di Mariavittoria Orsolato

La TAV e i No Tav continuano a fare notizia, anche loro malgrado. Nella notte tra domenica e lunedì scorsi due centraline di smistamento sulla linea ferroviaria fra Rogoredo e Lambrate, nei pressi di Milano, hanno preso fuoco paralizzando per l'intera mattinata il traffico ferroviario. Su una delle centraline scampate alle fiamme campeggiava una scritta No Tav e tanto è bastato agli inquirenti e alla stampa per additare la “frangia anarco-insurrezionalista del movimento” come probabilissima responsabile.

Lo scorso 27 marzo, invece, un gruppo di attivisti No Tav appartenenti al centro sociale “Il Cantiere” ha simbolicamente occupato la sala Alessi del Comune di Milano per contestare il procuratore Caselli, presente in qualità di ospite in un convegno che poi si è regolarmente svolto.

Inutile enumerare le lenzuolate d'inchiostro sprecate per dipingere i No Tav come novelli squadristi/terroristi. E inutile dire che le loro ragioni vengono accantonate per spingere sull'acceleratore emozionale del binomio violenza/non violenza che, rendendo la questione inevitabilmente manichea, impedisce quello stesso dialogo tanto invocato dalle istituzioni.

Eppure, se la protesta contro l'Alta Velocità è sempre stata strenua, qualche buon motivo ci sarà e l'ingegner Mario Cavargna, Presidente di Pro Natura Piemonte, è arrivato ad elencarne addirittura 150. In questa sede andremo ad analizzare quello che più di tutti preoccupa gli abitanti della Valsusa: parliamo dei gravissimi pericoli per la salute degli abitanti della valle, quelli che deriverebbero dalla perforazione della montagna, dalle polveri tossiche in essa contenute e in generale dai cantieri.

Nel 2006, 103 medici sensibili alla causa No Tav hanno pubblicato un appello in cui si esprimevano forti preoccupazioni per la salute della popolazione connesse con la messa in opera dell'Alta Velocità. Lo stesso Studio di Via presentato da Lyon-Turin Ferroviaire ha calcolato un incremento del 10% nell’incidenza di malattie respiratorie e cardiovascolari a causa dei livelli di polveri sottili prodotte dai cantieri e, in base alle statistiche attuali, questo aumento corrisponderebbe a 20 morti in piu? all’anno.

Le polveri sottili PM 10, cui vanno aggiunte le polveri sottilissime PM 5 e PM 2.5, fanno parte dell’aerosol che respiriamo e che colpisce soprattutto le fasce piu? deboli della popolazione come gli anziani, i malati di patologie cardiache o respiratorie ed i bambini, che sono particolarmente sensibili in quanto le capacita? di difesa dalle aggressioni ambientali sono ancora parzialmente immature. Gli effetti delle polveri sottili o sottilissime possono favorire la comparsa o la riacutizzazione di patologie respiratorie croniche e di quelle cardiovascolari - come infarti e trombosi - e sono purtroppo una novita? nella valutazione dei danni per la salute provocati dai cantieri.

Ma quello che più spaventa gli abitanti della valle è la perforazione della montagna, ormai decisa con il via libera ai lavori del progetto low-cost che, è bene ricordarlo, partirà proprio con l'escavazione della galleria di base. Le splendide alture che abbracciano la Valsusa sono infatti cariche di amianto e uranio: la particolare pericolosita? di questi minerali e? data dall'emissione di raggi radioattivi alfa e beta, poco penetranti e quindi poco rilevabili, ma molto piu? distruttivi quando, sotto forma di polvere, arrivano a contatto con la pelle e le mucose.

Il problema dell’amianto e? però stato accantonato e spesso minimizzato dalle istituzioni, ammettendo la presenza di giacimenti solo per i primi 500 metri, nella zona di Mompantero, dove per anni LTF ha negato che si potessero trovare rocce amiantifere. La loro presenza e? particolarmente massiccia in bassa valle, ma anche in alta valle le rilevazioni hanno accertato i rischi: basti ricordare che fu proprio a causa della presenza di amianto che l’impianto olimpico di bob fu spostato da Sauze d’Oulx a Cesana, e che la presenza di queste rocce sta bloccando e ritardando da anni i lavori della circonvallazione di Claviere.

