strascico di polemiche e divisioni. La festa è nazionale, non v’è dubbio. Un battesimo collettivo di libertà che però non ha, né può avere, per protagonisti tutti, indistintamente. La piazza e la memoria sono dei partigiani di allora e di chi in quella resistenza si riconosce. Per una volta, come fu allora,  ideologia e storia non rimasero distanti e le idee dell’una s’incarnarono nei fatti dell’altra. Fu per poco, ma fu così.

Per questo nel corteo della memoria la presenza delle Istituzioni, specie di quelle di oggi, così asciutte di idee, incastrate nei tecnicismi a freddo, così poco fatte di politica, sembra quasi un annesso accessorio, ininfluente, se non fastidioso per certi aspetti. La polemica spicciola è stata tutta su Roma e interamente ruotata intorno all’assenza del sindaco Alemanno, della Governatrice Polverini, dell’aspirante sindaco Zingaretti.

La formalità del rischio di violenze serve solo a non dire l’unica verità che tutti sanno bene. In piazza ci devono stare i partigiani e non i cittadini di qualsiasi pasta. I signori della destra, gli alleati dei nostalgici, gli stessi seguaci della allora repubblica di Salò sono fuori posto più che in pericolo; non sono voluti, sono gli sconfitti, erano e rimangono nemici.

E non c’è corona di alloro e cerimonia sul Vittoriano che possa cambiare come le cose sono effettivamente andate. Del resto, uno come Storace, icona sanguigna di quella  destra che non si è mai vergognata del passato, ha anticipato già prima della commemorazione, che il 25 aprile andava passato a dormire e riposarsi, dal momento che non gli risultava alcuna festività in calendario. Questa è la verità.

L’ANPI si era espressa chiaramente sulla modalità di partecipazione al corteo della memoria. Sarebbe bastato sconfessare i movimenti dei neofascisti per aderire. Il minimo sindacale per le persone che hanno studiato un po’ la storia. Non è arrivata nessuna risposta formale a tale richiesta. Ecco le assenze come si sono consumate, nessuna espulsione.

Più inquietante l’assenza del presidente della Provincia di Roma Zingaretti che, apparentemente ossessionato dalla voglia di smarcare ogni conflitto e polemica, sembra soprattutto un po’ troppo proiettato a fare il sindaco di “tutti i romani”. Ma proprio tutti. Forse, vorremmo chiedergli, anche quelli che non ricordano più la storia e il valore assoluto di una liberazione come fu quella culminata il 25 Aprile 1945.

Liberazione dai nemici invasori e dai loro alleati italiani, torturatori e assassini oggi impunemente rivisitati alla stregua di "giovani idealisti"; liberazione dall’oppressione di una tirannide, culturale e fisica, sociale e ideologica, che distrusse il paese. Tutti erano chiamati ad una lezione di storia e di decenza, anche quelli che hanno provato a trasformare persino l’ANPI in un cordone di facinorosi. Come mai è stato, la ragione non ha bisogno di redimersi.

L’ecumenico Quirinale ha provato a chiudere a tavolino le polemiche, invitando tutti a ricordare il 25 Aprile chiusi nel palazzo e lontani dalle piazze. Napolitano ha speso parole contro i demagoghi e il populismo e ha ricordato il ruolo fondamentale dei partiti e delle idee nella politica. Chissà se questa pacificazione di forma non servirà ad annebbiare un po’ le legittime distanze e la verità della storia nella percezione collettiva.

Perché il sangue versato, a differenza di quanto dichiara Renata Polverini, non fu tutto uguale. Quello dei vessati e delle vittime non è mai uguale a quello dei carnefici. A questo dovrebbe servire la politica. A custodire i fatti, a non annacquare le differenze e ad orientare le azioni secondo le idee che a quei fatti sono sopravvissute. E le idee non sono mai tutte uguali.

Peccato che la politica sia grande l’assente di questo 25 aprile. E’ la solitudine dell’ANPI la vera notizia di quest’anno. E’ il governo dei banchieri o, ancora meglio, il silenzio delle forze politiche del paese a togliere peso alla memoria e a consegnarci un futuro che è cominciato senza il barlume di un’idea.

La celebrazione sono ormai solo dell’unica ideologia rimasta, quella del dio denaro e del profitto, che dismette ogni valore, proprio perché non ne considera altri al di fuori del suo.

Quei partigiani e tutti coloro che dalla loro parte stavano e stanno, non avevano questa idea di nazione quando sfidavano morte, torture e carcere. Credevano in una società giusta, fatta di liberi e uguali.

