di Carlo Musilli 

Il primo destinatario di queste parole è naturalmente il Partito Democratico e il casus belli è la riforma dell'articolo 18. Dopo aver cancellato il concetto stesso di concertazione con i sindacati, ridotti a interlocutori occasionali con cui scambiare quattro chiacchiere di cortesia prima di imporre la propria linea, Monti sta ora svuotando di qualsiasi significato il ruolo del Parlamento.

Fin qui i tecnici bocconiani hanno operato sempre per decreto, blindando sistematicamente i testi con il ricorso alla fiducia. Le ragioni? Sempre le stesse: dobbiamo rassicurare i mercati, tempi certi e ridotti nell'approvazione dei provvedimenti sono fondamentali per non dilapidare la ritrovata credibilità a livello internazionale.

La riforma del mercato del lavoro arriverà però in Parlamento come disegno di legge ordinario. Il governo ha scelto di seguire questa strada dopo le consultazioni con il Presidente della Repubblica, che ha giustamente fatto notare come un decreto su un tema così delicato sarebbe stato visto come un colpo di mano politicamente inaccettabile. Il problema è che anche in questo caso sembra trattarsi più che altro di un gesto di cortesia: l'Esecutivo concede per una volta a deputati e senatori la possibilità di guadagnarsi lo stipendio, a patto che si tratti di una mera finzione. Tutto quello che devono fare è dire ancora una volta "sì", senza azzardarsi a modificare l'impostazione di fondo del Ddl.

Lo scontro si è acceso in particolare sui licenziamenti per motivi economici. La riforma Fornero cancella in questi casi la possibilità del reintegro per i lavoratori mandati via ingiustamente, che avranno diritto a un semplice indennizzo. Si tratta di una modifica che fa scivolare l'Italia a destra della stessa Germania: il famoso "modello tedesco" prevede infatti che il giudice possa scegliere fra indennizzo o reintegro in caso di licenziamento ingiusto sia per motivi economici che disciplinari. Senza contare che si applica alle aziende con oltre dieci (e non quindici) dipendenti e che dev’essere concertato con i sindacati. Ora, con quale faccia Bersani & Company potranno mai approvare una riforma del genere e poi pretendere il voto degli elettori di sinistra?

D'altra parte, Monti sa benissimo che nessuno dei partiti si prenderà mai la responsabilità di far cadere il suo governo. Tantomeno il Pd, che ha fatto delle divisioni interne un segno distintivo e al momento non riesce più a vincere nemmeno le sue stesse primarie. Senza contare che, prima di andare alle urne per le politiche, molti democratici sperano ancora nella riforma elettorale, che consentirebbe di allentare gli scomodi lacci del patto di Vasto con Sel e Idv.

Forte di questa consapevolezza, il Professore tira dritto, probabilmente anche perché cedere oggi al Pd sul fronte del lavoro lo costringerebbe a dimostrarsi in futuro altrettanto arrendevole con il Pdl sul capitolo giustizia, magari con l'abolizione di quel reato di concussione che dà tanto fastidio a Berlusconi nel caso Ruby. Non dimentichiamo però le ampie concessioni già fatte ai pidiellini nel decreto liberalizzazioni, da cui sono sparite in corso d'opera una valanga di norme che avrebbero danneggiato il bacino elettorale destrorso (tassisti in primis).

Nei sondaggi la popolarità di Monti sta inevitabilmente calando, ma questo era prevedibile. Il governo degli accademici può fare tranquillamente a meno del consenso popolare, ma i partiti che lo sostengono in Parlamento no. E fra poco ci sono le amministrative. Il Pd farebbe bene a ricordarselo. 

   

di Carlo Musilli 

In sordina, alla chetichella, ma alla fine il mini-decreto salva-banche è arrivato. Il governo lo ha varato con disinvoltura venerdì scorso, infilandolo fra due provvedimenti che giustamente hanno catalizzato un'attenzione molto maggiore da parte dei media e dell'opinione pubblica: la riforma del lavoro e la delega fiscale. Fatto sta che, dei tre testi su cui si è discusso nell'ultima infinita riunione del Consiglio dei ministri, quello in favore degli istituti di credito è l'unico ad entrare immediatamente in vigore. Morale della favola: nessuno tocchi le commissioni bancarie.