Esiste poi uno studio (commissionato dalla stessa società incaricata di costruire la parte italiana della nuova linea ferroviaria, la RFI) svolto dall'Università di Siena, che riferisce chiaramente la presenza di fibra di amianto nei tratti interessati dai lavori infrastrutturali. Ad esporsi in prima linea, a sostegno della protesta dei No Tav, è stato anche lo specialista oncologo Edoardo Gays dell'ospedale San Luigi di Orbassano, che già nel 2004 descriveva la pericolosità dell'amianto presente nelle montagne che verrebbero attraversate dalle gallerie: “Da detto studio (quello svolto dall'Università di Siena n.d.a.) si conferma la presenza di amianto in varietà e forme diverse nell’ammasso roccioso presente lungo il percorso progettato per il potenziamento della linea ferroviaria Bussoleno - Torino nell’ambito del cosiddetto treno ad alta capacità/velocità. Per la realizzazione delle gallerie previste per oltre 23 chilometri, il volume dei materiali contenenti amianto da scavare prima, movimentare poi e infine stoccare è stato stimato in oltre un milione di metri cubi (1.152.000), volumi peraltro passibili di aumenti anche significativi”.

Le misure di cautela e di smaltimento per l’amianto proposte da LTF mostrano poi un problema ancora irrisolto. Dire che lo smarino contaminato da amianto verrà chiuso in sacchi e spedito in Germania, significa non rendersi conto che anche solo 500 metri di tunnel di base corrispondono a 170.000 metri cubi, pari al carico di 17.000 TIR. Il trattamento con l’acqua - proposto per ovviare al rischio di diffusione - lega solo momentaneamente la parte piu? fine delle polveri, ma poi la libera o la deposita con sorprendente facilita?, soprattutto nella percolazione alla base dei mucchi: da qui il vento la sposta ovunque.

Anche le mineralizzazioni di uranio sono una realta?: il problema era stato rilevato già nel 1998 dalle associazioni ambientaliste, ma LTF ed i suoi consulenti lo avevano lungamente negato. Nell’attuale studio di VIA per il tunnel di base non se ne parla nemmeno. Eppure il gruppo dell’Ambin - la formazione alpina che abbraccia la Valsusa e che sara? attraversata dalle gallerie - e? stato oggetto di fruttuose ricerche da parte francese nel 1980 con la Minatome, da parte italiana nel 1959 con la Somiren e nel 1977 con l’Agip Mineraria. Su entrambi i versanti si e? ipotizzato un suo sfruttamento. Allo stato attuale dei rilevamenti in Valsusa ci sono ben 28 aree nelle quali i filoni di uranio vengono in superficie. Sono sparsi un po’ ovunque e non è vero, come affermato da LTF, che con la nuova modifica del progetto i tratti a rischio contaminazione verranno evitati.

Lo scorso 4 marzo un team capitanato dall'ingegner Massimo Zucchetti, professore ordinario del Dipartimento per l'energia del Politecnico di Torino, ha effettuato una spedizione all'interno della miniera di uranio di Giaglione-Venaus, a pochi kilometri dal cantiere geognostico della Maddalena. Armati di tre diversi rilevatori di radiazioni, hanno constatato e dimostrato che il pericolo radioattivo non è una delle tante velleità dei No Tav ma un rischio purtroppo realissimo. Se la soglia di sicurezza si aggira intorno ai 400 colpi al secondo, già nel centro abitato di Giaglione hanno rilevato 550 colpi/secondo; davanti all’ingresso della miniera il contatore è subito salito a 1500,  mentre dentro la miniera è schizzato a 7000, ovvero 20 volte la misura di tolleranza.