Siamo noi a non esser stati capaci di raccogliere quei fazzoletti e quelle insegne. Autoavvitati tra revisionismo storico e spread, compiamo come unico atto dovuto quello di onorare la memoria. Almeno così, Bella Ciao non smette di suonare.

di Carlo Musilli

E' stato un weekend di esercizi spirituali per Roberto Formigoni, ma si può immaginare che il governatore lombardo abbia ancora motivi di turbamento. Mentre lui allenava l'animo cristiano a Rimini insieme ai sodali di Comunione e Liberazione, la sua portavoce, Gaia Carretta, si scatenava nell'ennesima arringa difensiva basata sul mantra berlusconiano del "non è vero niente".

Secondo Carretta, i "pagamenti forse riferibili a carte di credito del signor Pierangelo Daccò" per "alberghi e ristoranti, porti e cantieri nautici" non sono stati mai, "e sottolineiamo mai, effettuati per conto o a vantaggio del presidente Formigoni". Lui, il Celeste, in mezzo alla "sua gente", ribadisce che quello in atto è un "politico e mediatico senza fondamento", ma "quando ti tirano vagonate di fango, ti sale l’adrenalina". Traduzione: fatela finita di chiedere le mie dimissioni, non ci penso nemmeno.

Ma se l'attaccamento alla poltrona è troppo forte anche solo per ipotizzare quello che con ipocrita eufemismo oggi si chiama "passo indietro", Formigoni sarebbe quantomeno tenuto a dare delle spiegazioni. Ad obbligarlo non è la legge (non ancora), ma le responsabilità sottese al ruolo pubblico che ricopre e che gli consente di maneggiare ogni anno somme di denaro oceaniche.

Il Celeste, è bene ricordarlo, non è (ancora) ufficialmente indagato, ma su di lui - diciamolo chiaramente - aleggiano sospetti di corruzione. La procura di Milano indaga su 70 milioni di euro della clinica Maugeri di Pavia che sarebbero stati dirottati all'estero come fondi neri. Soldi da usare - anche se questo capo d'accusa non è stato ancora formalizzato - per corrompere amministratori pubblici.

Tra i vari dettagli emersi dall'inchiesta, quello che maggiormente pesa sul nome di Formigoni fa riferimento al capodanno 2009. Si sospetta che all'epoca il governatore abbia preso parte a un "viaggio di gruppo" nel resort più esclusivo del pianeta, l'Altamer di Anguilla, nei Caraibi. A pagare il viaggetto morigerato da ciellino doc sarebbe stato Pierangelo Daccò, un faccendiere (Lavitola docet) che lavorava come consulente per varie aziende sanitarie appaltatrici - guarda caso - proprio della Regione Lombardia. In carcere ormai da cinque mesi, il buon Daccò avrebbe speso solo per questo piccolo "investimento" più di 13 mila euro.

Di fronte a sospetti di questo tipo, l'autodifesa di Formigoni è stata fin qui un autogol dietro l'altro. Nel tentativo di rappresentare se stesso come l'amministratore pio e timorato, il Presidente lombardo si è dimenticato di portare all'attenzione dei cittadini la benché minima prova concreta della sua innocenza. E nella goffaggine delle ultime uscite pubbliche - dagli insulti ai giornalisti al grottesco paragone con Gesù Cristo - ha finito per avallare indirettamente le tesi degli accusatori.

Il Celeste, ad esempio, ripete come un disco d'aver pagato di tasca propria ogni scappatella caraibica. In una lettera alla rivista "Tempi", diretta dal ciellino Luigi Amicone (nomen omen?), Formigoni scrive: "Le ricevute dei rimborsi delle spese anticipate da Daccò? Non le ho, le ho buttate".

Sorvolando sull'ammissione che a pagare in prima istanza sia stato proprio il faccendiere oggi galeotto, l'obiezione di non aver conservato quelle carte a distanza di anni parrebbe tenere. Peccato che, volendo, basterebbe richiedere la documentazione sui movimenti bancari di quel periodo per dimostrare a tutti d'aver pagato la propria quota. L'opinione pubblica non può costringerlo a un passo del genere, ma il buon senso dovrebbe farlo.