In sostanza, l'ennesimo decreto approvato dalla squadra Monti ha come unico scopo quello di annullare una norma inserita nel pacchetto sulle liberalizzazioni, il cosiddetto "cresci-Italia", che è diventato legge appena giovedì scorso con l'approvazione definitiva della Camera. La misura -introdotta al Senato con un emendamento del Pd, cui il governo aveva dato parere contrario - prevedeva il taglio delle commissioni bancarie su crediti, fidi (l'impegno a mettere una somma a disposizione del cliente) e sconfinamenti (l'utilizzo di fondi oltre il limite accordato dalla banca tramite il fido).

Niente da fare, abbiamo scherzato: con l'ultimo decreto il governo limita la nullità delle commissioni a quelle banche che non si adegueranno alle future disposizioni sulla trasparenza dettate dal Cicr (il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio). Un modo politicamente corretto per dire "nessuna banca".

Il dato più interessante è che questa correzione in extremis ha incontrato una larghissima approvazione in Parlamento. Anzi, il decreto ricalca praticamente alla lettera un ordine del giorno presentato dalla maggioranza, con in calce le firme di esponenti Pd, Pdl e terzo polo. Un elemento in più - se mai ce ne fosse bisogno - per valutare la labirintite che affligge gli uomini del Partito democratico, ridottisi a chiedere di cancellare un emendamento che loro stessi avevano presentato.

Ma per quale ragione la correzione non è stata inserita all'interno dello stesso provvedimento sulle liberalizzazioni? E in ogni caso, con la bulimia legislatrice di questi tempi tecnici, non si poteva infilare in uno qualsiasi dei testi che attualmente viaggiano in Parlamento? No. E la ragione ha del fantozziano.

Il governo ha scelto di non modificare l'emendamento durante la discussione alla Camera perché questo avrebbe reso necessaria una terza lettura al Senato, mettendo l'intero decreto "cresci-Italia" a rischio scadenza (fissata per il 24 marzo). All'inizio si era pensato di procedere con un nuovo emendamento, stavolta al decreto semplificazioni, ma anche in questo caso l'aggiunta avrebbe imposto una terza lettura a Palazzo Madama. Tutte lungaggini di Palazzo che le banche non potevano permettersi.

La norma che avrebbe dovuto annullare le commissioni è entrata ufficialmente in vigore domenica, con la pubblicazione del decreto liberalizzazioni in Gazzetta Ufficiale. Se l'annullamento della misura fosse arrivato anche solo con qualche ora di ritardo, per gli istituti di credito sarebbero stati dolori. Non solo per i minori introiti e per i fastidi legati all'obbligo di modifica delle procedure interne, ma anche perché poi avrebbero rischiato una serie di contenziosi legali, soprattutto con le agguerritissime associazioni dei consumatori. Era quindi vitale che il virus anti-banche e l'antidoto salva-banche arrivassero esattamente allo stesso rintocco d'orologio.

Così è stato, e ora l'Abi può esultare. A inizio mese i vertici dell'Associazione bancaria italiana si erano dimessi proprio per ottenere questo risultato. Dopo qualche settimana, quando ormai si era capito che il pressing sull'Esecutivo aveva dato i suoi frutti, le dimissioni erano state "congelate". C'è da scommettere che non ne sentiremo più parlare.

L'Abi ha espresso "soddisfazione e apprezzamento" per la "sensibilità" dimostrata dalla politica italiana. Secondo l'Associazione, l'eventuale annullamento delle commissioni sulle linee di credito avrebbe causato agli istituti una perdita da 10 miliardi di euro, mettendo a rischio addirittura 80 mila posto di lavoro.

Ricordiamo che a dicembre il sistema bancario italiano ha incassato 116 miliardi di euro dei 489 messi a disposizione dalla Bce nell'ambito dell'operazione Ltro, che garantisce prestiti triennali al tasso ridicolo dell'1%. A febbraio la seconda puntata (Ltro2) ha portato nel nostro Paese altri 139 miliardi, su 529 complessivi. Il tutto con la possibilità per gli istituti di acquistare con quei soldi titoli di Stato e speculare sulla differenza dei rendimenti (oggi il tasso d'interesse sui Btp decennali è superiore al 5%). Ma di questo ovviamente ci siamo già dimenticati. 