Date queste evidenze, sembra ormai ovvio che non appena cominceranno il lavori di trivellazione si sprigioneranno polveri potenzialmente letali. Per i pochi che ancora non lo sapessero, l’esposizione all’amianto - anche non legato ad attività lavorativa - può causare gravissime patologie, tra cui il mesotelioma, una malattia tumorale maligna in grado di stroncare nel giro di 275 giorni. L’uranio invece, se inalato o ingerito, provoca contaminazione interna e puo? essere causa di linfomi. Un famoso studio dell’Istituto Superiore di Sanita? ha evidenziato un incremento di linfomi di Hodgkin nei militari impiegati in “missione di pace” nei Balcani ed esposti all’uranio impoverito: ben il 236% in piu? rispetto alla popolazione non esposta. E l’uranio che potrebbe sprigionarsi in Valsusa e? notevolmente piu? radioattivo di quello impoverito a fini bellici.

Il movimento No Tav è spesso tacciato di misoneismo, di prepotenza, di aver strizzato l'occhio alle componenti più violente dell'antagonismo italiano. Ma nel momento in cui ci sono prove provate che un'opera pubblica dalla dubbia funzionalità potrebbe mettere a rischio la salute o, addirittura, la vita delle persone che ne abitano il territorio, si tratta soprattutto di istinto di sopravvivenza. Un istinto atavico che nessuna chiacchiera tecnica o imposizione dall'alto può sopire, che non si ferma di fronte alle forze dell'ordine e porta fisiologicamente a combattere, a resistere. Di questo, almeno, i No Tav chiedono di prendere atto.

 

di Vincenzo Maddaloni

La bandiera che sventola, come al solito, è quella del “pluralismo” tradito. Ne è stata l’occasione più recente la chiusura del quotidiano Il Riformista che sabato scorso ha sospeso le pubblicazioni e affidato l’amministrazione della cooperativa a un liquidatore. Com’era nelle previsioni, poiché da diverse settimane si parlava dei problemi economici del quotidiano diretto da Emanuele Macaluso, sebbene negli ultimi giorni era sembrato che i nuovi fondi pubblici per l’editoria potessero evitarne la chiusura, ma anche questi si sono poi rivelati insufficienti alla sopravvivenza giornale.

Per dovere di cronaca, il pluralismo anche quest’anno è stato contrattato col potere politico con dei risultati per niente male, se si tiene a mente il rigorismo conclamato dal governo Monti. Infatti ben centoventi milioni di euro finanzieranno il fondo per l’editoria. Dovevano essere quarantasette, ma pressioni assai autorevoli hanno portato l’elargizione a ben più del doppio, senza che nemmeno il governo dei tecnici abbia preso sul serio l’esigenza di ristrutturare seriamente un’industria che, per pareggiare i bilanci, si serve dei soldi dei contribuenti.

Quei centoventi milioni diventano poi un fatto davvero irritante se si pensa che la prima cosa che andrebbe fatt dopo i rincari, sarebbe alleggerire il carico fiscale sui lavoratori, le famiglie, le imprese e i consumatori, cioè sui più penalizzati dalle conseguenze della crisi. Dopo tutto quale pluralismo nell’informazione potrebbe garantire chi, di anno in anno, deve contrattare col potere politico una “donazione” che pareggi i suoi bilanci?  Inoltre, rivolgendosi prevalentemente a una categoria di addetti ai lavori come i militanti del ceto politico, di solito questi giornali affrontano argomenti che non rientrano negli interessi più immediati dei lettori “comuni”, pertanto questa loro scontata peculiarità li rende particolarmente deboli anche sotto il profilo diffusionale e pubblicitario. In altre parole, per ogni copia venduta ai lettori di un quotidiano politico, ce ne sono tra le sette e le nove che tornano indietro.