Allargando la prospettiva, i pasticci del governatore appesantiscono ovviamente i guai del Pdl. Nonostante un sostegno formale e gelido alla difesa formigoniana, è evidente l'intenzione dei berluscones di smarcarsi da un pantano che promette conseguenze imprevedibili. La dimostrazione più chiara è arrivata da Angelino Alfano, che giovedì scorso ha parlato per un quarto d'ora con Formigoni, evitando con cura ogni possibile gesto compromettente: non ha accettato né l'invito al Pirellone, né quello a una conferenza stampa congiunta. Ha rifiutato perfino di farsi fotografare in compagnia del governatore. Insomma, Alfano non vuole metterci la faccia. Manca ormai pochissimo alle amministrative e i problemi interni sono già abbastanza: dal naufragio della Lega alla fronda di Pisanu, passando per le gare di burlesque in quel di Arcore.

A questo punto Formigoni è solo. Pare che, dietro le quinte, lo abbiano abbandonato perfino i fratelli di Cl. Ma a ben vedere la via crucis del Celeste non è cominciata nelle ultime settimane. Da luglio, nella Regione Lombardia sono stati indagati o arrestati 10 politici. Le inchieste coinvolgono quattro membri su cinque del consiglio di presidenza. Di recente, il presidente Davide Boni (della Lega) si è dimesso, idem gli assessori Rizzi e Saulle. Senza contare le celebri gesta del consigliere Renzo Bossi. Non per fare gli esterofili, ma in diverse parti del mondo tutto questo sarebbe più che sufficiente perché un governatore si dimettesse. La baldoria ai Caraibi sarebbe la ciliegina sulla torta.

di Rosa Ana De Santis

E’ la storia della prima Repubblica e di Tangentopoli, è la lunga stagione del governo berlusconiano del “fare”, è l’ultimo scandalo dei diamanti e dei lingotti dell’integerrima Lega ad aver ormai instillato negli italiani un rifiuto viscerale per la politica e per i partiti. Ed è per questa ragione che la protesta e l’opposizione non passano più, come in passato, per la via delle rappresentanze partitiche e attraverso i sindacati, ma piuttosto per le cinque stelle di Grillo,  la chimera del web e l’inno della piazza libera dalle bandiere che è invece solo il fossile che resta della fine delle ideologie.

Un male assoluto edulcorato dalla retorica del fare. Peccato che il fare non è la tecnica, insegnava la filosofia greca, e il fare nel modo giusto ha bisogno di idee. Idee dell’uomo e della società senza le quali i partiti sono quello che sono oggi. Assemblee di interessi sotto un brand, unione posticce di gruppi d’affari o di esuli, tenuti insieme dalle nostalgie (vedi l’Udc o il Pd) o dai conti bancari.

In tutto questo torna alla cronaca la polemica sul finanziamento. La scusa della corruzione e delle ruberie è, appunto, solo una scusa. Il malcostume imperante non pone un solo argomento decente sul merito della questione. Assegnare alla dimensione “pubblica” il sostegno economico della vita politica è il nucleo di una democrazia concreta. E’ ciò che scongiura il rischio per cui la politica, più di come già non sia, rimanga appannaggio dei ricchi e delle potenti lobby ed è, soprattutto, l’unico vincolo al dovere della trasparenza dei bilanci.

E’ questo il punto che pare sfuggire a molti dei nostri onorevoli. A quelli che vogliono abolire il finanziamento perché hanno in caldo il prossimo magnate che li stipendierà e a quelli che finora hanno gonfiato i rimborsi elettorali e, dalle Alpi della Lombardia al tacco della Puglia, hanno viaggiato e mangiato ostriche gratis per usare una delicata immagine.

E’ la cordata Casini - Bersani - Alfano che vuole difendere il finanziamento pubblico o meglio quel poco che ne rimane sotto forma di “rimborso elettorale” dopo che il referendum del 1993, frutto dello shock di Tangentopoli, ne chiese la cancellazione. Nella proposta di legge che ora giace a Montecitorio c’è il famoso articolo a  nove commi che impone misure ferree di controllo e trasparenza sul bilancio dei partiti e sulla rendicontazione dei famosi rimborsi.

Sancire per legge alcune prassi servirà, secondo i firmatari della legge, a riformare dal di dentro i partiti senza snaturarne il ruolo storico e necessario. Necessario perché la democrazia partecipativa di tipo ateniese non esiste, necessario perché chiunque di qualsiasi estrazione sociale possa non avere un impedimento economico alla militanza politica, necessario a scongiurare, soprattutto in questa fase di recessione, il rischio del populismo che da sempre, agganciandosi alla denuncia, conduce i popoli nelle mani di qualche tiranno.