 

di Mariavittoria Orsolato

Il famoso corridoio 5 non esiste più. Quella linea orizzontale di infrastrutture che avrebbe dovuto unire l'Europa da est a ovest - prima da Lisbona a Kiev e poi da Lisbona a Budapest - ha perso uno dei due capolinea: il Portogallo ha fatto due conti e, dati i tempi di vacche magre, ha deciso che la TAV non si farà.

opo che la Corte dei Conti lusitana ha annullato il contratto per la realizzazione della tratta principale del progetto di Alta Velocità fra Lisbona e Madrid, lo scorso giovedì il governo del conservatore Pedro Passos Coelho ha annunciato in un comunicato l'abbandono definitivo del progetto. Non solo perché costa troppo ma anche per l'intricata ragnatela di irregolarità e corruzione che si era avviluppata attorno al sistema degli appalti.

Posto che probabilmente la TAV sarebbe costata meno in Portogallo, il problema della sostenibilità dei costi per l'Alta Velocità è lo stesso anche per il nostro paese. In Italia il progetto ha avuto il benestare del gotha tecnico e, nonostante numerosissimi documenti ed evidenze attestino la non fattibilità (soprattutto a livello di spesa) della grande opera, a livello istituzionale si è deciso di andare avanti perché, come si legge nell'ask&tell sulla TAV prodotto dalla presidenza del Consiglio, “le occasioni di confronto ci sono state” e perchè in fondo il progetto è stato più volte modificato, ridimensionando anche la spesa.

Il progetto originale del 1991 prevedeva infatti 25 miliardi circa di costo totale ma nel 2007 il dossier presentato all'Unione Europea indicava per la parte comune italo-francese, poco più di 35 kilometri, un costo complessivo di circa 14 miliardi. Il 63%, di questa cifra rimaneva comunque a carico dell’Italia e corrisponde a 8,8 miliardi che, sommati ai 2 miliardi di euro di opere tecnologiche preventivate, faceva salire il totale a 10,8 miliardi di euro. Obiettivamente troppo, soprattutto nella misura in cui i cugini d'oltralpe avrebbero pagato poco più di un decimo delle spese.

Anche grazie alle vibranti proteste del movimento No Tav si è giunti quest'anno alla cosiddetta “TAV low cost”, terza versione del progetto per unire Torino e Lione che prevede di dividere i lavori in fasi temporalmente distinte. Il 30 gennaio, infatti, il ministro delle Infrastrutture francese Thierry Mariani e il viceministro italiano dei Trasporti Mario Ciaccia hanno sottoscritto l'accordo che dà il via libera alla realizzazione del treno ad alta velocità per fasi.

I cantieri dovrebbero partire nel gennaio 2013 a Saint Martin de la Porte: si partirebbe con la sola galleria di base, per ridurre drasticamente le pendenze da superare, completando la linea solo nel momento in cui si dovesse constatare una reale crescita del traffico. Da Chambery a Lione, i francesi costruiranno poi la loro tratta ferroviaria ad alta velocità, ma è un progetto tutto interno a quel paese e, dato che anche oltralpe i malumori riguardo la TAV cominciano a farsi sentire, non è detto che la grande opera vedrà la luce così facilmente.

Tornando ai numeri della “TAV low cost”, i costi del progetto che interessa l’Italia di fatto sarebbero solo quelli della sezione transfrontaliera della tratta internazionale, che è poi l’unica che l’Europa forse contribuirà a finanziare. Premesso che le cifre esatte sono difficilmente identificabili a causa della naturale lievitazione dei preventivi, con le modifiche apportate di recente la messa in opera della nuova linea dovrebbe venire a costare circa 8 miliardi. Se l’Europa ne mette due, alla Francia ne toccheranno due e mezzo, e all’Italia tre e mezzo.

Certo un bel risparmio rispetto all'esborso preventivato dal progetto originale, ma solo se non si tiene di alcuni importanti fattori: 1) con la diminuzione dei costi, diminuiscono anche gli eventuali benefici dell'opera; 2) pur avendo ridotto la tratta, la parte più onerosa spetta comunque all'Italia 3) se la linea sarà completata solo nel caso in cui le previsioni di traffico si realizzino - quindi, probabilmente mai - allora il tunnel da 57 kilometri è del tutto superfluo.

Secondo un calcolo dell'economista Marco Ponti e dell'ingegner Andrea Debernardi, il cambio di rotta sembrerebbe, almeno sulla carta, un’ottima decisione ma dal momento che il nuovo progetto si basa su calcoli non ufficiali, ancora non presentati all’opinione pubblica ed agli addetti ai lavori, la posizione dell'esecutivi pare quantomeno discutibile. Soprattutto perchè questa “retromarcia” sul progetto indica che sin dall'inizio si sarebbe potuto agire diversamente e spendendo meno. Ma tant'è.