Spiega il quotidiano online www.lavoce.info: «È utile interrogarsi sulle condizioni di sopravvivenza e sulle modalità del sostegno pubblico, anche se per molte testate esistono pochi dati  affidabili. Solo per Avvenire, Libero, Il Manifesto e l’Unità sono disponibili dati di dettaglio Ads, l'associazione che certifica i numeri sulla diffusione e sulla tiratura dei quotidiani. Dal 2007, Il Manifesto e l’Unità hanno avuto livelli di resa, la differenza tra copie tirate e vendute in rapporto alle copie tirate, rispettivamente del 60 e del 7 3 per cento. L’Avvenire apparentemente restituisce meno copie, ma se si tolgono i 70mila abbonamenti, la resa sale al 56 per cento. Per Liberazione e Il Secolo d’Italia (dati Fieg dai bilanci) le vendite risultano rispettivamente di 8mila e 3mila copie giornaliere, mentre le rese sono in ambedue i casi dell’87 per cento.

«A titolo di confronto - ricorda infine www.lavoce.it, - le prime tre testate nazionali hanno una resa del 21,9 per cento, mentre i quotidiani Ads tra le 20mila e le 50mila copie vendute giornaliere arrivano al 22,1 per cento.

E le stesse diseconomie dei quotidiani politici si ritrovano in altre testate più grandi, ma con una scarsa base territoriale, come Libero o Il Giornale che hanno rese del 49 e del 42 per cento, più che doppie dunque rispetto agli standard.». All’elenco vi aggiungerei anche Il Foglio Quotidiano - resa accertata dell’87 per cento - diretto da Giuliano Ferrara perché Il Foglio è organo della Convenzione per la Giustizia, movimento politico (di fatto inesistente). In questo modo può beneficiare dei finanziamenti pubblici all'editoria (nel caso specifico di 0,70 centesimi per ogni copia stampata).

In questo scenario tipicamente italiano e che non trova riscontro in alcuna altra parte d’Europa, non si capisce perché questi fondi vadano sempre a beneficio di chi già esiste e molto difficilmente a sostegno di nuove realtà editoriali: magari anche online che ritengano di farvi ricorso.

Tuttavia quel che più irrita è che nell’epoca del rigore obbligato e tante volte declamato dal governo di Mario Monti, ci troviamo di fronte a un tale spreco (ripeto: per ogni copia venduta di un quotidiano politico, ce ne sono tra le sette e le nove che tornano indietro) che rende ancora più contradditorio - e perciò più amaro - l’appuntamento col sacrifico che Monti impone come realtà quotidiana.

Dopotutto in una realtà come questa - ripeto, soltanto italiana - quella che nella prassi è definita la categoria dei giornalisti cessa di esserla ogni giorno che passa. Poiché la definizione di una identità professionale, come quella dei giornalisti appunto, rischia di diventare soltanto soggettiva e quindi doppiamente relativa.

Ormai è giornalista chi si qualifica come tale, e chi riceve dalla società dei lettori il diritto a qualificarsi così. Infatti, una vicenda penosa come questa delle “donazioni” fa crescere in maniera esponenziale la distanza tra chi si crede un giornalista “al di sopra dei fatti” e ciò che pensa di lui la società dei lettori, soprattutto quando a rappresentarlo è uno dei sessantaquattro e passa direttori di giornali di partito.

Siccome gli editori (delle testate sovvenzionate dalla Stato, ma anche di quelle non sovvenzionate) in perenne conflitto con i bilanci deficitari chiedono meno professionismo e più precariato, lo scenario che si va concretizzando, giorno dopo giorno, è quello di schiere di ragazzi e di ragazze che tagliano, incollano e pubblicano le notizie proposte dalle agenzie d’informazione, senza poterle indagare alla fonte.

Il tutto supportato da una gestione accorta delle voci autorevoli raccolte su piazza, nelle sedi dei partiti, negli uffici delle lobby finanziarie - le voci degli editorialisti e dei commentatori - da cui, di volta in volta, si può ottenere tutto e il contrario di tutto, considerato che diminuiscono per cause naturali coloro che hanno fatto la Resistenza ed è rimasta soltanto la CGIL a metterla giù dura ogni qual volta si tenta di stravolgere i principi della Costituzione.