Che non sarà per forza un dittatore in carne ed ossa, ma magari la disaffezione non soltanto alla vita politica del paese, ma alle idee. Che quando iniziano a sembrare inutili lasciano troppo spazio alla libertà di fare. Qualsiasi cosa.

di Fabrizio Verde

Con 235 sì, irrompe nella Costituzione italiana, accompagnato da uno strano silenzio dei media mainstream, il vincolo al pareggio di bilancio approvato in seconda lettura anche al Senato. Si completa così l'iter parlamentare del disegno di legge, molto contestato in sede extraparlamentare in quanto d'inconfutabile stampo neoliberista, che essendo stato approvato con una maggioranza qualificata dei due terzi, non dovrà neppure essere sottoposto al giudizio popolare attraverso il referendum confermativo. La grande coalizione-ammucchiata PD-PDL-UDC ha votato compatta, mentre si sono opposte Lega Nord ed Italia dei Valori.

A venire modificato è segnatamente l'articolo 81 della carta costituzionale nata dalla Resistenza, ma già ampiamente stravolta negli anni, che adesso recita: «Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali», quali «gravi recessioni economiche, crisi finanziarie, gravi calamità naturali».

Una modifica che risulta stridente rispetto all'impianto dato alla carta fondamentale dai padri costituenti, che all'articolo 3 recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Dunque, il ruolo dello stato nell'economia, pensato quasi come una sorta di guida dall'Assemblea Costituente, esce irrimediabilmente ridimensionato, quando in un periodo come questo di recessione piena, come insegna Keynes, la domanda, i consumi e l'occupazione potrebbero essere risollevati tramite un massiccio piano d'intervento statale.

Come beneficio, si avrebbe il calo del debito pubblico per effetto dell'aumento delle entrate fiscali. Al contrario, la strada imboccata - monetarista-liberista imposta dalla Germania - porterà con l'austerità un aumento della disoccupazione accompagnata ad una diminuzione delle entrate fiscali. Con relativo aumento del deficit pubblico come ciliegina, decisamente amara, sulla torta farcita con  lacrime e sangue dei lavoratori italiani.

La ratio della norma, sembra proprio improntata alla demolizione delle teorie elaborate dall'economista britannico, che nel dopoguerra - visto il successo della “rivoluzione keynesiana” -venne definito probabilmente in maniera frettolosa il distruttore di Marx. Anche se, come la storia ha mostrato, le contraddizioni del sistema capitalistico sono tante e tali, che l'attualità delle teorie elaborate dal filosofo di Treviri restano pressoché intatte.

Come spiegato in maniera chiara ed impeccabile dall'economista Vladimiro Giacché intervistato dal portale Today: «Il pareggio di bilancio, di fatto, sancisce l'illegalità del keynesismo. Secondo Jhon Maynard Keynes, nei periodi di recessione, con la 'domanda aggregata' insufficiente, era lo Stato, tramite il deficit spending, a far ripartire l'economia. Secondo questo principio, il deficit si sarebbe poi ripagato quando la crescita fosse ripresa. Ora, impedendo costituzionalmente il deficit di bilancio dello Stato - se non per casi eccezionali e comunque per periodi di tempo limitati - tutto ciò sarà impossibile. Da oggi il nostro paese abbraccia ufficialmente l'ideologia economica per la quale la priorità è evitare il deficit spending, ossia che lo Stato possa finanziare parte della domanda indebitandosi.

Questa cosa può sembrare apparentemente ragionevole per paesi indebitati come il nostro, ma in realtà è assolutamente folle. Così facendo si stanno replicando gli errori drammatici degli anni '30: quando ci si trova alle prese con la recessione, oggi come ottanta anni fa, accade che i privati investono meno. Ed è qui che sarebbe fondamentale un deciso intervento pubblico, con investimenti che facciano in modo che la "domanda aggregata", cioè l'insieme dell'economia, aumenti, per ripresa. Questi effetti benefici, poi, si riassorbirebbero negli anni a seguire con effetti positivi sui conti pubblici. Ad esempio, con un maggior introito di tasse, il governo avrebbe avuto un rientro maggiore. Da oggi, invece, questo non sarà più possibile».

Insomma, il Parlamento italiano, in combutta col governo dei tecnici invocato in modo taumaturgico per “salvare” l'Italia, stravolge la Costituzione italiana inserendovi una norma che si configura come una specie di estensione a livello continentale di una norma tedesca che regola il rapporto tra Stato centrale e Laender, che farà avviluppare ancor di più quello che una volta era il Belpaese e l'intero continente nella spirale perversa composta da austerità e recessione.


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