Quello che invece inciderà sul bilancio per la TAV sarà sicuramente la nota di spesa che riguarda le forze dell'ordine. Costruire una grande opera contro la volontà di una popolazione può avere degli oneri che è interessante calcolare: in Valle di Susa sono stati mobilitati circa 2.000 poliziotti, per lo sgombero della Maddalena di Chiomonte. Ogni otto ore gli agenti in forza devono fare il cambio turno, con spostamento di mezzi, masserizie, costi di occupazione di alberghi e altri aspetti logistici.

Il costo lordo orario di un poliziotto in trasferta non è ovviamente fisso è possibile fissare una media sui 30 euro circa all’ora (comprensivi degli oneri sopracitati), stima decisamente al ribasso. Trenta euro moltiplicati per 2.000 poliziotti vogliono dire 60.000 euro all’ora. Per le 24 ore diventano 1milione 440 mila euro al giorno, al mese il costo diventa di oltre 43 milioni di euro mentre all'anno parliamo di oltre mezzo miliardo di euro.

L’attuale dispiegamento di forze serve a difendere il non-cantiere di Chiomonte dove dovrebbero cominciare i lavori di scavo del tunnel geognostico. Immaginate che cosa vorrebbe dire presidiare contemporaneamente decine di cantieri: il numero di uomini, mezzi, complessità logistica e ovviamente i costi sono perlomeno da triplicare.

Sono cifre che se moltiplicate per gli anni necessari all'effettiva messa in opera della linea ferroviaria diventano realmente insostenibili. Allo stato attuale delle cose, lo Stato italiano non ha certo le risorse per contrapporsi alla resistenza pacifica ma sempre tempestiva della popolazione della Val di Susa e del movimento No Tav che ormai ha valicato i confini della valle e ha mobilitato migliaia di persone lungo tutta la penisola. Ed è proprio questo il costo che più degli altri dovrebbe interessare a Monti e ai suoi ministri.

 

di Fabrizio Casari

Con la consueta voce metallica e il solito tono arrogante, il professor Monti ha archiviato le lacrime di circostanza della Fornero, dimenticato le promesse di equità e smarrito le chiacchiere sulla crescita, mostrando finalmente cosa intende per riforma del mercato del lavoro. Quello che propone, in sostanza, non si differenzia da quanto proponeva il governo Berlusconi tramite il pessimo Sacconi.

Il fine era - ed é rimasto - l’azzeramento dell’articolo 18 che impediva i licenziamenti arbitrari e immotivati, per poter rendere così i diritti dei lavoratori un elemento monetizzabile con pochi spiccioli. La storiella secondo la quale verranno incentivati i contratti a tempo indeterminato a danno di quelli a tempo determinato, è fumo negli occhi: si potrà anche assumere a tempo indeterminato se tanto licenziare é semplicissimo. E per quanto riguarda la decisione del giudice in caso di licenziamento disciplinare contestato dal lavoratore, non c'é niente niente di nuovo, è già così.

Nel disegno di legge del governo non c’è nessuna proposta di riforma del mercato, ma solo la ricerca dell’abbattimento del valore sociale del lavoro tramite l’espulsione dei diritti dei lavoratori dall’ordinamento giuslavorista del nostro paese. Altro che Germania: l’orizzonte del governo è la Grecia. La riformetta della ministra dovrà ora passare al vaglio del Parlamento, che farà qualche ammuina tramite emendamenti poco convinti e per nulla sostenuti con i quali forse alcuni riterranno di salvare la faccia.

Oltre che salvaguardare le imprese e i grandi gruppi finanziari che le controllano (e che, soprattutto, controllano il governo), il fine dell’esecutivo è evidente: intervenire ulteriormente sui salari, attraverso il ricorso ai licenziamenti senza più l’obbligo del reintegro del lavoratore discriminato. Il che permetterà alle aziende assoluta libertà di licenziamento e, con ciò, maggior potere ricattatorio sulle retribuzioni, sui turni e sulle mansioni dei lavoratori. Il fatto che sarà un giudice che dovrà decidere sull’eventuale indennizzo del lavoratore ingiustamente licenziato, non solo non è un deterrente al licenziamento discriminatorio, ma addirittura diverrà un incentivo a licenziare senza problemi.