Se questa è la realtà dei fatti, allora sarebbe urgente tenere desta l’attenzione su ogni singolo fatto che la compone e della quale gli sprechi ne fanno parte. Non soltanto perché il giornalismo si ricongiunga alla verità, ma perché - governo dei tecnici consentendo - la politica cominci a sprovincializzarsi. Avremmo tutti da guadagnarne. Sebbene pare che non ce ne sia la voglia, perché è più redditizio in termine di consenso, sprecare.

www.vincenzomaddaloni.it


I

di Carlo Musilli 

Il primo destinatario di queste parole è naturalmente il Partito Democratico e il casus belli è la riforma dell'articolo 18. Dopo aver cancellato il concetto stesso di concertazione con i sindacati, ridotti a interlocutori occasionali con cui scambiare quattro chiacchiere di cortesia prima di imporre la propria linea, Monti sta ora svuotando di qualsiasi significato il ruolo del Parlamento.

Fin qui i tecnici bocconiani hanno operato sempre per decreto, blindando sistematicamente i testi con il ricorso alla fiducia. Le ragioni? Sempre le stesse: dobbiamo rassicurare i mercati, tempi certi e ridotti nell'approvazione dei provvedimenti sono fondamentali per non dilapidare la ritrovata credibilità a livello internazionale.

La riforma del mercato del lavoro arriverà però in Parlamento come disegno di legge ordinario. Il governo ha scelto di seguire questa strada dopo le consultazioni con il Presidente della Repubblica, che ha giustamente fatto notare come un decreto su un tema così delicato sarebbe stato visto come un colpo di mano politicamente inaccettabile. Il problema è che anche in questo caso sembra trattarsi più che altro di un gesto di cortesia: l'Esecutivo concede per una volta a deputati e senatori la possibilità di guadagnarsi lo stipendio, a patto che si tratti di una mera finzione. Tutto quello che devono fare è dire ancora una volta "sì", senza azzardarsi a modificare l'impostazione di fondo del Ddl.

Lo scontro si è acceso in particolare sui licenziamenti per motivi economici. La riforma Fornero cancella in questi casi la possibilità del reintegro per i lavoratori mandati via ingiustamente, che avranno diritto a un semplice indennizzo. Si tratta di una modifica che fa scivolare l'Italia a destra della stessa Germania: il famoso "modello tedesco" prevede infatti che il giudice possa scegliere fra indennizzo o reintegro in caso di licenziamento ingiusto sia per motivi economici che disciplinari. Senza contare che si applica alle aziende con oltre dieci (e non quindici) dipendenti e che dev’essere concertato con i sindacati. Ora, con quale faccia Bersani & Company potranno mai approvare una riforma del genere e poi pretendere il voto degli elettori di sinistra?

D'altra parte, Monti sa benissimo che nessuno dei partiti si prenderà mai la responsabilità di far cadere il suo governo. Tantomeno il Pd, che ha fatto delle divisioni interne un segno distintivo e al momento non riesce più a vincere nemmeno le sue stesse primarie. Senza contare che, prima di andare alle urne per le politiche, molti democratici sperano ancora nella riforma elettorale, che consentirebbe di allentare gli scomodi lacci del patto di Vasto con Sel e Idv.

Forte di questa consapevolezza, il Professore tira dritto, probabilmente anche perché cedere oggi al Pd sul fronte del lavoro lo costringerebbe a dimostrarsi in futuro altrettanto arrendevole con il Pdl sul capitolo giustizia, magari con l'abolizione di quel reato di concussione che dà tanto fastidio a Berlusconi nel caso Ruby. Non dimentichiamo però le ampie concessioni già fatte ai pidiellini nel decreto liberalizzazioni, da cui sono sparite in corso d'opera una valanga di norme che avrebbero danneggiato il bacino elettorale destrorso (tassisti in primis).

Nei sondaggi la popolarità di Monti sta inevitabilmente calando, ma questo era prevedibile. Il governo degli accademici può fare tranquillamente a meno del consenso popolare, ma i partiti che lo sostengono in Parlamento no. E fra poco ci sono le amministrative. Il Pd farebbe bene a ricordarselo. 

   

di Carlo Musilli 

In sordina, alla chetichella, ma alla fine il mini-decreto salva-banche è arrivato. Il governo lo ha varato con disinvoltura venerdì scorso, infilandolo fra due provvedimenti che giustamente hanno catalizzato un'attenzione molto maggiore da parte dei media e dell'opinione pubblica: la riforma del lavoro e la delega fiscale. Fatto sta che, dei tre testi su cui si è discusso nell'ultima infinita riunione del Consiglio dei ministri, quello in favore degli istituti di credito è l'unico ad entrare immediatamente in vigore. Morale della favola: nessuno tocchi le commissioni bancarie.

In sostanza, l'ennesimo decreto approvato dalla squadra Monti ha come unico scopo quello di annullare una norma inserita nel pacchetto sulle liberalizzazioni, il cosiddetto "cresci-Italia", che è diventato legge appena giovedì scorso con l'approvazione definitiva della Camera. La misura -introdotta al Senato con un emendamento del Pd, cui il governo aveva dato parere contrario - prevedeva il taglio delle commissioni bancarie su crediti, fidi (l'impegno a mettere una somma a disposizione del cliente) e sconfinamenti (l'utilizzo di fondi oltre il limite accordato dalla banca tramite il fido).

Niente da fare, abbiamo scherzato: con l'ultimo decreto il governo limita la nullità delle commissioni a quelle banche che non si adegueranno alle future disposizioni sulla trasparenza dettate dal Cicr (il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio). Un modo politicamente corretto per dire "nessuna banca".

Il dato più interessante è che questa correzione in extremis ha incontrato una larghissima approvazione in Parlamento. Anzi, il decreto ricalca praticamente alla lettera un ordine del giorno presentato dalla maggioranza, con in calce le firme di esponenti Pd, Pdl e terzo polo. Un elemento in più - se mai ce ne fosse bisogno - per valutare la labirintite che affligge gli uomini del Partito democratico, ridottisi a chiedere di cancellare un emendamento che loro stessi avevano presentato.

Ma per quale ragione la correzione non è stata inserita all'interno dello stesso provvedimento sulle liberalizzazioni? E in ogni caso, con la bulimia legislatrice di questi tempi tecnici, non si poteva infilare in uno qualsiasi dei testi che attualmente viaggiano in Parlamento? No. E la ragione ha del fantozziano.

Il governo ha scelto di non modificare l'emendamento durante la discussione alla Camera perché questo avrebbe reso necessaria una terza lettura al Senato, mettendo l'intero decreto "cresci-Italia" a rischio scadenza (fissata per il 24 marzo). All'inizio si era pensato di procedere con un nuovo emendamento, stavolta al decreto semplificazioni, ma anche in questo caso l'aggiunta avrebbe imposto una terza lettura a Palazzo Madama. Tutte lungaggini di Palazzo che le banche non potevano permettersi.

La norma che avrebbe dovuto annullare le commissioni è entrata ufficialmente in vigore domenica, con la pubblicazione del decreto liberalizzazioni in Gazzetta Ufficiale. Se l'annullamento della misura fosse arrivato anche solo con qualche ora di ritardo, per gli istituti di credito sarebbero stati dolori. Non solo per i minori introiti e per i fastidi legati all'obbligo di modifica delle procedure interne, ma anche perché poi avrebbero rischiato una serie di contenziosi legali, soprattutto con le agguerritissime associazioni dei consumatori. Era quindi vitale che il virus anti-banche e l'antidoto salva-banche arrivassero esattamente allo stesso rintocco d'orologio.

Così è stato, e ora l'Abi può esultare. A inizio mese i vertici dell'Associazione bancaria italiana si erano dimessi proprio per ottenere questo risultato. Dopo qualche settimana, quando ormai si era capito che il pressing sull'Esecutivo aveva dato i suoi frutti, le dimissioni erano state "congelate". C'è da scommettere che non ne sentiremo più parlare.