E’ facile infatti prevedere che il mancato obbligo di reintegro vedrà l’utilizzo massiccio della leva dei licenziamenti; di conseguenza si produrrà un incremnto spaventoso del contenzioso, quindi con tempi ulteriormente più lunghi nei quali le stesse imprese dovranno eventualmente risarcire. Quest’ultimo aspetto non è secondario, tanto è vero che persino la norma che prevedeva la riduzione dei tempi per il giudizio di merito è stata abbandonata, proprio per garantire alle imprese di attendere anni per pagare il dovuto, visto che di reintegro non si parlerà più.

L’obiettivo del governo delle destre, è evidente, è quello di spaccare i sindacati e far implodere il centro-sinistra. La Cisl, come sempre negli ultimi 30 anni, è pronta alla concessione di ogni richiesta padronale. Bonanni, lento nell’eloquio, è rapidissimo a firmare accordi. Del resto la firma degli accordi separati è ormai la dimensione consueta della Cisl e rappresenta la cifra più autentica di un sindacato divenuto cinghia di trasmissione delle imprese.

Il teatrino con il quale fingono di allearsi con gli altri sindacati per trattare con il governo, mentre invece sottobanco trattano la resa, serve solo a ridimensionare in origine le proposte della CGIL in sede di confronto; poi, arrivati al rush finale, si presentano alla stampa dicendo che non firmeranno ed entrano nella sala riunioni dove firmeranno. Un sindacato giallo e filo-padronale, fucina di aspiranti leader politici che mai hanno avuto un ruolo importante nel paese, ma decisivi ad ogni snodo delle relazioni industriali per fiaccare dal di dentro i sindacati. Il vero cavallo di Troja della Confindustria.

Saranno guai, ora, per il PD. Come voterà in Parlamento? Bersani, nello stile che lo contraddistingue, ha immediatamente offerto una dichiarazione decisiva: “Deciderà il Parlamento”. Ma va? Non era ovviamente un’opinione sulle procedure per l’approvazione delle leggi quello che gli si chiedeva, ma forse molto altro non era in grado di dirlo, considerando che una parte del suo partito non lo considera nient’altro che un amministratore del rissoso condominio di Via del Nazareno. Se la foto di Vasto è passata di moda, sostituita da quella con Alfano e Casini, lo vedremo presto.

Il PD rischia davvero tanto: se la CGIL, che ha già indetto la riunione del Direttivo nazionale per valutare le forme e i tempi della mobilitazione, dovesse ingaggiare sul serio uno scontro sociale a tutto campo contro il governo, i vertici del PD entrerebbero davvero in fibrillazione. Votare in Parlamento una legge che umilia i lavoratori, che cancella la parte fondamentale delle loro tutele previste dallo Statuto e che assegna al padronato potere assoluto, riportando l’Italia al tempo degli agrari, costituirebbe uno strappo, forse l’ultimo, con la sua storia, per revisionata che sia.

Il prezzo elettorale da pagare sarebbe elevato e la spaccatura del mondo del lavoro sarebbe niente in confronto alla fine dell’illusione del PD alla prova delle urne. Converrà pensarci bene, perché sostenere un governo di destra, difendere lo smantellamento dello Statuto dei lavoratori e, contemporaneamente, proporsi come sinistra e chiedere il voto ai lavoratori, manifesterebbe una schizofrenia curabile solo con lo scioglimento anticipato. Non delle Camere, ma del PD.

di Carlo Musilli 

Anche in tempo di tecnici, Sigmund Freud avrebbe di che lavorare nel nostro Parlamento. Stavolta il caso riguardo l'affascinante lapsus del sottosegretario all'Economia, Gianfranco Polillo, e le sue improvvide affermazioni su un emendamento fondamentale al decreto liberalizzazioni. Di fronte alla commissione Bilancio della Camera, il buon Polillo si è lasciato trascinare da chissà quale forza misteriosa e l'ha sparata grossa: il governo - ha detto - si appresta a cancellare la norma che prevede la gratuità dei conti correnti per i pensionati con assegni previdenziali fino a 1.500 euro. Una vera bomba, tanto che sulle prime è venuto da chiedersi come mai una comunicazione così importante sia stata affidata alla bocca di un sottosegretario. Ma il bello doveva ancora venire.

Appena la notizia ha cominciato a circolare, tutti i giornali l'hanno sparata come primo titolo in home page e la polemica è esplosa. Nemmeno il tempo di indignarsi e a caricare le armi contro il "governo dei banchieri", che è arrivata un'affannata smentita. Apparentemente casuale, come la prima affermazione shock, e per bocca di un altro sottosegretario, stavolta allo Sviluppo. "Sulla norma sui conti correnti - ha risposto seccato Claudio De Vincenti ai colleghi che gli chiedevano lumi - il governo ha dato assolutamente parere positivo. Vale ciò che il Parlamento ha deciso". Esattamente il contrario di quanto aveva sostenuto poche ore prima Polillo, secondo cui - in origine - l'Esecutivo sarebbe stato contrario.

Per capire meglio occorre fare un passo indietro. L'emendamento al dl liberalizzazioni su cui si discute ha uno scopo ben preciso: correggere l'ingiustizia determinata da un'altra norma, approvata stavolta con il salva-Italia. Parliamo della misura sulla tracciabilità, che vieta di usare i contanti per i pagamenti superiori ai mille euro, obbligando migliaia di pensionati ad aprire un conto corrente per farsi accreditare l'assegno previdenziale. A tutto vantaggio delle banche, che - se il famoso emendamento sarà abolito - potranno incassare indisturbate le nuove commissioni piovute dal cielo.

A questo punto la vicenda ha assunto le tinte del giallo alla Agatha Christie. Il mistero è diventato più grande degli stessi sottosegretari. Si richiedeva un chiarimento da una voce ben più autorevole. E così è sceso in campo nientemeno che il premier. "Come ha chiarito De Vincenti - ha detto Monti in Parlamento - questa norma non è in discussione". Poi però è arrivata una significativa precisazione. Per quanto riguarda un altro emendamento al dl liberalizzazioni, quello che elimina le commissioni bancarie sulle linee di credito, "se il Parlamento vorrà cambiare la norma - ha aggiunto il Professore - agevoleremo il ritorno alla previgente disciplina da noi proposta nel salva-Italia e da voi approvata nella legge di conversione del decreto".

Qual è stato allora il peccato di Polillo? Il sottosegretario non era davvero in cerca di un quarto d'ora di notorietà: è molto più probabile che abbia semplicemente sbagliato tempistica, mettendo in luce la confusione che regna nel governo quando si parla di banche.

Ma dopo esser stato smentito dal Presidente del Consiglio in persona, ha ampiamente corretto il tiro: ''Non ho mai detto di eliminare la norma. Se un pensionato è costretto ad aprire, per ottemperarvi, un conto presso la banca, è giusto che esso sia esente da oneri, visto che la banca, grazie a quelle disposizioni, vede accrescere la massa di risparmio amministrata. Ma se quel pensionato ha anche altri redditi o proventi è giusto che paghi quanto ogni altro cittadino".

Questa è però solo una delle motivazioni che Polillo aveva dato a suo tempo. In commissione il sottosegretario aveva definito la norma "un notevole danno per le banche" sostenendo che avrebbe potuto addirittura causare "un’ulteriore stretta creditizia, che si riverbererebbe inevitabilmente sulle imprese e sulle famiglie".

La vera partita che si gioca in questi giorni è però quella sulle commissioni bancarie. Il governo e il Parlamento appaiono tutt'altro che restii a cancellare quell'emendamento, ma avrebbero fatto volentieri a meno di sbandierarlo ai quattro venti proprio in questo momento. Non solo siamo nella fase più incandescente della trattativa con le parti sociali per la riforma del lavoro, su cui si punta a chiudere già la prossima settimana.

Rimane ancora da approvare in via definitiva proprio il decreto sulle liberalizzazioni e - neanche a dirlo - ieri il premier si è appellato al "senso di responsabilità" dei deputati, chiedendo di dare il via libera al testo il prima possibile. E per giunta senza nuove modifiche, che allungherebbero troppo i tempi e comunque possono essere comodamente rinviate "a futuri interventi". Insomma, non era davvero il caso di rinvigorire le polemiche sulle banche proprio in questi giorni. Anche perché - lontano dal palcoscenico - la questione si sta risolvendo da sé.

A voler ipotizzare da che parte tiri il vento, sono istruttive le parole di Antonio Patuelli, vicepresidente dell'Abi (l'Associazione bancaria italiana): "Ci sono diverse soluzioni a breve, confidiamo nel dialogo tra Parlamento e governo”, ha detto dopo gli incontri fra l'associazione e i leader di Pdl, Pd e Udc. “Abbiamo verificato – ha proseguito Patuelli - una sensibilità e atteggiamenti comuni a che non vengano complicate le regole alle banche, regole che non esistono in nessuna parte d'Europa". Intanto i vertici dell'Abi, che qualche giorno fa avevano rimesso il mandato in segno di protesta, hanno "congelato" le loro dimissioni. In attesa che il Parlamento si smentisca di nuovo.

 


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