L'Abi ha espresso "soddisfazione e apprezzamento" per la "sensibilità" dimostrata dalla politica italiana. Secondo l'Associazione, l'eventuale annullamento delle commissioni sulle linee di credito avrebbe causato agli istituti una perdita da 10 miliardi di euro, mettendo a rischio addirittura 80 mila posto di lavoro.

Ricordiamo che a dicembre il sistema bancario italiano ha incassato 116 miliardi di euro dei 489 messi a disposizione dalla Bce nell'ambito dell'operazione Ltro, che garantisce prestiti triennali al tasso ridicolo dell'1%. A febbraio la seconda puntata (Ltro2) ha portato nel nostro Paese altri 139 miliardi, su 529 complessivi. Il tutto con la possibilità per gli istituti di acquistare con quei soldi titoli di Stato e speculare sulla differenza dei rendimenti (oggi il tasso d'interesse sui Btp decennali è superiore al 5%). Ma di questo ovviamente ci siamo già dimenticati. 

 

di Mariavittoria Orsolato

Il famoso corridoio 5 non esiste più. Quella linea orizzontale di infrastrutture che avrebbe dovuto unire l'Europa da est a ovest - prima da Lisbona a Kiev e poi da Lisbona a Budapest - ha perso uno dei due capolinea: il Portogallo ha fatto due conti e, dati i tempi di vacche magre, ha deciso che la TAV non si farà.

opo che la Corte dei Conti lusitana ha annullato il contratto per la realizzazione della tratta principale del progetto di Alta Velocità fra Lisbona e Madrid, lo scorso giovedì il governo del conservatore Pedro Passos Coelho ha annunciato in un comunicato l'abbandono definitivo del progetto. Non solo perché costa troppo ma anche per l'intricata ragnatela di irregolarità e corruzione che si era avviluppata attorno al sistema degli appalti.

Posto che probabilmente la TAV sarebbe costata meno in Portogallo, il problema della sostenibilità dei costi per l'Alta Velocità è lo stesso anche per il nostro paese. In Italia il progetto ha avuto il benestare del gotha tecnico e, nonostante numerosissimi documenti ed evidenze attestino la non fattibilità (soprattutto a livello di spesa) della grande opera, a livello istituzionale si è deciso di andare avanti perché, come si legge nell'ask&tell sulla TAV prodotto dalla presidenza del Consiglio, “le occasioni di confronto ci sono state” e perchè in fondo il progetto è stato più volte modificato, ridimensionando anche la spesa.

Il progetto originale del 1991 prevedeva infatti 25 miliardi circa di costo totale ma nel 2007 il dossier presentato all'Unione Europea indicava per la parte comune italo-francese, poco più di 35 kilometri, un costo complessivo di circa 14 miliardi. Il 63%, di questa cifra rimaneva comunque a carico dell’Italia e corrisponde a 8,8 miliardi che, sommati ai 2 miliardi di euro di opere tecnologiche preventivate, faceva salire il totale a 10,8 miliardi di euro. Obiettivamente troppo, soprattutto nella misura in cui i cugini d'oltralpe avrebbero pagato poco più di un decimo delle spese.

Anche grazie alle vibranti proteste del movimento No Tav si è giunti quest'anno alla cosiddetta “TAV low cost”, terza versione del progetto per unire Torino e Lione che prevede di dividere i lavori in fasi temporalmente distinte. Il 30 gennaio, infatti, il ministro delle Infrastrutture francese Thierry Mariani e il viceministro italiano dei Trasporti Mario Ciaccia hanno sottoscritto l'accordo che dà il via libera alla realizzazione del treno ad alta velocità per fasi.

I cantieri dovrebbero partire nel gennaio 2013 a Saint Martin de la Porte: si partirebbe con la sola galleria di base, per ridurre drasticamente le pendenze da superare, completando la linea solo nel momento in cui si dovesse constatare una reale crescita del traffico. Da Chambery a Lione, i francesi costruiranno poi la loro tratta ferroviaria ad alta velocità, ma è un progetto tutto interno a quel paese e, dato che anche oltralpe i malumori riguardo la TAV cominciano a farsi sentire, non è detto che la grande opera vedrà la luce così facilmente.

Tornando ai numeri della “TAV low cost”, i costi del progetto che interessa l’Italia di fatto sarebbero solo quelli della sezione transfrontaliera della tratta internazionale, che è poi l’unica che l’Europa forse contribuirà a finanziare. Premesso che le cifre esatte sono difficilmente identificabili a causa della naturale lievitazione dei preventivi, con le modifiche apportate di recente la messa in opera della nuova linea dovrebbe venire a costare circa 8 miliardi. Se l’Europa ne mette due, alla Francia ne toccheranno due e mezzo, e all’Italia tre e mezzo.

Certo un bel risparmio rispetto all'esborso preventivato dal progetto originale, ma solo se non si tiene di alcuni importanti fattori: 1) con la diminuzione dei costi, diminuiscono anche gli eventuali benefici dell'opera; 2) pur avendo ridotto la tratta, la parte più onerosa spetta comunque all'Italia 3) se la linea sarà completata solo nel caso in cui le previsioni di traffico si realizzino - quindi, probabilmente mai - allora il tunnel da 57 kilometri è del tutto superfluo.

Secondo un calcolo dell'economista Marco Ponti e dell'ingegner Andrea Debernardi, il cambio di rotta sembrerebbe, almeno sulla carta, un’ottima decisione ma dal momento che il nuovo progetto si basa su calcoli non ufficiali, ancora non presentati all’opinione pubblica ed agli addetti ai lavori, la posizione dell'esecutivi pare quantomeno discutibile. Soprattutto perchè questa “retromarcia” sul progetto indica che sin dall'inizio si sarebbe potuto agire diversamente e spendendo meno. Ma tant'è.

Quello che invece inciderà sul bilancio per la TAV sarà sicuramente la nota di spesa che riguarda le forze dell'ordine. Costruire una grande opera contro la volontà di una popolazione può avere degli oneri che è interessante calcolare: in Valle di Susa sono stati mobilitati circa 2.000 poliziotti, per lo sgombero della Maddalena di Chiomonte. Ogni otto ore gli agenti in forza devono fare il cambio turno, con spostamento di mezzi, masserizie, costi di occupazione di alberghi e altri aspetti logistici.

Il costo lordo orario di un poliziotto in trasferta non è ovviamente fisso è possibile fissare una media sui 30 euro circa all’ora (comprensivi degli oneri sopracitati), stima decisamente al ribasso. Trenta euro moltiplicati per 2.000 poliziotti vogliono dire 60.000 euro all’ora. Per le 24 ore diventano 1milione 440 mila euro al giorno, al mese il costo diventa di oltre 43 milioni di euro mentre all'anno parliamo di oltre mezzo miliardo di euro.

L’attuale dispiegamento di forze serve a difendere il non-cantiere di Chiomonte dove dovrebbero cominciare i lavori di scavo del tunnel geognostico. Immaginate che cosa vorrebbe dire presidiare contemporaneamente decine di cantieri: il numero di uomini, mezzi, complessità logistica e ovviamente i costi sono perlomeno da triplicare.

Sono cifre che se moltiplicate per gli anni necessari all'effettiva messa in opera della linea ferroviaria diventano realmente insostenibili. Allo stato attuale delle cose, lo Stato italiano non ha certo le risorse per contrapporsi alla resistenza pacifica ma sempre tempestiva della popolazione della Val di Susa e del movimento No Tav che ormai ha valicato i confini della valle e ha mobilitato migliaia di persone lungo tutta la penisola. Ed è proprio questo il costo che più degli altri dovrebbe interessare a Monti e ai suoi ministri.

 


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